Las Navas di Tolosa 1212
Inviato: 29 settembre 2015, 20:30
Tratto da "Le grandi battaglie del Medioevo" di Andrea Fedriani.
Ai tempi della battaglia di Poitiers era la dinastia degli Omayyadi, diretti discendenti del Profeta, a detenere il potere supremo di un impero sterminato che, proprio in quell’anno, a est aveva raggiunto il Belucistan. Poco dopo lo scontro, a Damasco, sede del califfato, ebbe luogo una sanguinosa rivoluzione che portò all’avvento sul trono di un clan persiano, gli Abbasidi. Allo sterminio omayyade sopravvisse un giovane nipote del califfo che, approfittando della sua origine berbera per parte di madre, fuggì in Africa, dove assunse la guida delle popolazioni che si erano ribellate al dominio degli arabi di Spagna, sempre più divisi tra loro.
Il giovane intuì che la penisola iberica gli offriva la prospettiva di ricreare un dominio per la sua dinastia, e nel 756 vi sbarcò sconfiggendo a Cordoba gli avversari; instaurò così un nuovo califfato omayyade nell’Andalusia, quello appunto di Cordoba, che divenne la città più importante della civiltà altomedievale insieme a Costantinopoli. L’arco temporale di esistenza del califfato, comprensivo di splendore e decadenza, durò tre secoli, al termine dei quali, subito dopo il Mille, si frantumò in una miriade di staterelli, chiamati taifa, che dividevano la penisola con alcuni principati cristiani, allora ancora confinati nell’estremo lembo nordoccidentale, in Galizia, León e Portogallo.
La dissoluzione del califfato permise ai principati cristiani di estendere la propria area di influenza e di dare il via a un principio di aggregazione, sancendo, di fatto, l’inizio della reconquista. L’artefice iniziale del processo fu Ferdinando I, che nel 1037 divenne re di Castiglia e, tramite matrimonio, estese la propria sovranità al León e alla Galizia. Negli ultimi anni del suo regno, rese soggetti alcuni dei principati islamici più settentrionali e nella seconda metà del secolo, l’età di el Cid e di Alfonso VI, le quotazioni cristiane salirono vertiginosamente, guadagnando alla corona anche la Navarra, l’Aragona e parte della Catalogna.
Ma l’Islam aveva un asso nella manica da gettare sul tavolo da gioco. Si trattava degli Almoravidi, una confederazione tribale fondamentalista del Marocco che era venuta assumendo una sempre maggiore importanza nell’Africa settentrionale. Gli arabi di Spagna, divisi e rammolliti, cedettero il testimone della lotta ai più vigorosi confratelli mori, la cui presenza nella penisola iberica, dagli anni Ottanta dell’XI secolo, pose un argine all’espansione cristiana e rinnovò la spinta della jihad.
Ma gli Almoravidi dimostrarono una solidità di gran lunga minore degli Omayyadi. Nell’arco di mezzo secolo, i musulmani erano di nuovo sulla difensiva, grazie all’energica azione di Alfonso I d’Aragona, detto il Battagliero, che conquistò Saragozza e portò ben più a sud la linea di demarcazione tra la sfera di controllo cristiana e quella islamica, permettendo al proprio erede di governare anche la Catalogna. Ormai, la Spagna era letteralmente divisa in due, sebbene etnie e religioni fossero distribuite in maniera tutt’altro che uniforme lungo l’arco dell’intera penisola. Non a caso, a metà del XIII secolo Alfonso VII poté fregiarsi della corona di Castiglia e León, e del titolo di “Imperatore in Spagna e re degli uomini di due religioni”, guadagnandosi la supremazia su altri stati come la Navarra e l’Aragona, sui conti di Barcellona e Tolosa e su alcuni regni musulmani.
Tuttavia, il processo di fusione era ancora ben lungi dall’essere concluso: l’unione dei due regni principali fu ancora una volta temporanea, e fu proprio questa difficoltà dei cristiani a raggiungere una stabile coesione, a rendere il processo della reconquista uno dei più interminabili della Storia. In quel tempo, ci si misero anche dei crociati tedeschi e francesi a parcellizzare ulteriormente i territori in mano ai cristiani, creando un altro regno: approfittando della debolezza degli Almoravidi, infatti, prima di andare in Terrasanta fecero pratica di lotta all’infedele espugnando nel 1147 Lisbona e scegliendo per il nuovo regno del Portogallo un re in Borgogna, il figlio del duca, Alfonso Enrico.
Eppure, l’Islam aveva nel continente africano un serbatoio inesauribile, in grado di rivitalizzare le sue forze quando il declino le sopraffaceva. Gli Almoravidi avevano appena perso il loro impero in Africa, dove nel 1125 una confederazione tribale fondamentalista proveniente dalle montagne dell’Atlante, gli Almohadi, si era installata al loro posto. Poco prima dello scoccare della metà del secolo, questi ultimi si trasferirono in Spagna, dove soppiantarono in breve tempo i loro correligionari e diedero nuova linfa al blocco islamico, unificando nell’arco di un quarto di secolo i vari stati in cui si era andato frazionando; nel 1172, infatti, cadde nelle loro mani l’ultimo regno, quello di Valencia, alleato del conte cristiano di Barcellona.
L’arrivo della nuova popolazione berbera coincise con una recrudescenza dei contrasti tra i regni cristiani. Dopo la morte di Alfonso VII, i suoi figli, eredi dei regni, guerreggiarono tra loro e con Navarra e Aragona per oltre un ventennio; solo nel 1180 Alfonso VIII di Castiglia riuscì a porre fine alla guerra civile che travagliava il suo dominio e a trattare accordi con gli altri regni. Alleatosi con lo zio Ferdinando, sovrano del León, fu perfino in grado di passare al contrattacco e recuperare parte dei territori perduti a favore degli Almohadi.
Ma questi ultimi erano ancora in salute, e il loro imperatore, Ya’qub, aveva le risorse per reagire. Dall’Africa arrivarono nuove truppe berbere, obbligando Alfonso a promuovere precipitosamente un fronte unico di regni cristiani, richiedendo l’aiuto di Navarra e León. Ma il sovrano non intese aspettare che i suoi alleati gli inviassero soldati, e attaccò da solo gli Almohadi senza neanche aver radunato tutte le truppe di cui disponeva nella sola Castiglia. Lo scontro avvenne il 18 luglio 1196 ad Alarcos, a ovest di Ciudad Real, e si risolse in una disfatta per i cristiani, ad opera di al-Mansur Abu Yusuf. Si disse che fossero caduti in battaglia in 25.000, e lo stesso re se la cavò per un pelo.
In un attimo, i berberi furono in grado di straripare verso settentrione. Città come Madrid, Toledo, Cuenca, Calatrava e Alcalá furono investite dalla loro avanzata, senza che il re castigliano potesse far nulla per fermarli: parrà strano, agli occhi di un contemporaneo, ma Alfonso, in quel frangente estremo, fu ancor più impegnato dal contestuale attacco di León e Navarra, che approfittarono delle sue difficoltà per tentare di soffiargli parti del regno. E ciò ci permette di capire, una volta per tutte, come mai i cristiani abbiano impiegato quasi tutto il Medioevo per espellere i musulmani dalla Spagna…
Alfonso non poté far altro che ricorrere alla diplomazia, stipulando una tregua con i berberi per poter perfezionare gli accordi con gli altri regni cristiani. Entro la fine del secolo i cristiani si erano dati di nuovo una parvenza di unità, sebbene ancora nel 1211 Alfonso IX di León si accordasse con l’emiro almohade contro il suo omonimo castigliano. Questi, peraltro, non aveva esitato a riprendere l’offensiva non appena, nello stesso anno, era scaduta la tregua con i musulmani. Le operazioni si concentrarono nel settore detto “Campo di Calatrava”, tra il Guadiana e il Guadalquivir; la denominazione traeva origine dalla città che, dal 1156, aveva dato il nome all’ordine di Calatrava, fondato per proteggere Toledo e le rotte verso il Meridione, e gratificato dai re cristiani di cospicui possedimenti nello scacchiere. I cavalieri dell’ordine, privati del loro territorio dopo il disastro di Alarcos, riuscirono a recuperare il castello di Salvatierra, a sud di Calatrava, grazie soprattutto al supporto di Petro II d’Aragona; furono inoltre in grado di bloccare Muhammad III an-Nasir li-Din Allah fino all’arrivo dell’autunno, quando fu troppo tardi, per il califfo, per portare più a nord il suo sterminato esercito.
Nel frattempo, l’insoddisfacente esito della terza crociata aveva ormai reso maturi i tempi perché il papa contemplasse la possibilità di indirizzare verso Occidente, in luogo della Terrasanta, i pii sforzi dei cavalieri europei per guadagnarsi il Paradiso. Innocenzo III decise pertanto di dare una mano ad Alfonso VIII, invocando l’unità dei principi spagnoli e il sostegno degli altri paesi cristiani fuori dalla penisola iberica.
Sulle prime, parve che all’appello rispondessero combattenti per la fede dalle più svariate parti d’Europa, sebbene si trattasse in massima parte di soldati e cavalieri di ventura: «Quando la gente seppe della remissione dei peccati che era garantita a quanti si univano a noi», avrebbe scritto in seguito Alfonso al papa, «allora arrivò un gran numero di cavalieri dalle regioni oltre i Pirenei»; ma poi, nel corso della campagna, gli spagnoli avrebbero avuto modo di constatare come la loro terra esercitasse sugli stranieri un fascino infinitamente minore rispetto alla Terrasanta, ritrovandosi ancora una volta pressoché da soli a combattere contro il blocco almohade, sempre più rinforzato dagli afflussi africani.
Ai tempi della battaglia di Poitiers era la dinastia degli Omayyadi, diretti discendenti del Profeta, a detenere il potere supremo di un impero sterminato che, proprio in quell’anno, a est aveva raggiunto il Belucistan. Poco dopo lo scontro, a Damasco, sede del califfato, ebbe luogo una sanguinosa rivoluzione che portò all’avvento sul trono di un clan persiano, gli Abbasidi. Allo sterminio omayyade sopravvisse un giovane nipote del califfo che, approfittando della sua origine berbera per parte di madre, fuggì in Africa, dove assunse la guida delle popolazioni che si erano ribellate al dominio degli arabi di Spagna, sempre più divisi tra loro.
Il giovane intuì che la penisola iberica gli offriva la prospettiva di ricreare un dominio per la sua dinastia, e nel 756 vi sbarcò sconfiggendo a Cordoba gli avversari; instaurò così un nuovo califfato omayyade nell’Andalusia, quello appunto di Cordoba, che divenne la città più importante della civiltà altomedievale insieme a Costantinopoli. L’arco temporale di esistenza del califfato, comprensivo di splendore e decadenza, durò tre secoli, al termine dei quali, subito dopo il Mille, si frantumò in una miriade di staterelli, chiamati taifa, che dividevano la penisola con alcuni principati cristiani, allora ancora confinati nell’estremo lembo nordoccidentale, in Galizia, León e Portogallo.
La dissoluzione del califfato permise ai principati cristiani di estendere la propria area di influenza e di dare il via a un principio di aggregazione, sancendo, di fatto, l’inizio della reconquista. L’artefice iniziale del processo fu Ferdinando I, che nel 1037 divenne re di Castiglia e, tramite matrimonio, estese la propria sovranità al León e alla Galizia. Negli ultimi anni del suo regno, rese soggetti alcuni dei principati islamici più settentrionali e nella seconda metà del secolo, l’età di el Cid e di Alfonso VI, le quotazioni cristiane salirono vertiginosamente, guadagnando alla corona anche la Navarra, l’Aragona e parte della Catalogna.
Ma l’Islam aveva un asso nella manica da gettare sul tavolo da gioco. Si trattava degli Almoravidi, una confederazione tribale fondamentalista del Marocco che era venuta assumendo una sempre maggiore importanza nell’Africa settentrionale. Gli arabi di Spagna, divisi e rammolliti, cedettero il testimone della lotta ai più vigorosi confratelli mori, la cui presenza nella penisola iberica, dagli anni Ottanta dell’XI secolo, pose un argine all’espansione cristiana e rinnovò la spinta della jihad.
Ma gli Almoravidi dimostrarono una solidità di gran lunga minore degli Omayyadi. Nell’arco di mezzo secolo, i musulmani erano di nuovo sulla difensiva, grazie all’energica azione di Alfonso I d’Aragona, detto il Battagliero, che conquistò Saragozza e portò ben più a sud la linea di demarcazione tra la sfera di controllo cristiana e quella islamica, permettendo al proprio erede di governare anche la Catalogna. Ormai, la Spagna era letteralmente divisa in due, sebbene etnie e religioni fossero distribuite in maniera tutt’altro che uniforme lungo l’arco dell’intera penisola. Non a caso, a metà del XIII secolo Alfonso VII poté fregiarsi della corona di Castiglia e León, e del titolo di “Imperatore in Spagna e re degli uomini di due religioni”, guadagnandosi la supremazia su altri stati come la Navarra e l’Aragona, sui conti di Barcellona e Tolosa e su alcuni regni musulmani.
Tuttavia, il processo di fusione era ancora ben lungi dall’essere concluso: l’unione dei due regni principali fu ancora una volta temporanea, e fu proprio questa difficoltà dei cristiani a raggiungere una stabile coesione, a rendere il processo della reconquista uno dei più interminabili della Storia. In quel tempo, ci si misero anche dei crociati tedeschi e francesi a parcellizzare ulteriormente i territori in mano ai cristiani, creando un altro regno: approfittando della debolezza degli Almoravidi, infatti, prima di andare in Terrasanta fecero pratica di lotta all’infedele espugnando nel 1147 Lisbona e scegliendo per il nuovo regno del Portogallo un re in Borgogna, il figlio del duca, Alfonso Enrico.
Eppure, l’Islam aveva nel continente africano un serbatoio inesauribile, in grado di rivitalizzare le sue forze quando il declino le sopraffaceva. Gli Almoravidi avevano appena perso il loro impero in Africa, dove nel 1125 una confederazione tribale fondamentalista proveniente dalle montagne dell’Atlante, gli Almohadi, si era installata al loro posto. Poco prima dello scoccare della metà del secolo, questi ultimi si trasferirono in Spagna, dove soppiantarono in breve tempo i loro correligionari e diedero nuova linfa al blocco islamico, unificando nell’arco di un quarto di secolo i vari stati in cui si era andato frazionando; nel 1172, infatti, cadde nelle loro mani l’ultimo regno, quello di Valencia, alleato del conte cristiano di Barcellona.
L’arrivo della nuova popolazione berbera coincise con una recrudescenza dei contrasti tra i regni cristiani. Dopo la morte di Alfonso VII, i suoi figli, eredi dei regni, guerreggiarono tra loro e con Navarra e Aragona per oltre un ventennio; solo nel 1180 Alfonso VIII di Castiglia riuscì a porre fine alla guerra civile che travagliava il suo dominio e a trattare accordi con gli altri regni. Alleatosi con lo zio Ferdinando, sovrano del León, fu perfino in grado di passare al contrattacco e recuperare parte dei territori perduti a favore degli Almohadi.
Ma questi ultimi erano ancora in salute, e il loro imperatore, Ya’qub, aveva le risorse per reagire. Dall’Africa arrivarono nuove truppe berbere, obbligando Alfonso a promuovere precipitosamente un fronte unico di regni cristiani, richiedendo l’aiuto di Navarra e León. Ma il sovrano non intese aspettare che i suoi alleati gli inviassero soldati, e attaccò da solo gli Almohadi senza neanche aver radunato tutte le truppe di cui disponeva nella sola Castiglia. Lo scontro avvenne il 18 luglio 1196 ad Alarcos, a ovest di Ciudad Real, e si risolse in una disfatta per i cristiani, ad opera di al-Mansur Abu Yusuf. Si disse che fossero caduti in battaglia in 25.000, e lo stesso re se la cavò per un pelo.
In un attimo, i berberi furono in grado di straripare verso settentrione. Città come Madrid, Toledo, Cuenca, Calatrava e Alcalá furono investite dalla loro avanzata, senza che il re castigliano potesse far nulla per fermarli: parrà strano, agli occhi di un contemporaneo, ma Alfonso, in quel frangente estremo, fu ancor più impegnato dal contestuale attacco di León e Navarra, che approfittarono delle sue difficoltà per tentare di soffiargli parti del regno. E ciò ci permette di capire, una volta per tutte, come mai i cristiani abbiano impiegato quasi tutto il Medioevo per espellere i musulmani dalla Spagna…
Alfonso non poté far altro che ricorrere alla diplomazia, stipulando una tregua con i berberi per poter perfezionare gli accordi con gli altri regni cristiani. Entro la fine del secolo i cristiani si erano dati di nuovo una parvenza di unità, sebbene ancora nel 1211 Alfonso IX di León si accordasse con l’emiro almohade contro il suo omonimo castigliano. Questi, peraltro, non aveva esitato a riprendere l’offensiva non appena, nello stesso anno, era scaduta la tregua con i musulmani. Le operazioni si concentrarono nel settore detto “Campo di Calatrava”, tra il Guadiana e il Guadalquivir; la denominazione traeva origine dalla città che, dal 1156, aveva dato il nome all’ordine di Calatrava, fondato per proteggere Toledo e le rotte verso il Meridione, e gratificato dai re cristiani di cospicui possedimenti nello scacchiere. I cavalieri dell’ordine, privati del loro territorio dopo il disastro di Alarcos, riuscirono a recuperare il castello di Salvatierra, a sud di Calatrava, grazie soprattutto al supporto di Petro II d’Aragona; furono inoltre in grado di bloccare Muhammad III an-Nasir li-Din Allah fino all’arrivo dell’autunno, quando fu troppo tardi, per il califfo, per portare più a nord il suo sterminato esercito.
Nel frattempo, l’insoddisfacente esito della terza crociata aveva ormai reso maturi i tempi perché il papa contemplasse la possibilità di indirizzare verso Occidente, in luogo della Terrasanta, i pii sforzi dei cavalieri europei per guadagnarsi il Paradiso. Innocenzo III decise pertanto di dare una mano ad Alfonso VIII, invocando l’unità dei principi spagnoli e il sostegno degli altri paesi cristiani fuori dalla penisola iberica.
Sulle prime, parve che all’appello rispondessero combattenti per la fede dalle più svariate parti d’Europa, sebbene si trattasse in massima parte di soldati e cavalieri di ventura: «Quando la gente seppe della remissione dei peccati che era garantita a quanti si univano a noi», avrebbe scritto in seguito Alfonso al papa, «allora arrivò un gran numero di cavalieri dalle regioni oltre i Pirenei»; ma poi, nel corso della campagna, gli spagnoli avrebbero avuto modo di constatare come la loro terra esercitasse sugli stranieri un fascino infinitamente minore rispetto alla Terrasanta, ritrovandosi ancora una volta pressoché da soli a combattere contro il blocco almohade, sempre più rinforzato dagli afflussi africani.