GRANDI BATTAGLIE: BENEVENTO 26 febbraio 1266

Campagne militari, guerre e battaglie
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Veldriss
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GRANDI BATTAGLIE: BENEVENTO 26 febbraio 1266

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"Articolo estrapolato dalla rivista MEDIOEVO - febbraio 2011"

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Re: GRANDI BATTAGLIE: BENEVENTO 26 febbraio 1266

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Manfredi, Re di Sicilia (1232 - Benevento 1266), figlio di Bianca Lancia e di Federico II, mantenne il cognome materno anche dopo le nozze tra i suoi genitori (1246). Principe di Taranto, Manfredi sposò nel 1249 Bianca di Savoia, Marchesa del Monferrato, da cui ebbe la figlia Costanza, sposata nel 1262 a Pietro III d'Aragona. Morto il padre, Manfredi tenne i domini degli Svevi in Italia come luogotenente del fratello Corrado IV, che, temendo la sua potenza, esiliò i Lancia e, morendo (1254), affidò la Sicilia a Bertoldo di Hohenburg. Questi lasciò la reggenza a Manfredi che, scomunicato da Innocenzo IV (1254), tenne il Regno per il nipote Corrado (detto Corradino) ancora minorenne, mentre truppe pontificie invadevano la Campania.
La lotta continuò con il nuovo Papa Alessandro IV quando, nel 1258, sparsa la voce che Corradino era morto, Manfredi si fece incoronare Re di Sicilia (10 agosto) a Palermo e fu ben presto riconosciuto capo dei Ghibellini d'Italia.
Fu scomunicato dal Papa nel 1259 e di nuovo nel 1260, ma nel frattempo con il suo appoggio i Ghibellini Toscani si erano imposti a Firenze con la battaglia di Montaperti; la parte di Manfredi otteneva altri successi nel Veneto e i suoi vicari reggevano la Marca d'Ancona e il Ducato di Spoleto.
Le sue seconde nozze con Elena, figlia del Despota di Epiro, accrebbero il suo prestigio. Papa Urbano IV offrì allora la corona di Sicilia, usurpata da Manfredi, a Carlo d'Angiò, fratello di Luigi IX il Santo, Re di Francia. Carlo, nel 1265 venne in Italia e, incoronato a Roma da Clemente IV quale Re di Sicilia (1266), mosse contro Manfredi, che era appoggiato da truppe leggere saracene dalla fanteria mercenaria italica e da pochi cavalieri tedeschi.
Il 6 febbraio 1266, tedeschi e francesi si affrontarono in una battaglia campale presso Benevento. Durante questa battaglia lo stesso Re Manfredi perse la vita. Le spoglie del sovrano Svevo, che era stato sepolto sul campo di battaglia, furono fatte disseppellire dall'arcivescovo di Cosenza e gettate in terra sconsacrata (lo stesso Dante dedicò a Manfredi un episodio del Purgatorio - canto III ).
La battaglia campale di Benevento ebbe inizio con un attacco di fanteria Sveva su per la collina, dove i francesi subirono un indietreggiamento, tuttavia una carica decisa della cavalleria pesante francese ricacciò indietro la fanteria Sveva. I cavalieri di Manfredi erano dispiegati lungo la strada per Benevento. Le truppe germaniche, in parziale ritirata, furono costrette a procedere in fila lungo il ponte sul Calore per raggiungere il campo. Quando la seconda aliquota ebbe attraversato il ponte, Carlo ordinò al suo terzo scaglione di caricarle su entrambi i fianchi, motivo per cui le forze Sveve furono rapidamente distrutte.
La distruzione dell'esercito di Manfredi segnò il crollo della dominazione degli Hohenstaufen in Italia e la presa di potere della dinastia Angioina. Il Regno di Sicilia venne conquistato con facilità. I Ghibellini, all'interno del territorio, persero drasticamente il loro potere ed i loro capi vennero costretti all'esilio.
Insediatosi nel suo nuovo dominio, Carlo d’Angiò poté attendere la venuta di Corradino, l'ultima speranza degli Hohenstaufen, che venne sconfitto nel 1268 nella battaglia di Tagliacozzo.

da http://www.tuttostoria.net
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Battaglia di Benevento (1266)

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La Battaglia di Benevento fu combattuta nei pressi di Benevento, Campania, il 26 febbraio 1266 fra le truppe di Carlo d'Angiò e Manfredi di Sicilia. La sconfitta e la morte di quest'ultimo portarono alla conquista angioina del Regno di Sicilia.

Premesse
Il papato era stato a lungo in conflitto con la casa imperiale degli Hohenstaufen durante il periodo del loro dominio in Italia. Al tempo della battaglia, il sovrano Hohenstaufen nel Regno di Sicilia (che comprendeva Sicilia e Sud Italia) era Manfredi, figlio naturale di Federico II del Sacro Romano Impero. Corradino,legittimo erede del regno in quanto nipote legittimo di Federico, era giovane e si trovava al sicuro oltre le Alpi, in Baviera. Approfittando di una falsa notizia della morte di Corradino, Manfredi aveva usurpato il trono nel 1258. Papa Urbano IV, determinato a strappare il regno a Manfredi nel 1263 concluse un trattato segreto con Carlo d'Angiò, promettendogli il trono siciliano.

Battaglia
Carlo giunse a Roma già nel 1265, ma fu temporaneamente fermato da dissesti finanziari: Manfredi non scenderà in campo contro di lui fino al gennaio del 1266, quando passò le Alpi il grosso dell'esercito francese. Allarmato dalle diserzioni tra i suoi seguaci e temendo ulteriori tradimenti, Manfredi cercò di portare Carlo in battaglia il più rapidamente possibile. Carlo tentò di far uscire allo scoperto Manfredi, asserragliato a Capua, in modo da costringerlo ad una pericolosa traversata degli Appennini che avrebbe consentito ai francesi di impedire l'arrivo di rinforzi e rifornimenti per l'esercito imperiale, ma Manfredi aveva capito le sue intenzioni e rimase in una posizione fortificata oltre il fiume Calore, attraversato da un solo ponte. Carlo d'Angiò aveva diviso la sua cavalleria in tre battaglioni. La fanteria e il primo battaglione, composto di 900 provenzali erano in prima linea, comandati da Ugo di Mirepoix e Filippo di Montfort, signore di Castres. Dietro di loro si trovava il secondo battaglione, che consisteva di 400 italiani e 1.000 uomini della Linguadoca e della Francia centrale. Carlo guidava personalmente il secondo battaglione. Dietro di loro, il terzo battaglione consisteva in circa 700 uomini della contea di Fiandra sotto Gilles de Trasignies II, Constable della Francia, e Roberto III delle Fiandre. Manfredi aveva adottato disposizioni simili. I suoi arcieri saraceni erano in prima linea. Dietro di loro si trovava il primo battaglione, 1.200 mercenari tedeschi armati con armature in strati di lastre (una novità per l'epoca), comandato da suo cugino Giordano d'Anglano e Galvano di Anglona. Il secondo battaglione consisteva di circa 1000 mercenari italiani e 300 cavalli leggeri saraceni, comandati da suo zio Galvano Lancia. Il terzo battaglione era composto da 1400 feudatari del Regno, sotto il comando personale di Manfredi. La battaglia iniziò al mattino, quando Manfredi fece avanzare la sua prima linea (arcieri e cavalleria leggera) sul ponte. Questi attaccarono la fanteria francese, ma furono presto messi in fuga dal primo battaglione. Avventatamente (non è noto se di propria iniziativa o per ordine di Manfredi), il primo battaglione tedesco attraversò il ponte e contro-caricò i francesi. In un primo momento, i mercenari tedeschi sembravano inarrestabili: tutti i colpi rimbalzavano sulle loro corazze, e Carlo fu costretto ad impiegare anche il suo secondo battaglione. I tedeschi continuavano ad avanzare, ma i francesi scoprirono che la nuova armatura a strati di piastre non proteggeva le ascelle quando il braccio veniva alzato per colpire. Le sorti della battaglia di qui volsero rapidamente contro Manfredi. Le sue truppe erano state costrette ad attraversare tutte l'unico ponte sul Calore per raggiungere il campo. Infatti anche il secondo battaglione tedesco aveva passato il fiume; Carlo aveva ordinato al suo terzo battaglione di circondarli su entrambi i lati e questi furono rapidamente distrutti. Alla sconfitta degli italiani, la maggior parte dei nobili nel terzo battaglione di Manfredi abbandonò il campo, lasciando solo il re con pochi fedelissimi seguaci. Dopo aver scambiato la sopravveste reale con il suo amico Tebaldo Annibaldi, Manfredi e i suoi seguaci caricarono nella mischia e furono uccisi.

Conseguenze
La distruzione dell'esercito di Manfredi segnò il crollo della dominazione degli Hohenstaufen in Italia e la definitiva sconfitta del partito ghibellino. I resti del Regno di Sicilia furono conquistati senza resistenza. Insediatosi nel suo nuovo dominio, Carlo poteva attendere la venuta di Corradino di Svevia, l'ultima speranza degli Hohenstaufen, nel 1268, e incontrarlo vittoriosamente nella battaglia di Tagliacozzo.
In tutta Italia i ghibellini venivano uccisi e cacciati dalle città: ne parla più volte anche Dante Alighieri nella Divina Commedia, come quando cita Manfredi nel III canto del Purgatorio e lo incontra insieme a Virgilio sulla spiaggia dell'Antipurgatorio nella prima schiera di negligenti, quella dei morti scomunicati. Qui Manfredi racconta a Dante i suoi peccati e fa notare quanto la bontà del Signore sia grande.

http://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_ ... nto_(1266)
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Benevento 1266

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Tratto da "Le grandi battaglie del Medioevo" di Andrea Fedriani.

La vittoria di Montaperti sembrò aprire a Manfredi la strada per la conquista dell’intera Italia centrale, sebbene i forti legami economici tra la sconfitta fazione popolare a Firenze e il papato non consentissero ai nobili ghibellini e ai rappresentanti regi di esercitare un franco potere sulla città fiorentina. Pareva solo questione di tempo prima che il re di Sicilia, il quale continuò a estendere la sua influenza tramite una serie di alleanze anche fuori dall’Italia, si avventasse perfino sui territori pontifici. Non fu quindi un caso se, alla morte di Alessandro IV, nel 1261, la curia papale elevò al soglio pontificio un francese, che prese il nome di Urbano IV.
Il nuovo papa era della tempra di Innocenzo IV, un vero e proprio sovrano temporale fermamente deciso ad adottare ogni mezzo per impedire agli Svevi di portare a compimento le aspirazioni all’unità italiana sotto lo scettro germanico che aveva coltivato Federico II, cui Manfredi non faceva mistero di mirare. Ma rispetto a Innocenzo, Urbano poteva vantare stretti legami con la corona francese e spingere con decisione in direzione di un coinvolgimento transalpino negli affari italiani. Tornò pertanto alla ribalta la candidatura di Carlo d’Angiò al trono siciliano, ma il papa morì prima che le trattative fossero concluse. La riprova di come ormai la politica papale fosse indirizzata al conseguimento dell’obiettivo si ebbe comunque con la nomina del successore, un altro francese, per giunta ex cancelliere del re Luigi IX, ovvero Clemente IV; subito dopo la sua ascesa al pontificato, nell’aprile 1265, questi stipulò infatti l’accordo che avrebbe cambiato la storia d’Italia.
Carlo d’Angiò, nominato anche senatore di Roma, comprò l’onere di combattere Manfredi a un prezzo altissimo, impegnandosi a corrispondere al papa e alla Chiesa cifre ingenti, benefici, esenzioni, forniture militari. Tuttavia, la sua impresa fu fatta passare per una crociata, e ciò gli consentì di fruire del sostegno economico della corona e del clero francese, nonché dei banchieri toscani – che avevano tutto da perdere nel fallimento del loro maggiore debitore, ovvero il papato – e militare di quanti furono indotti a farsi crociati per conquistarsi in Italia quelle prede che era ormai improbabile conseguire in Oriente. «Si assolvano ladri, briganti, stregoni, incendiari, sacerdoti concubinari, purché partecipino all’impresa dando danari e uomini a Carlo», scriveva a un cardinale Clemente IV. In ogni caso, la moglie di Carlo d’Angiò, Beatrice, impegnò i suoi gioielli per trovare il denaro necessario.
Subito dopo, Carlo si imbarcò a Marsiglia e, alla fine di maggio, arrivò a Roma insediandosi in Laterano, invece che in Campidoglio come la sua carica di senatore presupponeva. Per un bel pezzo la sua scelta comportò un raffreddamento dei rapporti col papa, che allora risiedeva a Perugia: «Non offenderti, ma cerca altrove la tua residenza; non mancano a Roma palazzi adatti e spaziosi», gli scriveva Clemente, che d’altronde in Laterano neanche ci poteva stare, per via degli endemici contrasti col comune romano. Poi, Carlo seppe trarre dalla sua parte i romani e perfino i più accesi ghibellini, come il prefetto Pietro di Vico, che era stato la longa manus di Manfredi nell’Urbe, passarono dalla sua parte; in breve, tutto si sistemò anche col papa, in nome dei comuni interessi.
Manfredi non si rese conto del pericolo che lentamente, e lentamente provvide ad allestire adeguate difese, senza appurare quanto i suoi sudditi fossero disposti a immolarsi per lui in uno scontro frontale con una potenza straniera. La presenza di Carlo a Roma sembrò favorirlo, tanto che se ne compiacque al punto di considerarlo un “uccello in gabbia”; ma non aveva fatto i conti con l’abilità diplomatica del pretendente al suo trono, che in breve tempo riuscì a sottrargli tutti gli appoggi di cui godeva nell’Urbe. Non ebbero pertanto alcun esito i suoi tentativi di convincere i romani a sostenerlo, dapprima con le parole, mediante una lettera in cui dichiarava apertamente di aspirare alla corona imperiale e di considerarne depositari i capitolini, poi con la forza militare. Alla testa di un esercito, Manfredi si spinse infatti negli Abruzzi minacciando Roma da est, e inducendo Carlo, che pure disponeva ancora di scarsi effettivi, a uscire dalla città per affrontarlo. Ma nonostante che gli Angioini lo attendessero a Tivoli, il re siciliano si rese conto che nessuno lo avrebbe supportato e finì per ritirarsi. Come nota il Runciman, una simile figura non giovò al suo prestigio, facendogli perdere altro sostegno.
Manfredi, tuttavia, non si diede particolarmente da fare per ripetere il tentativo, probabilmente ritenendo che la faccenda si sarebbe risolta, dopo tutto, in una bolla di sapone. In fin dei conti, perfino nel Medioevo non capitava tutti i giorni che un principe di secondo piano disponesse dei mezzi per andarsi a prendere, per giunta con la sanzione papale, un regno tra i più grandi d’Europa. E inoltre, le notizie su Carlo lo davano squattrinato, a stento in grado di mantenere il proprio seguito durante la permanenza a Roma; non risultava pertanto un avversario credibile, anche se in parte la sua era una strategia concordata con il papa per ottenere denaro.
Il pretendente, intanto, era solo apparentemente passivo. Attendeva, è vero, ma solo che la situazione in Italia settentrionale divenisse più favorevole al partito guelfo, grazie alla rete di alleanze che si preoccupava di tessere, e al cambiamento di fronte di Milano, in mano ai Torriani, che formò una nuova lega contro il Pelavicino. Carlo dispensò favori e aiuti dovunque, guadagnandosi sostegno in Piemonte, la neutralità di Genova e l’appoggio degli Estensi di Ferrara.
Solo dopo l’esaurimento della fase diplomatica ebbe inizio quella militare. L’esercito, radunato a Lione nel mese di ottobre, valicò nel novembre 1265 il Colle di Tenda e scese in Italia attestandosi ad Alba dove, col supporto dei guelfi italiani, tra i quali il marchese del Monferrato Guglielmo Spadalunga, si radunò un’armata di 20.000 fanti, 6000 cavalieri e 600 balestrieri a cavallo; i nobili della Provenza partecipavano in massa alla più curiosa delle crociate, ma al comando dell’armata c’era un vescovo, Guido di Mello, presule di Auxerre. Gli Angioini proseguirono toccando Asti e soffiando al Pelavicino Vercelli; poi si spostarono a Milano, seminando il terrore tra Piemonte e Lombardia e aggredendo Brescia, che devastarono dopo averla trovata vuota, poiché «tale fu il terrore che invase gli abitanti che non sapevano più che fare, molti si diedero alla campagna, nascondendosi nei boschi, altri con mogli e bambini andarono a cercar rifugio perfino nei cimiteri fra le tombe», scrive un cronista locale posteriore, Jacopo Malvecius.
L’unico concreto tentativo di arrestare la loro avanzata, Manfredi lo fece inviando nel Settentrione Giordano d’Anglano, il vincitore di Montaperti, il quale si unì al Pelavicino e a Buoso di Doara, signore di Cremona, per affrontare i francesi a Soncino sull’Oglio; ma non se ne fece nulla, forse per il tradimento di Buoso, come sostiene Dante basandosi sul resoconto del Villani. Né ebbe miglior esito un altro tentativo ghibellino a Montichiari, frustrato dall’intervento di rinforzi da Mantova. Gli Angioini ebbero così modo di raggiungere Bologna e di passare nella marca anconetana, territori della Chiesa, dove non incontrarono resistenza e dove limitarono gli eccessi che avevano contraddistinto alcune fasi della loro campagna. Percorsa la via Flaminia attraverso gli Appennini e toccate Spoleto e Terni, l’esercito guelfo giunse a Roma a metà gennaio 1266, senza ulteriori frizioni con i ghibellini.
Intanto, nell’Urbe tutto era pronto per l’invasione del regno. Il papa era sempre a Perugia, ma autorizzò l’incoronazione di Carlo, avvenuta a San Pietro il 6 gennaio 1266, ad opera di cinque cardinali; a dispetto dei festeggiamenti che si tennero in quell’occasione, nessuno – e Carlo per primo, che invocò a lungo la presenza di Clemente –, riuscì a nascondere l’imbarazzo per una cerimonia di basso profilo, con cardinali invece di un pontefice, e con un re invece di un imperatore.
Solo la presenza di un esercito francese in Italia aveva indotto Manfredi ad attivarsi e a provvedere alla difesa del suo regno. A partire dal dicembre 1265 – ma sempre troppo tardi –, aveva fatto arrivare rinforzi dalle terre germaniche, assoldato mercenari, radunato i contingenti saraceni e promosso la leva feudale, la più infida, quest’ultima, per via dello scarso entusiasmo che dimostravano nei suoi confronti i baroni normanni.
Il sovrano provvide inoltre a rinforzare le guarnigioni del confine settentrionale, che lungo il Liri era presidiato da un folto numero di castelli; in particolare, concentrò le difese su Rocca d’Arce e San Germano, che affidò rispettivamente al cognato, il conte di Caserta Riccardo, e a Giordano d’Anglano. Lui, invece, attese l’invasione sulla linea più arretrata del Volturno, a Capua, con un esercito di 5000 cavalieri e 10.000 saraceni in totale. Infine, diede disposizione al proprio nipote, Corrado d’Antiochia, che agiva nelle Marche e negli Abruzzi, di raggiungerlo a sud con tutte le forze a disposizione.
Tuttavia, sebbene Carlo d’Angiò fosse rimasto a Roma per lungo tempo, la campagna vera e propria degli Angioini era durata appena un trimestre, accorciando i tempi a disposizione di Manfredi per fronteggiare l’invasione; i rinforzi delle Marche il re di Sicilia non li vide mai. Il suo avversario, infatti, era consapevole di non poter sprecare le proprie risorse per mantenere l’esercito inattivo a Roma, e non perse tempo quando se lo ritrovò a disposizione. Senza attendere l’arrivo della buona stagione, Carlo partì il 20 gennaio, mentre i cardinali che lo avevano incoronato ottemperavano a tutte le procedure previste per una crociata, impartendo l’assoluzione ai soldati; il cerimoniale terminò quando il condottiero uscì dalle mura della città lungo la via Latina, ricevendo la benedizione e il bacio dei prelati, che si inginocchiarono al suo cospetto e poi rientrarono in gran parte nell’Urbe. Né poteva mancare, naturalmente, il gonfalone della Chiesa, che faceva bella mostra di sé, nelle file dell’armata, accanto alle insegne di Francia.
L’esercito angioino percorse la via Latina, toccò Anagni e Frosinone, prima di giungere a Ceprano sul Liri, che rappresentava la frontiera settentrionale del regno di Sicilia. I francesi non trovarono nessuno a presidiare il ponte sul fiume, la cui vigilanza ricadeva sotto la responsabilità di Riccardo di Caserta, e poterono così entrare in territorio nemico senza colpo ferire; né trovarono difficoltà a entrare nella Rocca d’Arce. Appena più complessa si rivelò la conquista di San Germano, l’odierna Cassino, dove l’Anglano aveva disposto 6000 uomini. Gli Angioini rimasero davanti alle sue mura per qualche giorno, in attesa dell’arrivo delle macchine ossidionali da Roma; ma poi il 10 uno squadrone di cavalieri ghibellini, uscito dalla roccaforte per abbeverare i cavalli, offrì l’occasione per uno scontro, che si trascinò entro le mura a causa di una porta dimenticata aperta. Gli Angioini che riuscirono a entrare furono ricevuti da una pioggia di dardi, ma uno di essi riuscì a raggiungere gli spalti, issandovi la bandiera francese. Ciò provocò lo scoramento dei difensori, alcuni dei quali aprirono tutte le porte per favorire la fuga. Chi tentò di resistere fu annientato.
La sua conquista valse a Carlo d’Angiò un cospicuo bottino, e si accompagnò alla rapida occupazione di ben 32 roccheforti che avrebbero dovuto rappresentare la cintura difensiva su cui faceva affidamento Manfredi per guadagnar tempo; la loro caduta permise al suo antagonista di assumere il controllo di gran parte della Terra di Lavoro, corrispondente alla parte più settentrionale del regno. La marcia francese continuò spedita verso il Volturno, poi virò verso l’interno, per aggirare lo sbarramento di Manfredi a Capua. Carlo optò infatti per la penetrazione attraverso la zona montuosa del Sannio, passando per Alife e Telese, ma fu anticipato dall’avversario, che lo seppe in tempo e si mosse alla volta di Benevento, per sbarrargli la strada una volta sceso dalle montagne.
La strategia di Manfredi, ormai, era saltata. Il dispositivo difensivo di frontiera non aveva retto, favorendo la rapidità di movimento di Carlo e privando il re di Sicilia del tempo necessario a procurarsi altre truppe. Egli avrebbe potuto attestarsi ancor più a sud, in attesa degli altri rinforzi che gli dovevano giungere dalla Puglia e dalle Marche; ma ogni ulteriore arretramento sarebbe costato al re svevo altre porzioni di regno e la stessa Napoli, che non intendeva perdere. Sebbene fosse sovrano di un regno che avrebbe potuto assicurargli un esercito ben più imponente, paradossalmente Manfredi era obbligato ad affrontare la battaglia decisiva con un esercito pari a quello di un avventuriero, e perfino inferiore in effettivi a quanto Firenze era stata in grado di schierare a Montaperti sei anni prima. Tutto sommato, la spinosa situazione in cui si era venuto a trovare era dovuta tanto alla brillante strategia angioina quanto alla sua inerzia.
Gli invasori arrivarono in prossimità di Benevento il 25 febbraio, stremati, con parte delle salmerie e delle bestie da soma perdute lungo i passi innevati: isolati in quella terra nemica, scrive Gregorovius, non restava loro altra scelta che vincere o morire. Avvistarono l’esercito svevo attestato a nord della città, dietro il fiume Calore, in una località chiamata Grandella, o Santa Maria della Gandella. Probabilmente il re di Sicilia aveva ragione di considerare inaffidabili le proprie truppe, oppure riteneva di poter approfittare della stanchezza degli avversari; fatto sta che non provò neanche ad attendere che il nemico attaccasse la sua vantaggiosa posizione, né lasciò trascorrere altro tempo per ricevere i rinforzi attesi o per lasciare che l’esercito avversario fosse decimato dall’inedia.
Il giorno seguente, infatti, Manfredi iniziò ad attraversare il Calore sul solo ponte esistente in quel punto, un manufatto angusto che permetteva il passaggio di poche truppe alla volta, rendendo le operazioni molto lente e sfilacciando l’armata. Una volta sulla sponda opposta, dove si schieravano a battaglia, i suoi perdevano anche il vantaggio della posizione, trasferendosi su un terreno che, risalendo gradualmente verso le pendici montane, conferiva un ulteriore vantaggio alla cavalleria avversaria.
Il sovrano svevo schierò d’avanguardia i suoi arcieri saraceni, poi dispose tre linee successive di cavalleria, la prima costituita da 1200 tedeschi e affidata a Giordano d’Anglano, la seconda da un migliaio di mercenari lombardi e toscani, oltre a qualche centinaio di saraceni, al comando di Galvano Lancia conte di Salerno e di Bartolomeo Semplice, e la terza da oltre un migliaio di leve feudali siciliane, sotto il suo diretto comando. Il suo stato maggiore, che cavalcava al suo fianco ma non godeva della sua piena fiducia in tutti gli elementi, era composto dagli infidi cognati Riccardo di Caserta e Tommaso d’Acerra, oltre che dal suo camerlengo Manfredi Maletta e dal suo amico Tebaldo Annibaldi.
Il suo antagonista Carlo ebbe l’ulteriore vantaggio di poter osservare la disposizione nemica e agire di conseguenza. Schierò a sua volta una prima linea di fanteria, nella quale i balestrieri avevano la preponderanza numerica, per controbilanciare l’azione degli arcieri saraceni; di seguito, il principe schierò la propria cavalleria, anch’essa su tre linee. La prima, costituita da 900 cavalieri provenzali, la affidò al maresciallo di Francia Ugo di Mirepoix e a Filippo di Montfort; la seconda, formata da 1400 effettivi, di cui 400 italiani al comando del fiorentino Guido Guerra, e altri della Linguadoca, la prese per sé; la terza linea, di 700 combattenti fiamminghi o provenienti dalla Francia settentrionale, li diede al conestabile Giles Le Brun e a Roberto di Fiandra, cui affidò il delicato compito di aggirare il nemico e piombargli addosso sul fianco; pare comunque che i cavalieri fossero direttamente supportati dai fanti, che forse si portavano sui rispettivi cavalli, con il compito di finire i ghibellini feriti. Infine, il vescovo di Auxerre propinò l’ennesima benedizione e la remissione dei peccati ai soldati, «perocch’essi combatteano in servizio di santa Chiesa».
Si dice che Manfredi, notando la presenza tra le file nemiche di guelfi fiorentini, abbia recriminato sull’assenza, nella sua armata, di ghibellini toscani ai quali aveva reso indubbi servigi.
A quanto pare, il re svevo non aveva ancora finito di schierare le proprie truppe quando gli arcieri saraceni, senza attendere i suoi ordini, attaccarono battaglia scattando in avanti e lasciandosi dietro i tedeschi, forse i soli, con loro, ad aver già attraversato completamente il fiume. Gli arabi furono tuttavia abbastanza efficaci da sbaragliare la fanteria avanzata degli Angioini. Racconta Saba Malaspina:

Come al solito i saraceni, prima di venire alle mani, estraggono i dardi dalle faretre, e saettando improvvisamente trafiggono innumerevoli ribaldi, e le frecce lanciate […] feriscono inaspettate e irrimediabili, come folgore sulla terra. E mentre più rapidamente vengono scoccate, si conficcano violente in diverse parti dei corpi; piantandosi a due a due ora in testa, ora in viso, appaiono come corna; e infisse nel petto o tra le scapole simulano rami secchi o estensioni di escrescenze estranee; innumerevoli corpi ribaldi ricevono rami di questa natura e moltissimi vengono abbattuti.
 
Nonostante ciò, i saraceni si trovarono pressoché isolati di fronte alla reazione dei 900 cavalieri provenzali della prima linea avversaria, che al grido di «Montjoie!» li spazzò via, «come passeri quando il nibbio piomba improvviso dal cielo», prima che arrivasse la cavalleria tedesca guidata da Giordano d’Anglano.

LA BATTAGLIA DI BENEVENTO (ricostruzione dell’autore). Gli arcieri saraceni di Manfredi attaccano quando solo una parte dell’esercito siciliano ha attraversato il Calore (1). La fanteria angioina ripiega (2), ma l’intervento dei provenzali (3) sbaraglia i saraceni. Interviene, troppo tardi, la divisione del d’Anglano (4), e Carlo d’Angiò immette nello scontro la seconda linea (5), che finisce per prevalere nel corpo a corpo. Passano il ponte i mercenari agli ordini di Galvano Lancia ma, vedendo approssimarsi la terza schiera angioina (6), si danno alla fuga (7). A Manfredi non rimane che spingersi a sua volta oltre il Calore (8), cadendo nella mischia. Ciò che rimane dell’esercito siciliano viene accerchiato bloccando il ponte (9).
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Quest’ultima si mosse troppo tardi per dar manforte agli arcieri, ma arrivò al contatto con i francesi ancora in formazione compatta, respingendone l’assalto, al grido di «Svevia!». Quando i guelfi iniziarono a cedere, la seconda linea angioina subentrò a dar manforte alla prima, e «grande pezza durò che non si sapea chi avesse il migliore», scrive Villani. Man mano che lo scontro si faceva più accanito, i francesi si resero conto di poter colpire gli avversari sotto le ascelle, l’unico punto che il pesante armamento dei tedeschi non arrivava a proteggere, quando essi alzavano le braccia per menare fendenti con le loro lunghe spade. Fu dunque in quel punto che arrivarono i colpi delle corte daghe angioine. Troppo tardi arrivò a sostegno il contingente di Galvano Lancia, i cui italiani e saraceni avevano trovato difficoltà a passare il ponte, perdendo il contatto con i tedeschi.
D’altronde, quando il Lancia si trovò al di là del Calore, fece appena in tempo a riorganizzare le sue file in formazione da battaglia, prima di ricevere l’aggressione sul fianco da parte della terza linea di cavalleria francese. Vistisi perduti, gli italiani si affrettarono a svincolarsi dal combattimento, optando per la fuga prima ancora di scambiare qualche colpo col nemico.
Manfredi era forse ancora al di là del Calore, ma non si diede per vinto e ordinò al contingente di cui era al comando di caricare; ma nessuno credeva più, ormai, alla possibilità di una vittoria, e in breve il re si ritrovò quasi senza più soldati, che si diedero alla fuga a loro volta. Anche i suoi cognati lo abbandonarono, lasciando Manfredi con i soli saraceni e la sua guardia del corpo; almeno Riccardo, d’altronde, aveva aderito al partito angioino fin dall’inizio della campagna, favorendo l’entrata di Carlo nel regno, ed era rimasto accanto al cognato solo per sorvegliarne le mosse. A quel punto, lo svevo preferì rinunciare alla fuga, che con un regno in pezzi, d’altronde, non gli avrebbe offerto alcuna possibilità di rivincita; scelse di gettarsi nello scontro, scambiando la sua armatura e l’elmo con l’aquila d’argento con l’amico Tebaldo Annibaldi, per non dare a Carlo la soddisfazione di ritrovarlo tra i morti.
La morte arrivò in mischia, una morte onorevole che coronava una vita contraddittoria. I francesi, nel frattempo, si affrettarono a bloccare il ponte verso il quale sciamavano i fuggitivi, né le acque agitate del Calore offrirono ai siciliani possibilità di fuga; solo in 600 cavalieri su 3600 guadagnarono la salvezza, e tra quanti vennero fatti prigionieri vi fu anche Giordano d’Anglano. In molti rimasero comunque sul terreno, se Carlo d’Angiò, nello scrivere il giorno seguente al papa, pur ignorando ancora la sorte del suo antagonista, poteva affermare di aver compiuto «tale strage che il terreno della battaglia è interamente nascosto dai cadaveri dei nemici».
A quanto pare però, anche di francesi ne caddero parecchi: «In quella battaglia ebbe gran mortalità d’una parte e d’altra, ma troppo più della gente di Manfredi», ricorda il Villani. Il vincitore non volle che si procedesse alla sepoltura dei caduti fino a quando non fosse stato rinvenuto il cadavere del re. I corpi rimasero pertanto a migliaia sul terreno per due giorni, fino a quando Manfredi non fu ritrovato. A tale proposito, racconta il Villani:
 
Di Manfredi si cercò più di tre giorni, che non si ritrovava, e non si sapea se fosse morto, o preso, o scampato, perché non avea avuto a la battaglia indosso armi reali. Alla fine per uno ribaldo di sua gente fu riconosciuto per più insegne di sua persona in mezzo il campo ove fu la battaglia. E trovato il suo corpo per lo detto ribaldo, il mise traverso in su un asino, venendo gridando: «Chi accatta Manfredi? Chi accatta Manfredi?», il quale ribaldo da uno barone del re fu battuto.
 
Ma Carlo si premurò di cercare ulteriori conferme. Come egli stesso scrisse al papa:
 
Per accertarmi della voce sempre più diffusa che Manfredi fosse morto nella battaglia, feci eseguire ricerche fra i cadaveri rimasti sul campo, tanto più che nessuna nuova era pervenuta che egli avesse trovato scampo. E domenica 28 il suo corpo fu trovato spoglio fra i morti. Per non cadere in errore sopra cosa di tanta importanza mostrai il cadavere al mio fedele Riccardo di Caserta e a Giordano e a Bartolomeo (cosiddetti conti), ai loro fratelli e ad altri che avevano avuto personale conoscenza con Manfredi; tutti lo riconobbero e dichiararono che quella era certamente la salma di Manfredi. Ispirato da naturale sentimento feci dare sepoltura al morto con i dovuti onori, senza funzioni religiose.
 
In realtà, pare che Giordano d’Anglano, uno dei pochi che appoggiò Manfredi fino in fondo – fu mandato in prigione in Provenza e decapitato l’anno seguente dopo un tentativo di fuga che gli era costato una mano –, affranto dal dolore, abbia pregato il vincitore di dare al corpo un’onorata sepoltura; «Si feisse je volontiers, s’il non fust scomunié», rispose Carlo, secondo il Villani, che aggiunge: «Ma imperciò ch’era scomunicato, non volle il re Carlo che fosse recato in luogo sacro, ma appié del ponte di Benevento fu seppellito, e sopra la sua fossa per ciascuno dell’oste gittata una pietra, onde si fece grande mora di sassi».
Il corpo del re sconfitto non rimase lì a lungo; poco dopo, l’arcivescovo di Cosenza lo fece esumare e seppellire sul Liri, oltre i confini del regno. Nonostante la sua ambizione, Manfredi era stato soprattutto un gaudente col gusto dell’avventura, troppo poco concreto per poter affrontare e gestire l’esplosiva situazione internazionale determinata dalle sue scelte. La sua scomparsa, oltre a consegnare il regno siciliano ai francesi senza ulteriori combattimenti né tentativi di resistenza – Carlo poté entrare a Napoli il 7 marzo –, determinò un generale rovesciamento di fronte lungo tutta la penisola, dove i guelfi recuperarono posizioni e influenza. A Firenze i ghibellini dovettero andarsene, e nel Settentrione Pelavicino, ormai privo di alleati – solo Pavia e Verona rimasero francamente ghibelline –, venne messo in condizione di non nuocere ed estromesso dal potere.
Ma a quanto pare nessuno, dai normanni in poi, si accontentava della sola Italia meridionale. Il papa, infatti, aveva fatto i conti senza l’ambizione di Carlo d’Angiò, che considerava il regno di cui era entrato in possesso come il trampolino di lancio per estendere la sua autorità oltremare. Le terre di Sicilia dovettero pertanto sostenere i pesanti costi della politica espansionistica e rapace degli Angioini, che si accompagnarono a un regime di occupazione capace di far impallidire il governo tutto sommato tollerante degli svevi. Gli uomini di Carlo si erano dimostrati soldati migliori di quelli al servizio di Manfredi, ma con la popolazione civile si comportarono molto peggio di quanto avessero fatto i tedeschi. Lo si vide subito, di che pasta erano fatti, quando entrarono a Benevento all’indomani della battaglia che aveva consegnato loro il regno: è proprio un cronista pontificio, Saba Malaspina, a segnalare che
 
il sacerdote insieme al laico è perduto: tutti lo sono senza distinzione: uomini e donne, sacerdoti e laici sono uccisi senza distinzione dai francesi […] Almeno avessero trattenuto le mani spregevoli dalle cose sacre che le chiese conservavano; sotto il pretesto di cercare i beni dei laici che fingevano di credere nascosti insieme ai sacri tesori, non esitarono dal rubare anche questi e di profanare le chiese stesse. […] Nulla vi è di sacro per questa soldataglia, neppure il diritto di asilo nel recinto delle chiese e dei monasteri.
 
I tedeschi, peraltro, avevano ancora una carta da giocare. All’epoca di Benevento Corradino di Svevia aveva solo quindici anni, ma era un ragazzo sufficientemente capace e determinato da poter ambire alla sua eredità. Intorno a lui si coagularono le speranze dei ghibellini e dei parenti di Manfredi, i Lancia, cui rimaneva la Toscana, e in particolare Siena e Pisa, come base d’appoggio di una nuova invasione. Carlo d’Angiò e il papa, ormai divisi da molte questioni ma necessari l’uno all’altro quando si trattava di fronteggiare gli Svevi, cercarono di anticipare le mosse nemiche; nominato dal pontefice paciere della Toscana e anche podestà di Firenze, l’angioino si diede a estendere il proprio potere nella regione con una serie di campagne che, però, non gli valsero il controllo di Pisa e Siena.
Corradino poté pertanto contare sui due centri toscani quando scese in Italia sul finire del 1267, coordinandosi con la serie di rivolte che scoppiò nel regno siciliano contro il regime francese. Con un esercito di spagnoli, italiani e tedeschi, arrivò quindi in Toscana, passò per Roma e raggiunse i confini del regno siciliano, in zona abruzzese, senza incontrare resistenza, perché Carlo era dovuto andare fino a Lucera per reprimere la ribellione dei saraceni. Eppure, l’angioino trovò il modo di risalire la penisola con le magre forze di cui disponeva e di affrontare il pretendente al trono a Tagliacozzo, il 23 agosto 1268. Pur in netta inferiorità numerica, il comandante francese si rivelò miglior comandante e tattico, cogliendo una vittoria che fu resa completa dalla successiva cattura del giovane Hohenstaufen, giustiziato a Napoli due mesi dopo con l’assenso papale.
L’esecuzione del giovane principe fu il degno coronamento di una faccenda – quella orchestrata dal papa e da Carlo per sottrarre agli Svevi la Sicilia – che aveva avuto ben poco di nobile negli intenti e di ortodosso nei metodi; da simili presupposti non poteva che derivare un risultato altrettanto discutibile. Già sovrano della metà meridionale della penisola, senatore di Roma e podestà della Toscana, lo spregiudicato angioino approfittò subito della morte di Clemente e della successiva vacanza del soglio pontificio per tradire tutti i suoi impegni e puntare a estendere la propria sovranità su tutta l’Italia.

E non solo sull’Italia. Carlo guardava anche con estremo interesse a quel che accadeva a Costantinopoli, dove la caduta dell’impero latino e il ripristino di quello bizantino nel 1261 permettevano, a lui che era già stato “crociato” contro gli Svevi, di ambire alla conduzione di una nuova crociata contro gli scismatici greci, ai quali avrebbe potuto così estendere la sua rapace sovranità. Provvide il destino a stroncare i suoi progetti: la flotta che aveva predisposto a tal fine andò distrutta da una tempesta a Trapani. Inoltre, il pericolo che finisse per mettere le mani sulla corona imperiale indusse il pontefice, allora Gregorio X, a conferire l’impero a un inoffensivo tedesco, Rodolfo, dell’ancora oscura famiglia degli Asburgo, garantendo così definitivamente il papato dal rischio di vedersi circondato da un’unica compagine politica.
Sempre meno tollerati nel regno siciliano, gli Angioini persero progressivamente il controllo del resto dell’Italia, dapprima Piemonte e Lombardia, poi anche Toscana e Roma, cui fu proprio il papa, il romano Niccolò III, a ordinargli di rinunciare, nel 1278. I toscani passarono così dalla pur blanda influenza angioina a quella papale, nella persona del vicario Latino Malabranca, che nel 1280 promosse una pace generale non solo tra guelfi e ghibellini, ma anche tra le stesse fazioni nelle quali si stava dividendo il partito guelfo. In realtà, a Firenze continuarono a governare i popolani, con un sistema basato sulle corporazioni cittadine mercantili e artigiane ed espresso dai priori delle arti, senza che i ghibellini vi prendessero parte.
Tuttavia, l’ineffabile Carlo tentò un ultimo colpo di coda quando ebbe la possibilità di insediare sul soglio pontificio un altro francese, Martino IV, dal quale ottenne con facilità l’approvazione per la sua idea fissa, la crociata contro i greci. Nel 1282 era quasi tutto pronto per la spedizione quando scoppiò la rivolta che avrebbe privato i francesi anche della Sicilia, introducendo in Italia un nuovo regno, un’altra dinastia straniera: i Vespri Siciliani.
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