Corrado Hohenstaufen, detto Corradino (Landshut, 25 marzo 1252 – Napoli, 29 ottobre 1268), è stato duca di Svevia (1254-1268, come Corrado IV), Re di Sicilia (1254-1258, come Corrado II) e Re di Gerusalemme (1254-1268, come Corrado III); fu l'ultimo degli Hohenstaufen regnanti.
Biografia
Infanzia
Era figlio dell'imperatore Corrado IV e di Elisabetta di Wittelsbach. Alla morte di suo padre, avvenuta quando egli aveva solo due anni, Corradino gli successe nella titolarità delle corone della casata (quantomeno quelle ereditarie). Corrado IV, pur scomunicato da Papa Innocenzo IV, aveva affidato a lui il figlio. Innocenzo era intenzionato a offrire la corona di Sicilia a Edmondo il Gobbo, di soli nove anni, figlio di Enrico III d'Inghilterra, ma, vedendosi data la reggenza del regno, sospese l'accordo. Il fratellastro di Corrado IV, Manfredi, si recò dal pontefice per far valere subito la sovranità del nipote, ma il Papa obiettò che Corradino era troppo piccolo e, fino all'età adulta, al Papato sarebbe spettata la reggenza. Manfredi accettò, prese tempo e si preparò ad attaccare militarmente il Papa per prendere il controllo del regno, ma dopo la prima sconfitta militare, il pontefice si spense per malattia. La reggenza passò a Papa Alessandro IV. Data la tenerissima età di Corradino, l'uomo forte della fazione sveva non poteva che essere suo zio Manfredi, il quale ne usurpò il trono (la vulgata vuole anche facendo spargere la voce, falsa, della morte del bimbo Corradino), ma forse furono le circostanze a fare di suo zio un usurpatore di fatto e, di conseguenza, il re. Manfredi godeva di un prestigio immenso presso i suoi sia per le sue qualità di condottiero (dimostrate anche nella Battaglia di Montaperti, magnifica vittoria ghibellina) sia per quelle di uomo di corte e di amante delle lettere e delle arti. Insomma, con la morte di Corrado forse parve naturale che il comando dovesse essere di Manfredi e certo il principe di Taranto non si fece troppi scrupoli legalistici.
Corradino, re di Sicilia per soli quattro anni, dai due ai sei anni d'età, crebbe così in disparte, in Baviera lontano dall'agone italiano, il vero terreno dello scontro tra guelfi e ghibellini, tra papato e impero, il teatro dei trionfi e dei rovesci della straordinaria storia della sua stirpe. Crebbe sotto l'ala protettiva di sua madre e dedito alla poesia e alle virtù cortesi.
Ma il suo destino lo raggiunse egualmente e Corradino gli corse incontro. Dopo la morte dello zio Manfredi, ucciso nella battaglia di Benevento, il 26 febbraio 1266, i ghibellini italiani ne implorarono la venuta nella penisola e Corradino nel settembre del 1267 si mosse finalmente alla riconquista del suo regno, passato nel frattempo sotto la corona di Carlo I d'Angiò, il vincitore a Benevento. Se i ghibellini italiani ne invocarono la discesa, i dignitari tedeschi invece si misero sostanzialmente alla finestra in attesa degli eventi. Ancora una volta, anche al suo epilogo, la storia degli Staufen era un fatto essenzialmente italiano.
La discesa in Italia
Arrivato in Italia, Corradino venne ben accolto a Verona, a Pavia e specialmente a Pisa, città da tempo legatissima alla casata staufica e senza oscillazioni di fede ghibellina, se si eccettua l'iniziale appoggio pisano ad Ottone IV di Brunswick, iniziale antagonista di Federico II nell'ascesa al trono imperiale. I pisani misero a disposizione danaro e soprattutto la loro potenza marinara. Giunto a Roma, gli venne tributato un vero e proprio trionfo e molti furono i romani che lo seguirono in battaglia, guidati da Enrico di Castiglia, senatore di Roma che, pur imparentato con l'Angiò e con il beneplacito di questi salito alla guida della municipalità Capitolina, abbandonò il partito guelfo-angioino per sposare le sorti ghibelline. Ovviamente il papa non attese lo Staufen a Roma, ma si ritirò a Viterbo.
A proposito dell'apoteosi romana, il grande storico Ernst Kantorowicz ebbe a considerare che ciò che non era mai riuscito al grande Federico, trionfare a Roma, riuscì al piccolo Corradino. Il trionfo romano fu però effimero. Anche a Sud la discesa di Corradino risvegliò entusiasmi filo-svevi e in particolare nella enclave musulmana di Lucera, i cui guerrieri, ancora una volta, si dimostrarono fedelissimi agli Staufen e alla memoria di Federico II, del quale erano stati per decenni la temibile guardia scelta.
“Presa” l'Urbe, Corradino valutò l'ipotesi di espugnare Viterbo e fare prigioniero il papa, ma desistette, seguendo così l'esempio di suo nonno Federico, più volte trovatosi di fronte al dilemma se far cessare l'odio curiale mettendo in ceppi direttamente il pontefice, ma sempre dissuaso dal compiere questo passo dalla facile previsione del disastro propagandistico che un'azione del genere avrebbe causato.
In ogni caso, tutti questi episodi impensierirono non poco la Curia papale, inizialmente assai scettica sulle possibilità di successo del giovane svevo: prova ne siano gli scritti propagandistici del tempo dove, per mettere all'erta i guelfi italiani, la Curia prende ad apostrofare Corradino come odioso basilisco, ultimo mostruoso parto della stirpe del drago. Sono i consueti toni apocalittici e di taccia di Anticristo, cui tutti gli Staufen, in primis il grande Federico II, dovettero sottostare. Naturalmente anch'egli, come tutti i suoi predecessori, fu scomunicato.
Incoraggiato dalle vittorie riportate in Toscana sugli Angioini dal suo sodale Federico duca d'Austria e da alcuni rilevanti successi marinari degli alleati pisani, che tra Calabria e Sicilia inflissero perdite ingenti alla flotta angioina, Corradino si illuse di aver facilmente ragione del nemico.
La sconfitta e la fine
Corradino si diresse quindi verso il Sud e giunto alle porte del suo regno, presso Scurcola Marsicana, venne finalmente a contatto con le schiere di Carlo d'Angiò. Qui ebbe luogo la tragica e fatale battaglia che poi Dante Alighieri ha reso celeberrima col nome di battaglia di Tagliacozzo, il 23 agosto 1268. Corradino fu sconfitto dopo un'apparente vittoria iniziale: si narra che un nobile di parte angioina indossasse in battaglia le vesti di Carlo e ne esponesse le insegne. Caduto questo combattente, i ghibellini ebbero l'illusione di aver ucciso l'odiato francese e di avere in pugno la vittoria. Si lanciarono così all'inseguimento dei guelfi in apparente rotta, per essere poi travolti dalla carica di 800 cavalieri di parte angioina, fino ad allora tenuti in riserva. Lo schieramento ghibellino non resse il colpo e si disperse, subendo la strage.
Corradino si dette alla fuga, dirigendosi verso Roma. La città che poco tempo prima lo aveva trionfalmente accolto, si dimostrò ora ostile allo sconfitto. D'altronde, l'ira di Carlo verso i romani, ritenuti traditori per l'appoggio dato allo Staufen, fu terribile, come atrocemente sperimentarono i cittadini romani fatti prigionieri a Scurcola. Essi, infatti, furono barbaramente massacrati con inumani supplizi. Forse la bellissima statua di Arnolfo di Cambio, che raffigura Carlo d'Angiò in trono con un'espressione torva, dovette avere anche la funzione di monito al popolo romano sul prezzo dell'infedeltà. Il viatico di questi eventi non favorì la solidarietà dei romani verso il fuggiasco Corradino. Lo svevo e i suoi risolsero che sarebbe stato più prudente lasciare Roma per lidi più sicuri. Raggiunta con i suoi compagni Torre Astura, località del litorale laziale nei pressi di Nettuno, Corradino tentò di prendere il mare, probabilmente diretto verso la fedelissima Pisa. Fu invece tradito da Giovanni Frangipane, della omonima famiglia, signore del luogo, e consegnato a Carlo d'Angiò.
Processato e condannato a morte, fu decapitato a Campo Moricino (l'attuale Piazza del Mercato di Napoli), il 29 ottobre 1268.
Carlo, implacabile nella decisione di giustiziare Corradino ma temendo di alienarsi, con l'uccisione di un fanciullo, la fedeltà delle popolazioni conquistate (anche perché era ovvio che Corradino era incolpevole del crimine di majestas - cioè di infedeltà all'usurpatore francese - di cui era assurdamente imputato), volle giustificarsi con la difesa dei diritti della Chiesa, la cui autorità Corradino avrebbe minacciato; da ciò nacque la celebre frase attribuita senza alcuna prova a Clemente IV: Mors Corradini, vita Caroli. Vita Corradini, mors Caroli (La morte di Corradino è la vita di Carlo. La vita di Corradino è la morte di Carlo). Non ci sono documenti in cui il Papa, che invece più volte aveva rimproverato a Carlo la sua crudeltà e la durezza dei suoi metodi coi quali avrebbe perso il favore del popolo, abbia detto ciò; abbiamo però una lettera di Carlo al Papa in cui gli dice che Corradino ha meritato la fine che spetta ai "persecutori della Chiesa".
I cadaveri di Corradino e degli altri giustiziati, come era stato per lo zio Manfredi, non ebbero sepoltura; furono trascinati verso il mare, che dista pochi passi dal luogo del supplizio, e abbandonati, ricoperti solo parzialmente con sassi dal popolo impietosito. Solo le preghiere della disperata madre riuscirono a ottenere che il corpo di Corradino avesse infine sepoltura.
Testimonianze
Sul luogo dove avvenne l'esecuzione fu edificata una chiesa, l'attuale Santa Croce e Purgatorio al Mercato, dove si trova una delle testimonianze più suggestive del triste evento. Si tratta di una colonna commemorativa in porfido che reca incisa questa frase: Asturis ungue leo pullum rapiens aquilinum hic deplumavit acephalumque dedit, così traducibile: il leone artigliò l'aquilotto ad Astura, gli strappò le piume e lo decapitò.
È invece nella vicina chiesa di Santa Maria del Carmine che riposano le spoglie di Corradino: qui si ammira il monumento funebre dello sventurato principe, fatto erigere, secoli dopo, da Massimiliano II di Baviera e disegnato dallo scultore danese Bertel Thorvaldsen. La lastra frontale del basamento su cui poggia la statua di Corradino reca incisa la dedica del Duca di Baviera che definisce il giovane re “l'ultimo degli Hohenstaufen”. Ciò che se cronologicamente non è vero - Enzo, figlio di Federico II, sopravvisse a Corradino, sia pure per veder consumata inutilmente la propria vita nella perpetua prigionia bolognese – è certamente vero sul piano storico: in campo Moricino si consuma l'ultimo atto significativo della stirpe del Barbarossa e dello Stupor Mundi.
Al Carmine, in virtù del lascito della madre, vanamente accorsa a Napoli per riscattarlo, vien detta annualmente una messa in suffragio di Corradino di Svevia.
Dopo l'8 settembre 1943, i monaci del Carmine dovettero occultarne le spoglie di cui Hitler aveva disposto il "ritorno" in Germania.
Ancora un'altra chiesa reca un'interessante testimonianza della vicenda di Corradino, vista, per così dire, dalla parte opposta: è la chiesa di Santa Maria della Vittoria a Scurcola Marsicana. Qui è custodita la Madonna della Vittoria, bellissima statua lignea francese del sec. XIII, donata dall'Angiò all'originaria abbazia e che una leggenda vuole realizzata personalmente dal re di Francia Luigi IX (San Luigi), fratello di Carlo. Dalla rocca Orsini lo sguardo spazia sui Campi Palentini, luogo della battaglia.
Corradino nel mito
La tragica fine dell'ultimo degli Svevi commosse in ogni tempo letterati e artisti, che circondarono di un alone romantico la sua personalità.
E alcune leggende fiorirono già negli anni immediatamente successivi alla sua morte, tutte relative alla sua decapitazione. Una prima versione vuole che Corradino, affrontando con coraggio la sua sorte, gettasse tra la folla un guanto prima di porgere il capo al boia. Questo guanto sarebbe stato raccolto da Giovanni da Procida, medico e già consigliere di Federico II, che poi sarebbe stato tra gli animatori dei Vespri Siciliani, rivolta che sottrasse la Sicilia agli angioini per metterla sotto il dominio aragonese. E proprio durante i Vespri gli insorti sventolavano bandiere su cui era raffigurata una testa mozzata, ovviamente la testa di Corradino.
Altra leggenda vuole che ad esecuzione avvenuta un'aquila (non a caso simbolo che compare sulle insegne della casata staufica) piombasse dal cielo per intingere un'ala nel sangue di Corradino e poi volare verso il Nord. Evidente presagio di vendetta. Forse fanno parte di questo ritratto patetico anche le ipotesi, in effetti prive di qualsiasi fondamento documentale, di un amore omosessuale tra Corradino, che cronache del tempo vogliono bellissimo ("bello come Assalonne"), e il suo fedele seguace e cugino Federico di Baden, pressoché coetaneo del principe svevo. Dopo la sconfitta e la cattura Corradino e Federico condivisero la prigionia e la sventura: erano insieme in cella, nelle segrete di Castel dell'Ovo, quando arrivò la fatale notizia della condanna a morte. Pare che in quel momento fossero intenti in una partita a scacchi.
Dante ricorda Corradino in un passo del canto XX del Purgatorio:
« Carlo venne in Italia e, per ammenda[7],
vittima fé di Curradino; e poi
.... »
(Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio XX, 67-68)
Il poeta ottocentesco Aleardo Aleardi gli dedicò una lirica dal titolo Corradino di Svevia. Anche lo storico tedesco Ferdinand Gregorovius ha dedicato dei versi alla vicenda del giovane principe svevo.
http://it.wikipedia.org/wiki/Corradino_di_Svevia