ELENCO EVENTI STORICI DA M2TW 1263-1269
Inviato: 7 ottobre 2012, 12:31
da Veldriss
Qui un elenco di eventi presi da Medieval 2 Total War (mod Bellum Crucis) che potrebbero essere utili:
Anno del Signore 1263
A Bolsena, nel Patrimonium Sancti Petri in Tuscia, avviene il cosidetto Miracolo del Corporale: mentre un sacerdote celebrava la messa, l'ostia consacrata avrebbe sanguinato.
Secondo la tradizione, nella tarda estate dell'anno 1263 un sacerdote boemo, Pietro da Praga, fu assalito dal dubbio sulla reale presenza di Cristo nel pane e nel vino consacrato.
In un periodo di controversie teologiche sul mistero eucaristico, il sacerdote intraprese un pellegrinaggio verso Roma, per pregare sulla tomba di Pietro e placare nel suo animo i dubbi di fede che, in quel momento, stavano mettendo in crisi la sua vocazione. La preghiera, la penitenza e la meditazione nella basilica di San Pietro rinfrancarono l'animo del sacerdote, che riprese quindi il viaggio di ritorno verso la sua terra.
Percorrendo la via Cassia, si fermò a pernottare nella chiesa di Santa Cristina a Bolsena.
Il ricordo della martire Cristina, la cui fede non aveva vacillato di fronte all'estremo sacrificio del martirio, turbò nuovamente il sacerdote e, il giorno dopo, chiese di celebrare messa nella chiesa. Di nuovo tornò l'incertezza di quello che stava facendo; pregò intensamente la santa perché intercedesse presso Dio affinché anche lui potesse avere «quella fortezza d'animo e quell'estremo abbandono che Dio dona a chi si affida a lui».
Durante la celebrazione, dopo la consacrazione, alla frazione dell'Ostia, sarebbe apparso ai suoi occhi un "prodigio" al quale da principio non voleva credere: l'Ostia che teneva tra le mani sarebbe diventata carne da cui stillava "miracolosamente" abbondante sangue. Impaurito e confuso ma, nello stesso tempo, pieno di gioia, cercò di nascondere ai presenti quello che stava avvenendo: concluse la celebrazione, avvolse tutto nel corporale di lino usato per la purificazione del calice che si macchiò immediatamente di sangue e fuggì verso la sacrestia. Durante il tragitto alcune gocce di sangue sarebbero cadute anche sul marmo del pavimento e sui gradini dell'altare.
Il sacerdote andò subito da papa Urbano IV, che si trovava ad Orvieto, per riferirgli l'accaduto. Il papa inviò a Bolsena Giacomo, vescovo di Orvieto, per verificare la veridicità del fatto e riportare le reliquie. Secondo la leggenda, il presule fu accompagnato dai teologi Tommaso d'Aquino e Bonaventura da Bagnoregio. Tra la commozione e l'esultanza di tutti, il vescovo di Orvieto tornò dal Papa con le reliquie del "miracolo". Urbano IV ricevette l'ostia e i lini che si supponeva fossero intrisi di sangue, li mostrò al popolo dei fedeli e li depose nel sacrario della cattedrale orvietana di Santa Maria.
A seguito di ciò e delle rivelazioni della liegina Beata Giuliana di Cornillon, che aveva già proposto al suo Vescovo una solennità in onore del Ss. Sacramento, nel 1264, con la bolla Transiturus de hoc mundo, Urbano IV istituì la solennità del Corpus Domini, e fu affidato a Tommaso d'Aquino il compito di preparare i testi per la liturgia delle ore e per la Messa della nuova festività, stabilendo che questa venisse celebrata il giovedì dopo l'ottava di Pentecoste.
A Orvieto fu innalzato un tempio sul luogo più alto (1290), al quale si aggiunse la cappella del Corporale (1350) e la Cappella Nuova (1408). Il Duomo venne disegnato da Arnolfo di Cambio in forme tardo romaniche. I lavori proseguirono in stile gotico sotto la guida di Lorenzo Maitani.
Anno del Signore 1264
In Spagna muore Gonzalo de Berceo (Berceo, circa 1197 - circa 1264), il più antico poeta spagnolo in lingua castigliana conosciuto, autore di opere in versi di carattere agiografico e religioso.
Fu un chierico (non un frate, come di solito si pensa, ma un prete secolare) che lavorò a La Rioja come notaio del monastero di San Millán de la Cogolla e del monastero di Santo Domingo de Silos. Ricevette un’educazione molto accurata e si formò nei recentemente creati studi generali (una specie di università medievale) di Palencia, i primi apparsi in Spagna. Tradusse il vocabolario dal latino e ricorse a formule della letteratura orale tradizionale. Lavorò anche come notaio ecclesiastico per i monasteri, per conto dei quali arrivò a falsificare documenti per fare in modo che i contadini riottosi pagassero le tasse. Nel 1237 divenne presbitero.
La sua poesia tratta sempre temi religiosi, ed è costituita fondamentalmente da agiografie, scritti di materia sacra e biografie di santi, specialmente quelli adorati nei monasteri ai quali era vincolato: la Estoria de sennor San Millán, la Vida de Sancta Oria, virgen e La vida del gorioso confessor Santo Domingo de Silos, per esempio. La sua opera principale è senza dubbio Milagros de Nuestra Señora. Altre opere sono El duelo que fizo la Virten María el día de la Pasión de su fijo Jesu Christo, Del sacrifiçio de la Missa, De los signos que aparesçerán ante del Juicio, Martiryo de Sant Laurençio, Loores de Nuestra Señora e Himnos.
Non si mostra come un narratore originale, perché traduce ampliandole le opere latine già esistenti; la sua originalità e carattere artistico si apprezzano nel trattamento dei temi, nello stile e nei dettagli ed adattamenti alla mentalità medievale e contadina. La sua poesia è colta, sebbene sia rivestita da un’apparenza popolare e utilizza elementi tradizionali; la strofa usata è di quattro versi alessandrini o quattordici sillabe separate in due metà di sette sillabe per una cesura che coincide con la fine della parola impedendo la sinalefe, e con un’unica rima consonante in tutti i versi.
La sua opera principale Milagros de Nuestra Señora inizia con un’introduzione allegorica nella quale l’autore si presenta con una naturalezza idealizzata, che simboleggia le virtù e la perfezione della Vergine. Si susseguono poi venticinque miracoli realizzati dalla Vergine a favore di persone a Lei devote. Berceo non inventa, solo cerca di diffondere i racconti già esistenti sulla Madonna. Le caratteristiche principali dell’opera sono:
-L'introduzione di elementi quotidiani per attrarre gli ascoltatori.
-L'utilizzo di elementi dell’arte buffonesca, come l’uso di espressioni per attirare l’attenzione degli ascoltatori.
-Alla fine di ogni racconto appare una morale o un insegnamento per far comprendere all’ascoltatore i vantaggi derivanti dalla devozione alla Vergine.
Si possono distinguere tre gruppi di miracoli:
-Quelli in cui Maria premia o castiga la gente, come "La casulla de San Ildefonso".
-Quelli in cui la Vergine perdona e riesce a salvare dalla condanna i suoi devoti, come "El sacristán impúdico".
-Quelli in cui i personaggi soffrono una crisi spirituale e Maria li aiuta a risolvere il conflitto, come "La abadesa encinta".
Anno del Signore 1265
Il Principe Edoardo Plantageneto, conosciuto anche come "Gambelunghe" e (come si legge nella sua lapide, scritta in latino) "martello degli Scoti", epiteto che ottenne per aver conquistato il Galles e mantenuto la Scozia sotto la dominazione inglese (Westminster, 17 giugno 1239 – Cumberland, 7 luglio 1307), figlio del re d'Inghilterra Enrico III, sconfigge i baroni ribelli nella battaglia di Evesham, dove trova la morte anche il capo dei baroni, Simone V di Montfort (il Vecchio, 1208–1265).
L'Inghilterra, durante il XIII secolo ha assistito allo scoppio di due guerre civili combattute dalle forze di alcuni baroni ribelli.
La prima guerra baronale (1215–1217) trae il suo pretesto da alcuni articoli della Magna Charta, in quanto contenevano leggi che nessun sovrano medievale avrebbe potuto accettare, a meno di perdere di fatto il proprio potere; tra queste, la clausola 61 (la "clausola di sicurezza") che permetteva ad un gruppo di venticinque baroni di privare il re del potere con l'uso della forza in ogni momento. Dopo alcuni mesi di incerte trattative nell'estate del 1215, la guerra fra i baroni ed i sostenitori del re scoppiò apertamente.
Presto il conflitto divenne anche dinastico: i baroni cercavano un re potente, e la loro scelta cadde sul principe francese Luigi (il futuro Luigi VIII), figlio ed erede del re di Francia Filippo Augusto.
L'invasione normanna si era verificata solamente 150 anni prima, e le relazioni fra Francia ed Inghilterra non erano così tese come sarebbero in seguito diventate. Nel documento contemporaneo chiamato annali di Waverley non appare paradossale l'affermazione che Luigi venne invitato "per evitare che il regno cadesse in mani straniere".
All'inizio della guerra, nel novembre del 1215, Luigi si limitò ad inviare un contingente di cavalieri per difendere Londra; tuttavia su suggerimento del re di Francia e di papa Innocenzo III intraprese il 21 maggio del 1216, sbarcando con le proprie truppe il giorno successivo sulle coste del Kent. Re Giovanni decise di scappare nella capitale sassone, Winchester, cosicché Luigi non trovò resistenza nella sua marcia verso Londra, dove venne proclamato (ma non incoronato) dai baroni e dai londinesi nella cattedrale di Saint Paul. Molti nobili, fra i quali re Alessandro II di Scozia gli resero omaggio, e molti dei sostenitori passarono dalla parte dei baroni. Giraldo del Galles sottolineò «La follia della schiavitù è finita, il tempo della libertà è giunto, i colli inglesi sono liberi dal giogo». Il 14 giugno Luigi catturò Winchester, che Giovanni aveva già abbandonato e prestò conquistò metà del regno inglese.
Nel frattempo, Filippo II di Francia esortò il figlio a conquistare il punto chiave dell'Inghilterra: Dover. Il castello di Canterbury e quello di Rochester, le rispettive città e gran parte del Kent erano già sotto il controllo di Luigi; ma quando questi si apprestò ad attaccare il castello di Dover il 25 luglio trovò ad attenderlo Hubert de Burgh, che aveva difeso con successo il castello di Chinon nel 1205 ed aveva a disposizione una nutrita guarnigione.
Il primo assedio cominciò il 19 luglio, con Luigi che conquistò l'altipiano a nord del castello, senza riuscire tuttavia a sfondare i cancelli del castello, mentre i difensori rinforzavano le brecce nelle mura con travi di legno (dopo l'assedio il debole cancello settentrionale venne bloccato e vennero scavati tunnel in quell'area, verso la torre di san Giovanni, e vennero costruiti due nuovi cancelli). Dopo tre mesi di assedio, e con gran parte delle sue forze impegnate nell'assedio, Luigi ottenne una tregua il 14 ottobre e poco dopo tornò a Londra.
L'unico castello ad aver resistito a Luigi, oltre a Dover, era quello di Windsor, dove sessanta cavalieri resistettero ad un assedio di due mesi, nonostante le numerose perdite ed ai danni nella parte inferiore (riparata poco dopo, nel 1216, da Enrico III, che rinforzò ulteriormente il castello costruendo il muro ovest, gran parte del quale sopravvive oggi); questo probabilmente perché il castello era già stato assediato dai baroni nel 1189, meno di trent'anni prima.
Nel 1206, Giovanni aveva speso £115 per riparare il castello di Rochester, e l'aveva preventivamente tenuto per sé nell'anno di negoziati per la Magna Charta, ma i termini della Charta l'avevano obbligato ad affidarlo in custodia a Stephen Langton, arcivescovo di Canterbury, nel maggio 1215. I baroni ribelli avevano inviato truppe al comando di William d'Aubigny, ed il conestabile Reginald de Cornhill aprì a questi i cancelli del castello. Quindi nell'ottobre 1216, durante la sua marcia da Dover a Londra, Giovanni trovò Rochester sulla sua strada, ed iniziò ad assediarla di persona.
I ribelli attendevano rinforzi da Londra, ma Giovanni interruppe le linee di comunicazione della città, respingendo una sortita tentata da Robert Fitzwalter. Inoltre saccheggiò la cattedrale di Rochester, impossessandosi di ogni cosa di valore ed utilizzandola come stalla per i propri cavalli, in spregio di Langton. Vennero mandati ordini agli abitanti di Canterbury:
« Vi ordiniamo, se ci amate, di iniziare non appena leggerete la presente a produrre giorno e notte tutti i picconi che potete. Tutti i fabbri nella vostra città dovrebbero fermare qualsiasi altro lavoro per produrle e dovreste spedirle con la massima celerità a Rochester».
Vennero quindi costruite cinque macchine d'assedio per minare le mura. Il castello fu preso però solamente per fame il 30 novembre; nonostante avesse fatto preparare un patibolo, Giovanni venne convinto a mostrando clemenza per i baroni catturati, limitandosi ad imprigionarli.
Giovanni morì l'anno successivo, cosicché toccò ad Enrico III riparare il castello, per una spesa complesiva di £1000 per la ricostruzione ed il potenziamento del maniero, oltre che per la costruzione di una nuova cappella; una delle caratteristiche visibili ancora oggi è la torre sud-est, costruita con gli accorgimenti migliori dell'epoca con una forma circolare per deflettere meglio i colpi delle macchine d'assedio (si veda l'immagine).
Il 18 ottobre 1216 morì Giovanni nel Lincolnshire, e con lui venne meno la ragione principale della guerra; Luigi appariva allora una minaccia agli interessi dei baroni molto maggiore rispetto al figlio di Giovanni, di soli nove anni. Pierre des Roches, vescovo di Winchester ed un certo numero di baroni spinsero per incoronare Enrico re d'Inghilterra. Londra era in mano a Luigi (era la sede del suo governo), e non poteva quindi essere teatro dell'incoronazione, che avvenne il 28 ottobre 1216 nella cattedrale di Gloucester, alla presenza del legato pontificio, Guala Bicchieri (vescovo di Vercelli). Il 12 novembre la Magna Charta venne nuovamente promulgata, ma senza alcune clausole, tra le quali la numero 61, ad opera di Guglielmo il maresciallo, reggente per il giovane Enrico. Grazie all'opera del reggente, il re guadagnò consensi fra i baroni, ed ottenne l'appoggio del papa, che aveva già scomunicato Luigi.
Le fazioni si scontrarono per quasi un anno; il 6 dicembre 1216 Luigi conquistò il castello di Hertford, permettendo ai difensori di abbandonarlo con i propri cavalli e le armi, e di lì a poco il castello di Berkhamstead, concedendo nuovamente ai difensori il permesso di ritirarsi. Il 12 maggio dell'anno successivo Luigi rinnovò l'assedio a Dover, che gli tagliava i rifornimenti con la madrepatria. L'assedio tuttavia impegnò Luigi al punto che Guglielmo il maresciallo e Falkes de Breaute riuscirono ad infliggere una pesante sconfitta ai baroni fedeli a Luigi al castello di Lincoln il 15 maggio o il 20, in quella che venne ricordata come seconda battaglia di Lincoln. Mentre Guglielmo preparava l'assedio di Londra, Luigi subì ulteriori sconfitte (navali), nella battaglia di Dover ed in quella di Sandwich (combattute nello stretto di Dover), quest'ultima ad opera di Hubert de Burgh. Il convoglio con i rinforzi guidati da Eustachio il Monaco venne distrutto, rendendo impossibile per Luigi continuare a combattere.
Dopo un anno e mezzo di guerra, la maggior parte dei baroni ribelli aveva abbandonato Luigi, che si vide costretto ad abbandonare le sue mire al trono d'Inghilterra firmando il trattato di Lambeth l'11 settembre 1217. Luigi accettò una cifra simbolica per abbandonare i propri possedimenti inglesi e tornare in patria. Anche se non compare nel trattato, viene spesso riportato che Luigi avrebbe convinto il re di Francia a concedere ad Enrico quello che lui stesso aveva conquistato a Giovanni.
Diversa origine ha la Seconda guerra dei baroni (1264 - 1267) combattuta in Inghilterra tra le forze di militari di alcuni baroni ribelli, guidati da Simone di Montfort, sesto conte di Leicester, contro le truppe realiste guidate dal principe Edoardo.
Il regno di Enrico III è ricordato soprattutto per questa "disputa civile", che è stata provocata apparentemente dalle richieste del sovrano di finanze supplementari. Tuttavia fu la manifestazione di un malcontento più generale da parte dei baroni inglesi nei confronti dei suoi metodi di governo, scontento acuito dalla carestia dilagante.
Francese di nascita, Simone di Montfort fu all'inizio uno dei parvenu stranieri, noti come "consiglieri stranieri di Enrico", detestati da molti. Dopo che sposò senza permesso Eleonora, sorella del sovrano, tra i due nacque un attrito. La crisi fu raggiunta negli anni Cinquanta del XIII secolo, quando il Montfort fu messo sotto processo per le azioni compiute come luogotenente di Guascogna, l'ultimo possedimento dei Plantageneti al di qua de La Manica. Enrico, inoltre, fu coinvolto nel finanziamento di una guerra in Sicilia in favore del Papa, in cambio di un titolo per il suo secondogenito Edmondo Crouchback, una situazione che adirò molti baroni.
Il Montfort divenne il leader di coloro che volevano riaffermare la Magna Carta e costringere il re a cedere più potere al Consiglio dei baroni. Nel 1258 sette importanti baroni obbligarono Enrico alle Disposizioni di Oxford, che abolirono l'assolutismo della monarchia anglonormanna: un consiglio di 15 membri avrebbe supervisionato le nomine ministeriali, l'amministrazione locale e la custodia dei castelli reali. Il Parlamento avrebbe controllato il comportamento di questo consiglio. Enrico fu costretto a prendere parte al giuramento collettivo di rispettare questi accordi. L'anno successivo le Disposizioni di Oxford furono integrate e sostituite con le Disposizioni di Westminster, che trattavano anche questioni amministrative e giurisdizionali. Negli anni seguenti l'ostilità tra le due fazioni crebbe ed Enrico ottenne dal papa una speciale esenzione dal giuramento (1261). Scoppiò la guerra civile: i baroni guidati dal Montfort e i realisti dal principe Edoardo. Il carismatico Montfort e le sue forze avevano conquistato la maggior parte del sud-est dell'Inghilterra sin dal 1263 e nella battaglia di Lewes (1264) Enrico fu sconfitto e preso prigioniero dalle truppe nemiche. Enrico fu ridotto a re fantoccio e, assieme ad Edoardo, posto sotto stretta sorveglianza. Quindici mesi dopo Edoardo fuggì dalla prigionia e si mise di nuovo alla testa delle truppe realiste, questa volta sconfiggendo il Montfort, che rimase ucciso, nella battaglia di Evesham (1265). L'autorità di re Enrico fu quindi restaurata (Dictum di Kenilworth, 1266-1267) e le Disposizioni di Westminster cancellate nella parte in cui limitavano l'autorità regia.
Anno del Signore 1266
Il 26 febbraio Carlo I d'Angiò (21 marzo 1226 – Foggia, 7 gennaio 1285) sconfigge nei pressi di Benevento, Manfredi di Hohenstaufen o di Svevia (Venosa, 1232 – Benevento, 26 febbraio 1266), re di Sicilia.
Manfredi nacque e visse la sua fanciullezza a Venosa. Fu figlio naturale di Federico II di Svevia e di Bianca dei conti Lancia di Agliano Terme, sposata dall’imperatore poco prima della sua morte (rimane dubbio se con questo atto Manfredi risultasse legittimato). Studiò a Parigi e a Bologna; dal padre apprese l'amore per la poesia e per la scienza, amore che mantenne da re. Prima di assumere il cognome paterno portò il cognome della madre. Si narra che l'imperatore avesse avuto una particolare predilezione fra tutti i suoi figli verso Manfredi ed Enzo, entrambi nati da relazioni extra-coniugali. Alla fine del 1248 od all’inizio del 1249, la data è incerta, sposò Beatrice di Savoia, figlia del conte Amedeo IV di Savoia e di Margherita di Vienne, da cui ebbe una figlia, Costanza (1249).
Federico II, morendo (13 dicembre 1250), lasciò a Manfredi il principato di Taranto con altri feudi minori e gli affidò la luogotenenza in Italia, in particolare quella del regno di Sicilia, finché non fosse giunto il fratello legittimo, Corrado IV che in quel momento era impegnato in Germania. Anche se Palermo era la capitale del suo regno, Manfredi privilegiò come dimora il castello di Lagopesole, la cui costruzione, iniziata dai suoi avi normanni, fu terminata da suo padre. Il giovane imperatore si trovò in situazione assai difficile per le molte ribellioni scoppiate nel regno e fomentate da papa Innocenzo IV, che considerava il regno sotto la giurisdizione della Santa Sede. Manfredi agì con energia per ristabilire il dominio svevo e riuscì a ricondurre all'obbedienza varie città ribelli, ma non Napoli. In questa impresa fu aiutato dallo zio, Galvano Lancia. Tentò anche di giungere ad un accordo con Innocenzo IV, ma non arrivò a nulla (si pensa che volesse farsi investire del regno dal papa). Nell'ottobre 1251 Corrado scese in Italia e, nell’agosto 1252 sbarcò a Siponto, proseguendo insieme al fratello nella pacificazione del regno. Nell'ottobre 1253 Napoli, infine, cadde nelle mani di Corrado. Questi ben presto era divenuto sospettoso e ostile verso Manfredi, il quale dovette rinunciare a tutti i feudi minori e accettare anche la diminuzione della sua autorità nel principato di Taranto. Il 21 maggio 1254 Corrado morì di malaria lasciando il figlio Corradino (ancora bambino e rimasto in Germania) sotto la tutela del papa e nominando governatore del regno il marchese Bertoldo di Hohenburg. Corse voce che Manfredi avesse fatto avvelenare il fratello, ma al riguardo non si hanno prove. Il reggente inviò un'ambasciata di cui faceva parte anche Manfredi a trattare con il pontefice ad Anagni. Il tentativo di abboccamento fallì e Bertoldo rinunciò alla carica lasciando campo libero a Manfredi, che fu scomunicato dal pontefice.
Il Papato non vide mai di buon occhio l'insediamento della casa imperiale di Svevia nel regno di Sicilia in quanto considerava quel territorio come proprio vassallo, quindi si accinse a occupare il regno con un esercito. In questo contesto Manfredi si trovò subito in chiaro dissidio con il Pontefice. Dichiarato dal Papa l'usurpatore di Napoli, fu scomunicato nel luglio del 1254. Grazie però alla fine abilità diplomatica ereditata dal padre, concluse con il pontefice un accordo accettando l'occupazione pontificia con una semplice riserva dei diritti di Corradino e propri: fu assolto dalla scomunica, investito dal pontefice del principato di Taranto (27 settembre 1254) e degli altri suoi feudi e nominato vicario della Chiesa nella maggior parte del regno. La Campania venne però occupata dalle truppe pontificie. La scabrosa posizione di Manfredi divenne ancor più difficile in seguito all'uccisione, da parte dei suoi uomini, di un barone protetto dalla curia. Manfredi, non ritenendosi sicuro di fronte al papa, si recò segretamente in Puglia, a Lucera, ove si trovava la truppa saracena ivi stanziata da Federico II. Una volta assicuratasi la loro fedeltà, con il tesoro paterno poté arruolare altre truppe e muovere guerra all'esercito pontificio, che fu sconfitto presso Foggia. Nel corso del 1254 favorì molto Siena ed i centri ghibellini in Toscana. A Siena ad esempio fornì il supporto militare di diversi corpi di cavalieri germanici, una forza che permise al centro toscano di sconfiggere la rivale guelfa Firenze. Manfredi riuscì ad ottenere in Toscana una forte influenza sulla Lega formata dalle città filo-ghibelline anche se il potere Svevo era oramai inesorabilmente in declino. Nel dicembre 1254 morì Papa Innocenzo IV e la guerra proseguì sotto il comando del suo successore Alessandro IV, Papa assai meno energico del suo predecessore, che pronunciò una nuova scomunica nei confronti dello svevo. La guerra procedette vantaggiosamente per Manfredi, che nel corso del 1257 sbaragliò l’esercito pontificio e domò le ribellioni, rimanendo in saldo possesso del regno, mentre Corradino dalla Germania gli conferiva ripetutamente i poteri vicariali. Nel 1256 fondò Manfredonia, vicino a Foggia, dove iniziò i lavori per il castello che però non verrà mai completato a causa della sua prematura morte. Il suo governo umano gli conciliò l'affetto dei popoli. Il 2 giugno 1259 Manfredi, da poco vedovo di Beatrice di Savoia, sposava nel castello di Trani, in virtù di una serie di accordi diplomatici, Elena Ducas (1242 - Nocera Inferiore, 1271) figlia del despota d'Epiro Michele II. Dall'unione nacquero cinque figli:
Beatrice di Sicilia, principessa (1260 - 1307);
Federico di Sicilia, principe (1261 - 1312);
Enrico di Sicilia, principe (1262 - 31 ottobre 1318);
Enzo di Sicilia detto Azzolino (1265 - 1301);
Flordelis di Sicilia, principessa (1266 - 1297).
Diffusasi nel 1258, probabilmente per opera stessa di Manfredi, la voce della morte di Corradino, i prelati ed i baroni del regno invitarono Manfredi a salire sul trono ed egli fu incoronato il 10 agosto nella cattedrale di Palermo. Tale elezione non venne riconosciuta dal Papa Alessandro IV.
Fra il 1258 e il 1260 la potenza di Manfredi, diventato ovunque capo della fazione ghibellina, si estese in tutta Italia. Il comune romano strinse un'alleanza con lui. In Toscana il partito ghibellino, capitanato dalla città di Siena, ottenne una netta vittoria nella battaglia di Montaperti, guidata da Farinata degli Uberti, (4 settembre 1260), che divenne così, con l’ausilio delle sue truppe, padrone assoluto di Firenze. Anche in Italia settentrionale, dopo la catastrofe di Ezzelino (1259), i ghibellini rimasti assai forti fecero capo a lui. Poté nominare vicari in Toscana, nel ducato di Spoleto, nella Marca anconitana, in Romagna ed in Lombardia. La sua signoria si estese anche in Oriente, sulle terre portategli in dote dalla seconda moglie; la sua potenza fu aumentata anche dal matrimonio della figlia Costanza con Pietro III d'Aragona (1262).
Eletto al soglio pontificio papa Urbano IV, questi scomunicò nuovamente Manfredi e cercò di assegnare il Regno di Sicilia a qualche sovrano più influenzabile dal papato. Quindi, in un primo tempo, Urbano IV tentò di vendere il regno a Riccardo di Cornovaglia, che vantava anche una discendenza normanna, e poi a suo nipote Edmondo di Lancaster, ma senza successo. Nel 1263 riuscì, invece, a convincere Carlo I d'Angiò, fratello del Re Luigi IX di Francia e "senza terra" a prendere Sicilia e Piemonte. Lo stesso Papa avrebbe incoronato Carlo Re di Sicilia l'anno successivo: i Francesi d'Angiò venivano ufficialmente chiamati in Italia per una sorta di Crociata nei confronti degli Svevi. Nello stesso anno 1264 moriva Urbano IV ed a questi succedeva papa Clemente IV che proseguì la politica anti-sveva e favorì ulteriormente lo scontro con gli Angioini.
Carlo giunse a Roma per mare, nel giugno 1265, sfuggendo alla flotta siciliana. Vano riuscì l'appello rivolto da Manfredi ai Romani con un manifesto (24 maggio) in cui chiedeva di essere nominato Imperatore da loro, quali detentori dell'autorità imperiale. L'esercito di Carlo nel dicembre 1265 penetrò per la Savoia ed il Piemonte in Lombardia, ove la parte ghibellina non riuscì ad opporre sufficiente resistenza e di là per la Romagna giunse nell'Italia centrale ed a Roma, ove Carlo fu incoronato re di Sicilia il 6 gennaio 1266. Mosse, quindi, verso il Mezzogiorno e poté entrare nel regno con poca difficoltà dopo che le truppe di Manfredi cedettero sul ponte sul Garigliano nei pressi di Ceprano. La decisiva battaglia di Benevento, avvenne il 26 febbraio 1266. Le milizie siciliane e saracene insieme alle tedesche difesero strenuamente il loro re, mentre quelle italiane abbandonarono Manfredi che morì combattendo con disperato valore. Riconosciutone il corpo, fu seppellito sul campo di battaglia sotto un mucchio di pietre ma la tomba fu ben presto violata per ordine del Pontefice ed il corpo riesumato fu deposto, quale scomunicato, fuori dai confini dello Stato della Chiesa.
La distruzione dell'esercito di Manfredi segnò il crollo della dominazione degli Hohenstaufen in Italia. I resti del Regno di Sicilia furono conquistati senza resistenza. Insediatosi nel suo nuovo dominio, Carlo poteva attendere la venuta di Corradino, l'ultima speranza degli Hohenstaufen, nel 1268, ed incontrarlo nella battaglia di Tagliacozzo. Dante cita Manfredi nel III canto del Purgatorio e lo incontra insieme a Virgilio sulla spiaggia dell'Antipurgatorio nella prima schiera di negligenti, quella dei morti scomunicati.
« ....
Io mi volsi ver lui e guardail fiso:
biondo era bello e di gentile aspetto,
ma l'un de' cigli un colpo avea diviso.
...
Poi sorridendo disse: Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperatrice;
.... »
(Dante Alighieri, Divina Commedia, Purg. c. III, v. 103-145)
Anno del Signore 1267
Tommaso d'Aquino ha da poco iniziato la stesura della "Summa Theologica". L'opera sarà completata in sette anni, e sarà composta di ben 512 questioni. Essa è destinata ad istruire chi inizia gli studi teologici, chi non sa ancora orientarsi tra le cose scritte dai vari maestri, a volte diverse o apparentemente contrastanti.
Dopo lo squallore e le distruzioni che Carlo I d'Angiò, provoca con la sua inferocit marmaglia a Benevento, a seguito della vittoria contro Manfredi, papa Clemente IV, lo stesso che lo aveva chiamato in Italia per disfarsi degli Svevi, indirizza al francese una severissima lettera di richiamo:
"Se dobbiamo credere alla voce pubblica, le persone che godono della tua confidenza e che hai messo a governare le province, si arricchirono a spese della popolazione; e tu tolleri le loro malefatte, sia perchè non dai loro uno stipendio sufficiente, sia perchè trattieni quello che dovresti loro dare.
Oppressi e dissanguati i popoli invano da te invocano giustizia: anzi le loro querele, se è vero quel che ci riferiscono, raramente giungono fino a te. Se tu non vorrai mostrarti affabile e benigno, se vorrai governare dispoticamente invece i sudditi, ti sarà necessario esser sempre coperto di corazza e tener sempre la spada in pugno e sempre avere in armi l'esercito."
Come ultima spereanza per risollevare le sorti del regno di Sicilia, si inizia a guardare all'ultimo erede del casato degli Hohenstaufen, Corrado V di Svevia (Landshut, 25 marzo 1252 – Napoli, 29 ottobre 1268), detto Corradino.
Alla morte di suo padre Corrado IV, avvenuta quando egli aveva solo due anni, Corradino gli successe nella titolarità delle corone della casata (quantomeno quelle ereditarie). Ma data la sua tenerissima età, l’uomo forte della fazione sveva non poteva che essere Manfredi, fratello di Corrado quindi zio del piccolo Staufen. Manfredi ne usurpò il trono (la vulgata vuole anche facendo spargere la voce, falsa, della morte del bimbo Corradino) ma forse furono le circostanze a fare di suo zio un usurpatore o senz’altro un re. Non si può dimenticare che Manfredi godeva di un prestigio immenso presso i suoi sia per le sue qualità di condottiero (dimostrate anche a Montaperti, magnifica vittoria ghibellina) sia per quelle di uomo di corte e di amante delle lettere e delle arti. Insomma, con la morte di Corrado forse parve naturale che il comando dovesse essere di Manfredi. E certo il duca di Taranto non si fece troppi scrupoli legalistici. Si fece re. Corradino crebbe così in disparte, in Baviera, lontano dall’agone italiano, il vero terreno dello scontro tra guelfi e ghibellini, tra papato e impero, il teatro dei trionfi e dei rovesci della straordinaria storia della sua stirpe. Crebbe sotto l'ala protettiva di sua madre e pare quasi povero, almeno per un rampollo del suo lignaggio, dedito alla poesia e alle virtù cortesi. Ma il suo destino lo raggiunse egualmente e Corradino gli corse incontro.
Dopo la morte dello zio Manfredi (ucciso nella battaglia di Benevento, il 26 febbraio 1266) i ghibellini italiani ne implorarono la venuta nella penisola e Corradino, nel settembre del 1267, mosse finalmente alla riconquista del suo regno, ormai passato sotto la corona di Carlo d'Angiò, il vincitore di Benevento. Se i ghibellini italiani ne invocarono la discesa, i dignitari tedeschi invece si misero sostanzialmente alla finestra in attesa degli eventi. Ancora una volta, anche al suo epilogo, la storia degli Staufen era un fatto essenzialmente italiano.
Arrivato in Italia, Corradino venne ben accolto a Verona, a Pavia e specialmente a Pisa, città da tempo legatissima alla casata staufica e senza oscillazioni di fede ghibellina. I pisani misero a disposizione dello Staufen danaro e soprattutto la loro potenza marinara. Giunto a Roma, gli venne tributato un vero e proprio trionfo e molti furono i romani che lo seguirono in battaglia, guidati da Enrico di Castiglia, senatore di Roma che, pur imparentato con l'Angiò e con il bene placito di questi salito alla guida della municipalità di Roma, abbandonò il partito guelfo-angioino per sposare le sorti ghibelline. Ovviamente il papa non attese lo Staufen a Roma, ma scappò per rifuggiarsi a Viterbo.
A proposito dell'apoteosi romana, il grande storico Ernst Kantorowicz ebbe a considerare che ciò che non era mai riuscito al grande Federico, trionfare a Roma, riuscì al piccolo Corradino. Effimeramente.
Anche a Sud la discesa di Corradino risvegliò entusiasmi filo-svevi e in particolare nella enclave mussulmana di Lucera, i cui guerrieri, ancora una volta, si dimostrarono fedelissimi agli Staufen e alla memoria di Federico, del quale erano stati per decenni la temibile guardia scelta.
“Presa” l’Urbe Corradino valutò l’ipotesi di espugnare Viterbo e fare prigioniero il papa, ma desistette, seguendo così l’esempio del suo grandissimo nonno, più volte trovatosi nel dilemma se far cessare l’odio curiale mettendo in ceppi direttamente il pontefice, ma sempre dissuaso dal compiere questo passo dalla facile previsione del disastro propagandistico che un’azione del genere avrebbe causato.
In ogni caso, tutti questi episodi impensierirono non poco la Curia papale, inizialmente assai scettica sulle possibilità di successo del giovane svevo: prova ne siano gli scritti propagandistici del tempo dove, per mettere all'erta i guelfi italiani, la Curia prende ad apostrofare Corradino come odioso basilisco, ultimo mostruoso parto della stirpe del drago. Sono i consueti toni apocalittici e di taccia di Anticristo, cui tutti gli Staufen, in primis il grande Federico II, dovettero sottostare. Naturalmente anch'egli, come tutti i suoi predecessori, venne scomunicato.
Incoraggiato dalle vittorie riportate in Toscana sugli Angioini dal suo sodale Federico duca d'Austria e da alcuni rilevanti successi marinari degli alleati pisani, che tra Calabria e Sicilia inflissero perdite ingenti alla flotta angioina, Corradino si illuse di aver facilmente ragione del nemico. Si diresse quindi verso il Sud e giunto alle porte del suo regno, presso Scurcola Marsicana, venne finalmente a contatto con le schiere di Carlo d'Angiò. Qui ebbe luogo la tragica e fatale battaglia che poi Dante Alighieri ha reso celeberrima col nome di battaglia di Tagliacozzo. Corradino fu sconfitto dopo un'apparente vittoria iniziale : si narra che un nobile di parte angioina indossasse in battaglia le vesti di Carlo e ne esponesse le insegne. Caduto questo combattente, i ghibellini ebbero l'illusione di aver ucciso l'odiato francese e di avere in pugno la vittoria. Si lanciarono così all'inseguimento dei guelfi in apparente rotta, per essere poi travolti dalla carica di 800 cavalieri di parte angioina, fino ad allora tenuti in riserva. Lo schieramento ghibellino non resse il colpo e si disperse, subendo la strage.
Corradino si dette alla fuga, dirigendosi verso Roma. La città che poco tempo prima lo aveva trionfalmente accolto, si dimostrò ora ostile allo sconfitto. D'altronde, l'ira di Carlo verso i romani, ritenuti traditori per l'appoggio dato allo Staufen, fu terribile, come atrocemente sperimentarono i cittadini romani fatti prigionieri a Scurcola. Essi, infatti, furono barbaramente massacrati con inumani supplizi.
Forse la bellissima statua di Arnolfo di Cambio, che raffigura Carlo d’Angiò in trono con un’espressione torva, dovette avere anche la funzione di monito al popolo romano sul prezzo dell’infedeltà. Questa statua, oggi nei Musei Capitolini, venne posta nella chiesa dell'Ara Coeli sul Campidoglio, lo stesso Campidoglio che non molto tempo prima aveva ospitato il Carroccio della Lega Lombarda, catturato da Federico a Cortenuova e inviato a Roma a riedizione dei trionfi degli antichi imperatori.
Il viatico di questi eventi non favorì la solidarietà dei romani verso il fuggiasco Corradino. Lo svevo e i suoi risolsero che sarebbe stato più prudente lasciare Roma per lidi più sicuri. Raggiunta con i suoi compagni Astura, località del litorale laziale a 5 km a sud di Nettuno, Corradino tentò di prendere il mare, probabilmente diretto verso la fedelissima Pisa. Fu invece tradito da Giovanni Frangipane, signore del luogo, e consegnato a Carlo I d'Angiò. Processato e condannato a morte, fu decapitato a Campo Moricino (l'attuale Piazza del Mercato di Napoli), il 29 ottobre 1268. Probabilmente Carlo esitò di fronte alla decisione di giustiziare Corradino, evidentemente innocente del crimine di majestas - cioè di infedeltà all'usurpatore francese - che gli veniva assurdamente imputato. Ma ruppe ogni indugio la icastica risposta che a questi dubbi recapitò il Papa, Clemente IV: Mors Corradini, vita Caroli. Vita Corradini, mors Caroli.
I cadaveri di Corradino e degli altri giustiziati, come era stato per lo zio Manfredi, non ebbero sepoltura; furono trascinati verso il mare, che dista pochi passi dal luogo del supplizio, e abbandonati, ricoperti solo parzialmente con sassi dal popolo impietosito. Solo le preghiere della disperata madre riuscirono a far si che il corpo di Corradino avesse infine sepoltura.
Dante ricorda Corradino in un passo del canto XX del Purgatorio:
« Carlo venne in Italia e, per ammenda,
vittima fé di Curradino; e poi
.... »
(Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio XX, 67-68)
Anno del Signore 1268
Il cronista Martino da Canal nella sua Estoires descrive il complesso sistema elettorale adottato dalla repubblica veneta di recente, e che rimarrà in uso, salvo marginali aggiustamenti, fino al luminoso declino della Serenissima.\nIn Estonia, il 12 febbraio, nella battaglia di Rakovor le truppe di Novgorod e Pskov sconfiggono i Cavalieri Portaspada. I Cavalieri furono sconfitti tanto duramente che, dopo aver vanamente cinto d'assedio Pskov l'anno seguente, non intrapresero per i successivi trent'anni alcuna campagna contro la Russia settentrionale.
I due eserciti si scontrarono sette verste fuori la città livone di Rakvere (Russio: Rakovor; Tedesco: Wesenberg). Le forze russe, costituite da più di 30.000 uomini, erano guidate da Dimitri Pereslavl (a capo delle truppe di Novgorod) e dal suo futuro cognato, Dovmont di Pskov (a capo delle truppe di Pskov). Oltre che dai Cavalieri, l'esercito livone era costituito da forze danesi (sull'ala destra) e dalla milizia estone locale (su quella sinistra) ed era condotto dal Gran Maestro Otto von Lutterberg.
Le forze dei Portaspada erano disposte nel loro consueta formazione a cuneo, denominata "testa di verro", di cavalieri pesantemente armati, chiamata dai russi il "grande maiale di ferro". Tale formazione aveva un notevole impatto penetrante sulle schiere nemiche ma era scarsamente manovrabile e vulnerabile agli attacchi laterali, fatto che aveva comportato la sconfitta dei cavalieri nella Battaglia del Lago Peipus. Per cercare di ovviare a ciò il Gran Maestro decise di dividere la forza di assalto in due tronconi, ponendo il primo sul campo aperto e tenendo celato il secondo cosicché quando il primo sarebbe stato attaccato da ogni lato dai russi il secondo avrebbe fatto improvvisamente irruzione sul campo di battaglia e circondando i nemici.
La tattica inizialmente funzionò in maniera soddisfacente: il primo cuneo attaccò il centro della formazione nemica e costrinse i Russi a indietreggiare. I soldati del secondo cuneo però, credendo l'esercito nemico in fuga, emersero dai propri nascondigli per saccheggiare i corpi ciò che i Russi avevano abbandonato durante la ritirata. A causa di tale circostanza il primo cuneo fu circondato dalle truppe di Pskov e Novgorod. La lotta tra Russi e Livoni si fece allora terribile. "Né i nostri padri né i nostri antenati sono mai stati testimoni di una lotta così crudele", riportò uno storico livone del tempo. Alla fine la milizia di Novgorod prevalse nonostante il suo leader, il posadnik Mikhailo Fiodorovi?, fosse perito nello scontro.
I Principi russi incalzarono i Cavalieri fino a Rakvere. Il Principe Dovmont di Pskov, il cui coraggio fu riconosciuto persino dagli storici tedeschi, seguì i cavalieri sconfitti fino alle coste del Mar Baltico e conquistò un cospicuo bottino prima di tornare tra le linee russe. Mentre faceva ritorno presso il proprio campo il Principe Dimitri scoprì che era stato saccheggiato da un'altra compagnia di Cavalieri. Decise di aspettare fino al mattino. Passarono tre giorni ma nessun attacco fu più posto in essere dai Cavalieri. I leader russi proclamarono la propria vittoria e tornarono in trionfo nelle proprie terre.
I Cavalieri Portaspada (in latino: Fratres militiae Christi, in tedesco: Schwertbrüder) era il nome di un ordine monastico militare tedesco costituito nel 1202 da Albrecht von Buxthoeven. La regola era fondata sulla base di quella dei Cavalieri templari. Erano chiamati anche Cavalieri di Cristo, Fratelli della spada, o Ordine Livoniano.
Alberto, vescovo di Riga, fondò l'ordine con lo scopo di spalleggiare il vescovato di Riga nella conversione delle popolazioni pagane dei curi, dei livoni, semgalli e latgalli insediate nei territori intorno al golfo di Riga. Fin dalla fondazione l'ordine mostrò di ignorare il suo presunto vassallaggio nei confronti del vescovo e nel 1218 Alberto chiese assistenza al sovrano Valdemaro II di Danimarca, questi si alleò invece con l'ordine e invase il nord dell'Estonia.
La sede dell'ordine si trovava nella città estone di Viljandi (Fellin) dove le mura del castello sono tuttora visibili, altre roccaforti erano a C?sis (Wenden), Sigulda (Segewold) e Aizkraukle (Ascheraden). I comandanti di Viljandi, Kuld?ga (Goldingen), Al?ksne (Marienburg), Tallinn (Reval), e il balivo di Paide (Weissenstein) costituivano il l'entourage più stretto del maestro dell'ordine.
L'ordine venne quasi annientato dai lituani e dai semgalli nel 1236 nel corso della battaglia di Šiauliai. Il 12 maggio 1237 l'ordine fu incorporato nell'Ordine Teutonico e da quel momento fu, di fatto, un braccio autonomo dell'Ordine Teutonico continuando a mantenere un proprio Gran Maestro (che de jure dipendeva dal Gran Maestro dell'Ordine Teutonico) e abbigliamento e regola propri.
Tra il 1237 e il 1290 l'ordine conquistò la Curlandia, la Livonia e la Semgallia e nel 1346 acquistò dal sovrano danese Valdemaro IV il rimanente territorio estone.
Anno del Signore 1269
Nel famoso trattato "De Magnete" pubblicato a Lucera, Pierre de Maricourt rileva, fra le cose notevoli, lo scarto tra la stella polare e il polo celeste, fenomeno curioso che di certo sconcerterebbe chi si trovasse in aperto oceano. Solo chiacchere fra dotti e tèoreti?
I Ghibellini di Siena sono sconfitti dai Fiorentini a Colle Valdesa.
La battaglia di Colle si svolse tra il 16 ed il 17 giugno del 1269 presso Colle di Val d'Elsa tra le truppe ghibelline di Siena e quelle guelfe di Carlo d'Angiò e di Firenze rappresentate da meno di 200 cavalieri comandati da Neri de'Bardi.
Dopo la battaglia di Montaperti dove la ghibellina Siena vinse sulla guelfa Firenze il 4 settembre 1260, Colle si trovava dalla parte guelfa. Fu infatti di quegli anni l'esilio di molti guelfi dalla città e la persecuzione che porterà i loro concittadini ghibellini ad inseguire i fuoriusciti fino a Lucca.
Il 27 agosto 1268 un'ennesima battaglia fra Re Carlo d'Angiò, accorso in difesa del Pontefice Clemente IV, e il nipote Corradino alla guida dei ghibellini, decretò nei dintorni di Roma la vittoria dei guelfi. Ma i ghibellini, nonostante la sconfitta, proseguirono nella loro opera di persecuzione dei guelfi e, durante l'inseguimento verso Lucca, si attestarono nel castello di Ulignano. Fu così che i comuni circostanti (Colle e San Gimignano in testa), decisero di attaccare il Castello e di inseguire i fuggitivi verso Pisa e Poggibonsi, fino a quando il grosso delle milizie ghibelline si ritrovò fra le mura di Pisa e Siena. Nel giugno del 1269 il Capitano Provenzano Salvani e il Potestà Conte Guido Novello partirono da Siena con 1400 cavalieri e 8000 fanti fra senesi, pisani, tedeschi, spagnoli, fuoriusciti fiorentini, e altri toscani, accampandosi nell'altopiano della Badia nei pressi dell'Abbazia di Spugna. I Colligiani, che non si aspettavano questo assedio, si rinchiusero fra le fortificazioni di Colle Alta e mandarono dei messaggeri che chiedessero aiuto a Firenze.
Il giorno successivo truppe francesi agli ordini del maresciallo Giambertoldo, Vicario del Re Carlo d'Angiò, giunsero a Colle, seguite – di sole ventiquattro ore – da un altro contingente di 400 fiorentini (che non giunsero in tempo per la battaglia).
Durante la notte il Maresciallo schierò i francesi sulle mura di Colle Alta e fece conquistare il castello ghibellino dentro Colle, la mattina seguente alle prime luci la torre ghibellina segnalò l'avvicinarsi delle truppe inviate da Firenze (in realtà al momento della battaglia l'esercito fiorentino era ancora a Barberino, e ordinò che si suonassero le trombe e che si gridasse a squarciagola "con impegno" in modo da far credere ai ghibellini che le truppe da combattere erano molte più di quante essi non credessero. Sembra che lo scherzo funzionò, perché di primo mattino i ghibellini si ritirarono verso San Marziale, attestandosi su una collinetta Poggio ai berci. Il maresciallo Giambertoldo diede ordine alle milizie colligiane di aggirare quella collina rimanendo nascoste fino al momento in cui lui fosse apparso con le insegne fiorentine di fronte ai senesi e li avesse attaccati. Durante la sua avanzata il Maresciallo fece abbattere il ponte di S. Marziale per impedire ai suoi una ritirata, ma anche per rallentare la fuga senese.
Arrivato in vista dei ghibellini, Gianbertoldo diede inizio alla battaglia, mentre dietro alle file senesi i colligiani sbucavano gridando e brandendo le armi, dando così la sensazione che altre truppe fossero in attesa di attaccare.
Per quanto il Capitano Salvani minacciasse, promettesse compensi e gridasse, i soldati ghibellini combatterono solo poco e male, ritirandosi ben presto e dandosi alla fuga. Molti furono inseguiti e uccisi dai guelfi, mentre Salvani, non volendo tornare sconfitto a Siena, si gettò nella mischia e fu ucciso da Regolino Tolomei, suo nemico giurato.
Gianbertoldo era riuscito, con soli 800 cavalieri e circa 300 fanti colligiani, a sconfiggere con l'astuzia un esercito di ben 9.400 uomini. Tutto questo accadeva sotto gli occhi della senese Sapia Salvani, cantata da Dante nella Divina Commedia (Purgatorio, Canto XIII e segg.), che seguì la battaglia pregando per la sconfitta dei suoi concittadini.
« Quegli è, rispose, Provenzan Salvani
ed è qui perché fu presuntuoso
a recar Siena tutta alle sue mani.
Ito è così, e va senza riposo,
poi ché morì: cotal' moneta rende
a soddisfar, chi è di là tropp’osò »
(Purgatorio XI)
« Rotti fur quivi, e volti negli amari
passi di fuga, e veggendo la caccia,
letizia presi ad ogni altra dispari [...] »
(Purgatorio XIII)