da Veldriss il 2 ottobre 2015, 23:09
Tratto da "Le grandi battaglie del Medioevo" di Andrea Fedriani.
Svevi e Angioini
La scomparsa del «mostro apocalittico posseduto da Satana», come Innocenzo IV aveva definito Federico II, fece uscire di scena il più fiero avversario del papato, e chiuse la fase in cui l’impero aveva disputato a quest’ultimo il dominio universale; ma non aprì la strada all’affermazione incondizionata del partito guelfo, se non in Toscana, dove Firenze si fece guelfa e andò affermando la propria egemonia sulle città ghibelline. Al contrario, il pontefice si trovò ad avere a che fare con più esponenti di spicco del partito imperiale, tutti fermamente determinati a mantenere, se non addirittura a estendere, ciò che Federico aveva affidato loro, trasformandolo in signorie personali che avrebbero accentuato la parcellizzazione dell’Italia e offerto il destro alle invasioni straniere.
Nonostante le ripetute vittorie guelfe nell’ultima fase di regno dell’imperatore, alla sua morte il nord era ancora in mano ai suoi vicari o ai suoi alleati, parte dei quali si erano trasformati in tiranni. La marca trevigiana stava infatti sotto il crudele tallone di Ezzelino da Romano, Oberto Pelavicino era tiranno di Cremona, e il marchese Manfredi Lancia potestà di Pavia e Lodi; inoltre, le Alpi occidentali erano presidiate da Amedeo IV di Savoia, legato a Federico tramite il matrimonio di sua figlia con il più promettente dei figli naturali dell’imperatore, Manfredi, appena diciottenne. Anche il podestà di Roma, Brancaleone degli Andalò, era filoimperiale. C’era poi il regno di Sicilia. Se mai il papa si era fatto delle illusioni su una sua facile ricaduta in orbita guelfa dopo la morte di Federico, gli eventi mostrarono che probabilmente quello scacchiere, che non trovava pace dall’epoca della decadenza normanna, era proprio quello dove maggiori erano gli ostacoli da superare per sottrarlo al partito ghibellino.
La volontà di Federico, infatti, era stata di affidarne la corona al figlio maggiore Corrado IV, già re di Germania e dei romani. Ma le alternative non mancavano: l’imperatore aveva stabilito che, in caso di morte di Corrado, subentrasse il secondo figlio legittimo, Enrico, e in terza battuta proprio Manfredi, che era stato nominato reggente del regno fino all’arrivo di Corrado, allora impegnato in Germania. La faccenda era ulteriormente complicata dall’atteggiamento della nobiltà e della popolazione normanna, intenzionate ad approfittare della morte di Federico per togliersi di torno una volta per tutte il giogo dei mai amati svevi; Manfredi, che aveva ricevuto in appannaggio solo il principato di Taranto, da parte sua era ben disposto, con la sua famiglia, i Lancia, ad assecondarne lo spirito secessionista, che ben si accordava con la sua ambizione. Tuttavia, nel regno siciliano erano presenti anche i fedeli sostenitori di Federico, come il siniscalco Bertoldo di Vohburg-Hohenburg, il maresciallo Pietro Ruffo e il ciambellano Giovanni il Moro, capo delle forze saracene, tutti ben decisi a far rispettare le volontà dell’imperatore.
In realtà, in un primo tempo Manfredi e Bertoldo collaborarono per sopprimere le rivolte scoppiate nel regno, immancabilmente fomentate dal papa. Poi, nel 1252 arrivò Corrado e, scontento dell’operato del fratellastro, accantonò lui e tutta la famiglia Lancia, il che gli costò, tra l’altro, il sostegno del marchese Manfredi, zio del giovane, divenuto potestà di Milano. Tuttavia, la presenza in Italia del re dei romani privò il papa di qualunque residua prospettiva di sottrarre ai ghibellini il regno siciliano, e fu allora che il pervicace pontefice iniziò a considerare l’ipotesi di andarsi a cercare fuori dalla penisola qualcuno disposto a sostenere i suoi interessi.
Innocenzo IV si diede infatti a sondare il terreno presso le potenze europee, per scovare qualcuno interessato a procurarsi con la forza – e con i propri mezzi, tenne a chiarire – il regno di Sicilia in qualità di vassallo della Chiesa. La prima scelta fu la corte d’Inghilterra, dove i suoi inviati trattarono con il fratello minore di re Enrico III, Riccardo di Cornovaglia. Non se ne fece nulla, né andò a buon fine la trattativa con Carlo d’Angiò, fratello minore del re francese Luigi IX. Poi però il sovrano inglese – che, va ricordato, era zio di Enrico di Svevia, fratello minore di Corrado ed erede del regno – offrì come candidato il proprio figlio minore Edmondo. Intanto, il papa era anche in trattative con lo stesso Corrado, cui prospettava la corona imperiale in cambio della rinuncia al regno di Sicilia; ma le posizioni erano lontane, e nell’aprile 1254 si arrivò a una nuova scomunica; solo un mese dopo, il re dei romani moriva per un’improvvisa febbre malarica.
Appena cinque mesi prima, invece, era morto anche Enrico di Svevia, e ciò avrebbe dovuto fare di Manfredi, in base ai dettami di Federico II, l’erede designato del regno siciliano nonché il campione del partito ghibellino. Ma Corrado non aveva voluto restituirgli alcun diritto, neanche in punto di morte, scegliendo piuttosto di imitare la nonna Costanza d’Altavilla, affidando il figlio bambino, Corrado II o Corradino, alla tutela del papa, e la reggenza del regno a Bertoldo. A Innocenzo non parve vero di vedersi recapitare l’Italia meridionale con tanta facilità, e si dimenticò degli impegni che aveva assunto col re d’Inghilterra per Edmondo, giungendo a un accordo con Manfredi che, per il momento, dovette accontentarsi di Taranto, come stabilito dal padre.
Ma né Innocenzo né Manfredi avevano intenzione di accantonare le loro ambizioni sul regno siciliano. Neanche un mese dopo gli accordi, il papa unì direttamente allo stato pontificio Sicilia e Calabria, e Manfredi ne approfittò per farsi campione del fronte trasversale di quanti si opponevano alla sua ingerenza; tutti, da Corradino ai baroni normanni, lo accettarono come reggente, e ciò accadde poco prima che Innocenzo, nel dicembre 1254, venisse a morte.
La scomparsa del papa più temporale della storia medievale fece venir meno un consistente ostacolo alle sfrenate ambizioni di Manfredi, che tuttavia dovette continuare a misurarsi con la determinazione della curia il cui indirizzo, nonostante l’elezione di un pontefice più moderato come Alessandro IV (nipote di Gregorio IX), era ormai saldamente improntato al recupero del regno siciliano – dopo aver scongiurato definitivamente la sua congiunzione con quelli germanico e italico.
Il nuovo papa riprese quindi a trattare con Enrico III per l’elevazione al trono di Edmondo, che fu sancita per il 1255; intanto continuava a fomentare rivolte in Italia meridionale. Quando Alessandro passò però alle vie di fatto, tentando un’invasione con le magre forze di cui disponeva, offrì a Manfredi l’occasione di guadagnarsi, con la sua superiorità militare, la conferma della reggenza per Corradino, che poi era solo un pretesto per perseguire i propri fini.
Cosa avesse intenzione di fare veramente il figliastro di Federico II, lo si vide non appena si liberò della pressione papale e della minaccia di ribellioni. Non esitò, infatti, a togliere di mezzo tutti i personaggi lasciatigli in eredità dal padre che potessero ostacolare la sua politica, facendo accecare Bertoldo e uccidere Pietro Ruffo, per poi far diffondere nel regno la falsa notizia della morte di Corradino. A quel punto, la strada per il trono siciliano era tutta in discesa, e il 10 agosto 1258 si fece senz’altro incoronare a Palermo.
Se le ambizioni di Manfredi si fossero limitate al regno di Sicilia, probabilmente il giovane avrebbe potuto dare avvio a una dinastia relativamente solida. Il papato, infatti, non era più nella condizione di ostacolarlo, e in Inghilterra non avevano alcuna voglia di buttarsi in un’impresa contro un regno non più diviso e precario, ma almeno apparentemente coeso. Il tutore di Corradino, Ludovico di Baviera, non era in grado di far valere i diritti del giovane Hohenstaufen, né potevano vantare nulla di più che un titolo onorifico i due re dei romani appena eletti, Riccardo di Cornovaglia e Alfonso X di Castiglia. Il resto dell’Italia, poi, era talmente frammentato e paralizzato da mille dispute locali da non poter costituire alcuna minaccia per la nuova compagine politica.
Ma era proprio questo il punto. Manfredi disponeva ancora di molti aderenti e parenti sparsi in posizioni chiave dell’antico regno italico, e proprio la mancanza di uno stato sufficientemente potente da opporsi a una sua ulteriore espansione induceva il nuovo re di Sicilia a coltivare progetti di più ampio respiro. Al nord, però, qualunque speranza di poter contare su una parvenza di stabilità, che fosse in favore dei guelfi o dei ghibellini, era vanificata dall’intersecarsi di spirito di fazione, conflittualità di classe e ambizioni dei tiranni; questi ultimi, in particolare, andavano trasformando in signorie l’autorità che era stata conferita loro dall’emergente partito del popolo, ovvero il ceto medio che contendeva ai nobili la guida dei comuni. Mentre Manfredi estendeva la sua influenza all’Italia centrale, infatti, nel settentrione si assisteva alla destabilizzante azione di Ezzelino da Romano; i suoi folli eccessi indussero il papa a indire contro di lui una crociata, cui partecipò uno schieramento trasversale comprendente non solo le truppe papali, ma anche Venezia e una lega formata da alcuni comuni padani come Milano e Bologna, condotta dall’altro tiranno ghibellino, il Pelavicino. La resa dei conti avvenne a Cassano d’Adda il 27 settembre 1259: Ezzelino fu sconfitto e ferito, per morire pochi giorni dopo.
Sebbene promossa dal papa, la scomparsa del tiranno veneto costituì un vantaggio per Manfredi, perché consolidò il potere del Pelavicino in Lombardia, mentre nella marca trevigiana, al posto della scheggia impazzita costituita da Ezzelino, sorse la stella degli Scaligeri, dichiaratamente ghibellini nella persona di Mastino della Scala; perfino i Torriani, al potere a Milano, mostravano di andare d’accordo col Pelavicino. Sembrò dunque che anche al nord le cose si mettessero bene per l’ambizioso bastardo di Federico II.
Manfredi si diede quindi a brigare per assumere il controllo del resto della penisola, con un occhio anche all’impero bizantino, che d’altronde era rientrato nei progetti di suo padre. A Roma reinsediò il suo sostenitore Brancaleone, estromesso da un rivolta, e poi diede corpo a un’intensa attività diplomatica in Italia centrale, dove le posizioni ghibelline erano più deboli che non in qualsiasi altra parte della penisola. Tra il 1258 e il 1259, il suo lavoro diede cospicui frutti, permettendogli di sottrarre all’influenza del papato la marca di Ancona e il ducato di Spoleto, dove insediò suoi vicari.
Ma era la Toscana, allora, che attirava l’attenzione di Manfredi. Per quanti progressi avesse fatto il partito ghibellino, il re di Sicilia non poteva sperare di esercitare un controllo sullo scacchiere centroccidentale fino a quando Firenze rimaneva guelfa e potente. Alla base del regime guelfo erano i banchieri e i mercanti che annoveravano tra i propri debitori il papato e la corona d’Inghilterra; essi erano il vero sostegno del governo del popolo, sorto fin dal 1250 in alternativa a quello comunale, con un capitano del popolo a capo delle milizie cittadine, che si contrapponeva al podestà espresso dalla fazione nobiliare che a suo tempo aveva dato vita al comune.
Anche Siena, prospera città lungo la via Francigena che portava i pellegrini a Roma, non sembrava avere alcuna possibilità di resistere all’espansionismo fiorentino, tanto da essere stata costretta a firmare, nel 1255, un trattato di alleanza che la obbligava a non dare asilo ai ghibellini espulsi da Firenze. Ma nel 1258, dopo una nuova diaspora, i senesi erano venuti meno al loro impegno, accogliendo fuoriusciti come Manente di Jacopo degli Uberti, detto Farinata, e provocando la reazione fiorentina, che aveva sottratto al controllo di Siena parte della Maremma.
A quel punto Siena non vide altra soluzione che gettarsi tra le braccia di Manfredi, giurando fedeltà al re si Sicilia nel maggio 1259, e ciò le permise di fruire di un primo contingente di combattenti tedeschi, pugliesi e saraceni. Manfredi tentò anche di trarre dalla sua parte Firenze, ma la città rifiutò il suo vicario, il conte di San Severino Giordano d’Anglano, che finì a fare il podestà proprio a Siena.
Con i rinforzi inviati dal sovrano, nel 1260 i senesi non si limitarono più a una strategia di contenimento della pressione fiorentina, ma si diedero a estendere l’autorità del sovrano in Toscana, recuperando Grosseto in marzo. Ciò non fece che provocare la nuova reazione dei fiorentini, che fin dalla fine dell’inverno si diedero a preparare la guerra assoldando forze in Lombardia e in Romagna. La campagna guelfa prese avvio in aprile, per giungere il 18 maggio davanti alle mura di Siena, all’altezza del monastero di Santa Petronilla, dove i combattimenti si limitarono a una dimostrazione di forza contro i cavalieri tedeschi usciti per una sortita.
La scarsa concretezza dei fiorentini incrementò lo spirito offensivo dei ghibellini, che durante l’estate, rinforzati da altri 800 cavalieri inviati da Manfredi, distrussero Montemassi, acquisirono il controllo di Poggibonsi e saccheggiarono Colle Val d’Elsa prima che arrivasse l’esercito di soccorso. Anche Montalcino era sotto assedio, e in agosto i fiorentini, mentre ultimavano i preparativi per una nuova campagna, tentarono di far pervenire ai difensori dei rifornimenti di grano, valendosi di un contingente di cavalieri tedeschi che aveva incontrato il papa ad Anagni per perorare la causa di Corradino di Svevia. Ma anche i ghibellini legittimisti fallirono, uscendo decimati da uno scontro a Molaria presso Velletri.
Non si hanno notizie precise sull’entità e sulla composizione dell’esercito con il quale, nella seconda metà di agosto, i fiorentini ripresero l’offensiva per raggiungere il territorio senese e soccorrere Montalcino. Il Villani scrive che «non rimase casa né famiglia di Firenze che non v’andasse pedone a piè o a cavallo, il meno uno per casa, e di tali due e più, secondo ch’erano potenti». I preparativi erano stati particolarmente puntigliosi. Tra il 7 luglio e il 22 agosto in città, infatti, erano affluiti i mallevadori delle varie comunità, impegnandosi sotto giuramento, davanti ai notai, a fornire una determinata quantità di frumento o, in alternativa, di denaro.
Ad accompagnare il convoglio di rifornimenti destinato al centro assediato, dovevano esservi molti effettivi di fanteria, un paio di migliaia di cavalieri tra gli esponenti dell’aristocrazia fiorentina – in parte di fede ghibellina – e i nobili toscani di fede guelfa, come Guido Guerra dei conti Guidi e i marchesi Malaspina, Federico, Manfredi e Morello. C’erano poi contingenti provenienti dall’intera toscana, ovvero da Lucca, Pistoia, Prato, Arezzo, San Gimignano, San Miniato e Volterra, ma anche dall’area romagnola, e segnatamente da Bologna e Piacenza, dove furono reclutati un centinaio di berrovieri, e perfino dall’area umbra, con Orvieto e Perugia. In tutto, «si ritrovaro più di tremila cavalieri, e più di trentamila pedoni», ricorda il Villani, un numero francamente poco credibile.
Era presente pure il Carroccio di Firenze, dipinto di rosso e trainato da buoi ricoperti di rosso, a loro volta condotti da contadini vestiti di rosso; agli angoli del carro spiccavano quattro leoni di legno. Al centro svettava l’antenna con le insegne, quella dell’esercito, una palla dorata decorata con due rami, uno d’ulivo e uno di palma, e quella di Firenze, un pennone con due strisce di seta, una bianca e l’altra rossa.
Ad accompagnare l’esercito guelfo c’era anche un altro carro simbolicamente rilevante, quello che trasportava la Martinella, o campana degli Asini; si trattava di una campana della piazza del Mercato, che nell’imminenza di una campagna militare prendeva a suonare di continuo, prima di essere staccata e trasportata su un mezzo dove, appesa a una struttura di legno, regolava e ritmava pressoché l’intera giornata dei soldati in guerra. La suonava una figura specifica, in quella circostanza tale Oddo Infrangipane, nominato campanaro l’anno precedente per essersi particolarmente distinto in battaglia.
Il comando almeno nominale dell’armata spettava al podestà di Firenze, Iacopino Rangoni di Modena, sebbene la presenza in città di un contingente germanico sotto le insegne dell’aquila degli Hohenstaufen desse rilevanza al rappresentante svevo, Corrado Kroff von Fluglingen. Prima della partenza dell’esercito, i suoi capi discussero a lungo sull’itinerario da seguire per raggiungere Montalcino. Alla fine fu scartata la via meno rischiosa ma più lunga, per incunearsi in pieno territorio senese e ostentare così la potenza fiorentina.
L’esercito guelfo uscì da Firenze il 22 o 23 agosto, marciando verso sud e sostando lungo il percorso a San Casciano, San Donato in Poggio e al castello di Ricavo, prima di superare i confini del territorio senese e fermarsi ancora, il 30 agosto, a Monsanese. La nuova sosta, il 2 settembre a Pieve d’Asciata, costituì l’occasione per inviare messi a Siena, distante solo pochi chilometri a sud-ovest, a presentare le condizioni di pace. Il Consiglio dei Ventiquattro, cui era affidato il governo della città senese, dibatté a lungo nella chiesa di San Cristoforo se accettarle o meno, nonostante prevedessero condizioni severe come l’abbattimento delle mura; ma poi l’orgoglio vinse la paura e, per tutta risposta, i ghibellini decisero di affrontare i nemici in campo aperto.
Gli sforzi per racimolare un esercito che potesse perlomeno competere con quello, rilevante, dei guelfi, portarono alla costituzione di un’armata di 18.000 fanti – tra cui 8000 senesi, 3000 pisani e 2000 tedeschi – e 1800 cavalieri; questi ultimi erano per metà tedeschi, e per dare loro stimoli pari a quelli che animavano i cittadini si decise di raddoppiare loro la paga. L’armata uscì dalla città il giorno 3, al comando del capitano della città, Aldobrandino degli Aldobrandeschi, naturalmente del vicario di Manfredi, Giordano d’Anglano, e di Provenzano Salvani, sotto le insegne cittadine, la Madonna in Maestà, le aquile di Manfredi e le pantere dei ghibellini. La determinazione dei senesi traspare dall’arringa che fece loro Aldobrandino secondo il d’Ancona, un cronista coevo:
Signori Sanesi, io vi ricordo che oggi è quello dì, che noi aremo una grande e solenne vittoria e grande onere, e però pigliate ardire e franchezza, e tutti fate buone spalle, e state francamente al fatto del combattere. Lassate fare a noi con questi franchi e arditi tedeschi, e noi piglieremo ogni vantaggio, e pertanto seguitereteci francamente; a niuna altra cosa attenderete, se non a combattere e a fare come di quella malvagia gente de’ fiorentini, e tutti, gli mettete al taglio delle spade e attendete sempre a uccidere li loro cavalli a pena della vita, che non si pigli niuno prigione, infino che non ha lo vostro bando. […] Io v’arricordo, Sanesi, che voi combattete per dimensione della vostra città; ora pensate quello ch’avrebbeno fatto a voi. Non è dunque peccato di fare quello ad altrui che ’l compagno vole fare a voi.
I fiorentini, che nel frattempo si erano spostati sul Poggio delle Cortine, potevano osservare i loro movimenti; secondo la tradizione i senesi, che ne erano consapevoli, sfilarono per tre volte con l’intero esercito, ma usando ogni volta equipaggiamento e insegne diversi, per dare l’impressione che ogni terzo della città avesse messo in campo un numero pari a quello di cui era composta la loro armata. Poi, si attestarono a Poggio delle Rosole, pochi chilometri a est di Siena, vicino al borgo di Montaperti, dove potevano facilmente sbarrare la strada per Montalcino.
Il giorno seguente, 4 settembre, venne introdotto da nuovi movimenti delle due armate; cominciò quella guelfa, che passò l’Arbia e si dispose a battaglia al suono della Martinella, schierando in posizione avanzata la cavalleria. La nuova posizione dei senesi divenne invece Monselvoli, davanti la quale si schierò il grosso dell’esercito, costituito da tre divisioni: la prima schiera, al comando del conte d’Anglano, disponeva di 600 cavalieri tedeschi e 6000 fanti, la seconda, di 4000 fanti agli ordini del conte Aldobrandino degli Aldobrandeschi, era totalmente composta dalle milizie senesi. A costoro era affidata la carica frontale, mentre la terza schiera, al comando di Niccolò da Bigozzi, vantava 200 cavalieri e 4000 fanti, e costituiva la riserva, oltre a proteggere il Carroccio. Infine, un distaccamento di 200 cavalieri tedeschi e 200 fanti, al comando del conte d’Arras, si attestò alle spalle del paese per aggirare lo schieramento nemico.
L’inizio della battaglia è molto confuso nei resoconti dei cronisti. Pare che ad attaccare siano stati i ghibellini, che tuttavia avevano il sole negli occhi e la pendenza sfavorevole. La tradizione vuole che sia stato un cavaliere tedesco, Gualtieri d’Astimberg, ad aprire il combattimento, dopo averne fatto espressa richiesta ai comandanti; costui si sarebbe avventato da solo contro i cavalieri fiorentini trafiggendone tre con la propria lancia. Nel complesso, però, lo schieramento guelfo resse bene, valendosi della propria superiorità numerica, al punto che Niccolò da Bigozzi si sentì indotto a intervenire a supporto dei commilitoni, nonostante non avesse ricevuto ordini in tal senso.
Il combattimento prese una piega radicalmente diversa quando – forse in un momento molto prossimo all’inizio – tra le file guelfe iniziarono a palesarsi i ghibellini. Prima vittima dell’improvviso cambio di fronte di alcuni fiorentini fu il gonfaloniere, Jacopo del Nacca de’ Pazzi, che si ritrovò con un braccio mozzato – quello che stringeva il gonfalone fiorentino – ad opera di Bocca Ranieri di Rustico degli Abati, uno dei numerosi ghibellini che militavano nell’armata fiorentina. L’azione diede il via a una mischia alla quale non parteciparono i senesi, ma che coinvolse l’intera cavalleria fiorentina. Probabilmente era il segnale convenuto perché i ghibellini gettassero la maschera e passassero all’azione; non a caso, tutti si strapparono le croci rosse e apposero al loro posto quelle bianche di fede opposta, prima di avventarsi contro i loro stessi concittadini.
I ghibellini approfittarono degli attimi di sorpresa che frenarono i loro commilitoni di parte guelfa, i quali avevano visto cadere la loro insegna senza che il nemico si fosse avvicinato al gonfaloniere. Il panico si diffuse anche tra la fanteria, nella quale molti dei più sprovveduti combattenti si diedero alla fuga, lasciando insostenibili vuoti nello schieramento fiorentino. A quel punto caricò la cavalleria ghibellina di parte senese, supportata da arcieri e balestrieri che le aprirono la strada indebolendo ulteriormente, con il loro fitto dardeggiamento, le file nemiche. Subentrò anche, al convenuto grido di “San Giorgio!”, il contingente del conte d’Arras, il cui comandante trafisse personalmente alla gola il generale supremo dei fiorentini, Iacopino Rangoni, cancellando qualsiasi residua volontà di resistenza dei guelfi.
Chi tentò di resistere vendette cara la pelle, contribuendo a «lo strazio e ’l grande scempio che fece l’Arbia colorata in rosso» di cui parla Dante; ma ciò che era accaduto nelle file fiorentine aveva irrimediabilmente minato la compattezza del loro esercito, e l’unico settore nel quale l’armata guelfa offrì una salda resistenza fu quello del Carroccio, presidiato dal contingente lucchese al comando del capitano Niccolò Garzoni.
Le notizie sull’andamento della battaglia sono poche, le leggende tante. Si disse che il capitano della guardia senese abbia ucciso da solo 200 nemici, e un legnaiolo, Geppone di Val di Biena, andò dicendo di aver ucciso con la sua ascia fino a 25 guelfi. I ghibellini rimasero padroni del campo, vincendo infine la resistenza dei lucchesi e impadronendosi del Carroccio, di cui trascinarono in città le insegne, legate alla coda di un asino; le ricoprirono di sputi ed escrementi, prima di esporle sulle pareti del Duomo, dove si possono vedere ancor oggi. Anche la Martinella, tra le tante insegne sottratte ai guelfi, entrò a far parte del bottino, finendo esposta nel Palazzo Pubblico per qualche tempo.
Al campo fiorentino i ghibellini trovarono, si disse, 9000 cavalli e altrettanti animali da soma. L’inseguimento degli sconfitti durò fino a sera, e solo dopo somma strage i comandanti senesi ordinarono di fare prigionieri: chi la scampò dovette la salvezza al fatto di essersi liberato del proprio equipaggiamento rendendosi irriconoscibile. Così Villani descrive il disastro guelfo:
Ma perché la cavalleria di Firenze prima s’avvidono del tradimento, non ne rimarono che trentasei uomini di nome di cavallate tra morti e presi. La grande mortalità e presura fu del popolo di Firenze a piè, e di Lucchesi e Orbitani, perocché si rinchiusono nel castello di Montaperti, e tutti furono presi, ma più di duemilacinquecento ne rimarono sul campo morti, e più di millecinquecento presi pur de’ migliori del popolo di Firenze di ciascuna casa, e di Lucca e degli amici che furono alla detta battaglia.
Si disse che i guelfi avessero lasciato sul campo, nel complesso, 10.000 uomini: «Furono li prigioni che vennero in Siena sedici mila; pensate se ne furono morti, ché per la puzza degli uomini e de’ cavalli morti s’abbandonò tutta quella contrada; e stette molto tempo che non vi s’abitò, se non per fiere e bestie selvagge», precisa il cronista anconetano. Da parte loro, i ghibellini ebbero un migliaio di perdite, tra morti e feriti.
L’eco della battaglia raggiunse subito Firenze, provocando una sommossa della gente di fede ghibellina già il giorno seguente; la cacciata dei guelfi dalla città, il 9, precedette di tre giorni l’arrivo di Giordano d’Anglano e l’instaurazione della signoria di Manfredi. In una dieta convocata a Empoli, i ghibellini arrivarono a contemplare la distruzione della città che era stata la roccaforte guelfa in Toscana e il centro con le maggiori capacità di espansione ai danni degli altri; ma alcuni fuoriusciti, tra i quali Farinata degli Uberti, si opposero, e Firenze non ebbe che da attendere il declino delle fortune ghibelline per recuperare la posizione di preminenza che Montaperti aveva solo intaccato.
La stagione trionfale di Siena fu invece brevissima, e minata subito dopo Montaperti dalla scomunica che il papa comminò al comune. Sottoposti a una sorta di embargo da parte di quanti facevano affari con la città, i senesi non furono in grado di costituire un potente polo ghibellino quanto Firenze lo era per i guelfi, e dopo le sconfitte sveve a Benevento e a Tagliacozzo si offrirono come carne sacrificale alla riscossa fiorentina: nel 1269 una nuova battaglia, a Colle Val d’Elsa, nella quale cadeva Provenzano Salvani, sanciva il predominio di Firenze nell’area toscana.