Battaglia della Meloria

Campagne militari, guerre e battaglie
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La Battaglia della Meloria fu una storica battaglia navale che vide coinvolta la flotta della Repubblica di Genova e quella della repubblica marinara di Pisa. La battaglia, che avvenne nell'agosto 1284 al largo delle coste di Livorno, indebolì fortemente la flotta navale pisana dando inizio al lento declino di Pisa come potenza marinara in Italia durante il Medioevo.

Antefatti
Dopo i grandi contrasti verificatisi nei secoli precedenti tra la Repubblica di Genova e la repubblica marinara di Pisa, l'occasione per lo scontro definitivo avvenne nel 1284. Parte della flotta genovese era ormeggiata presso Porto Torres, in Sardegna, allora territorio conteso tra le due repubbliche.
Il piano dei pisani era di colpire in netta superiorità (settantadue galee) la flotta ligure per poi affrontare la rimanenza e chiudere per sempre il conto con i genovesi.
Benedetto Zaccaria, futuro doge di Genova, che comandava quella parte di flotta (venti galee), eluse lo scontro, fingendo una ritirata verso il Mar Ligure. La flotta pisana lo incalzò, ma fu raggiunta dalla restante parte della flotta genovese (68 galee), e ripiegò verso Porto Pisano, non senza lanciare una provocazione ai genovesi, sotto forma di una pioggia di frecce d'argento.

La battaglia
La flotta della Repubblica di Genova raccolse la sfida, e il giorno 6 agosto 1284, giorno di San Sisto, patrono di Pisa (che da quel giorno non fu più festeggiato) salpò verso Porto Pisano.
L'ammiraglio genovese Oberto Doria, imbarcato sulla San Matteo, la galea di famiglia, guidava una prima linea di 63 galee da guerra composta da otto "Compagne" (antico raggruppamento dei quartieri di Genova): Castello, Macagnana, Piazzalunga e San Lorenzo, schierate sulla sinistra (più alcune galee al comando di Oberto Spinola), e Porta, Borgo, Porta Nuova e Soziglia posizionate sulla destra.
Benedetto Zaccaria comandava invece una squadra di trenta galee, lasciate volutamente in disparte per prendere di sorpresa la flotta pisana. Parte di essa era ormeggiata dentro Porto Pisano, mentre un'altra parte sostava poco fuori dal porto.
Si narra che durante la tradizionale benedizione delle navi, la croce d'argento del Bastone dell'Arcivescovo di Pisa, si staccò. I pisani non si curarono di questa premonizione negativa: dopotutto era il giorno del loro patrono, San Sisto, anniversario di tante gloriose vittorie, e quella era un'ottima occasione per eliminare definitivamente i genovesi: contando 63 legni genovesi, i pisani forti di 9 navi in più decisero di uscire dal porto.
Secondo le consuetudini del Governo Potestale, i pisani avevano scelto un forestiero come Podestà, Morosini da Venezia. I Veneziani com'è noto erano da sempre in rivalità contro Genova, ma in questo frangente avevano rifiutato l'appoggio alla repubblica toscana. Assistevano il Morosini: il Conte Ugolino della Gherardesca (celebre perché cantato da Dante nel XXXIII canto dell'Inferno nella Divina Commedia) e Andreotto Saraceno.
I Pisani dopo una prima esitazione, decisero di attaccare la flotta genovese e si lanciarono sulla prima linea. Entrambe le flotte erano in formazione a falcata ovvero a mezzo arco. Lo scontro era dunque frontale. I famosi balestrieri genovesi, al riparo dietro le loro pavesate, tiravano contro i legni pisani, mentre questi tentavano, secondo le tattiche dell'epoca, di speronare le navi con il rostro per poi abbordarle. Qualora l'abbordaggio non avesse luogo, gli equipaggi si colpivano con ogni sorta di munizione scagliata da macchine belliche o dalle nude mani, come sassi, pece bollente e addirittura calce in polvere.
Le sorti della battaglia furono decise dopo ore dai trenta legni dello Zaccaria, che piombarono sul fianco pisano, colto completamente impreparato dalla manovra, ed ignaro della stessa esistenza di quelle galee: fu uno sfacelo di legno, corpi e sangue. Dell'intera flotta pisana, solo venti galee, quelle comandate dal Conte Ugolino, si salvarono. L'accusa di vigliaccheria, se non di tradimento, non impedirà al conte di conquistare la signoria de facto e di restare al vertice del governo della città fino alla sua deposizione (1288) ed alla celebre morte per inedia (1289).
Alcuni storici riferiscono che il contingente di rinforzo genovese fosse nascosto dietro l'isolotto della Meloria (allora un basso scoglio sopra il livello del mare), ma si tratta probabilmente di un fraintendimento, dato che una squadra navale, anche piccola, non avrebbe assolutamente potuto evitare di essere visto. Secondo un'altra ipotesi le navi sarebbero state in realtà nascoste alla fonda di un'isola dell'arcipelago.[senza fonte]
Un'altra ragione della sconfitta pisana deve essere individuata nell'ormai obsoleto armamento navale e individuale; le navi pisane, più vecchie e più pesanti, imbarcavano anche truppe armate con armature complete, nonostante la calura agostana, e durante la lunghissima battaglia i genovesi, muniti di armature ridotte e più leggere ne furono chiaramente avvantaggiati.
La gloria della Repubblica Pisana s'inabissò in quel giorno nelle acque della Meloria perdendo tra colate a fondo o cadute in mano nemica oltre 49 galere.
Tra i cinque e i seimila furono i morti, e quasi undicimila furono i prigionieri (alcune fonti citano fino a venticinquemila perdite tra morti e prigionieri) tra cui proprio il podestà Morosini, che fu portato con gli altri a Genova nel quartiere che da allora si sarebbe chiamato "Campo Pisano". Tra i prigionieri anche l'illustre Rustichello che aiutò Marco Polo a scrivere il suo Milione, nelle prigioni genovesi. Solo un migliaio di prigionieri pisani tornò a casa dopo tredici anni di prigionia. Gli altri morirono tutti e sono sepolti sotto il quartiere genovese che tristemente porta ancora il loro nome. La deportazione forzata di tante migliaia di prigionieri, depauperò spaventosamente la repubblica pisana non solo della sua popolazione maschile, ma anche di gran parte del proprio esercito, lasciandola così indebolita e spopolata da causarne la progressiva decadenza. In tale occasione, proprio in riferimento all'ingente numero di prigionieri pisani a Genova, nacque il detto " se vuoi veder Pisa vai a Genova".

Conseguenze
Pisa firmò la pace con Genova nel 1288, ma non la rispettò: fatto che costrinse Genova ad un'ultima dimostrazione di forza. Nel 1290, Corrado Doria, salpò con alcune galee verso Porto Pisano, trovando il suo accesso sbarrato da una grossa catena tirata tra le torri Magnale e Formice. Fu il fabbro Noceto Ciarli (il cognome è spesso riportato anche come Chiarli) ad avere l'idea di accendere un fuoco sotto di essa per renderla incandescente in modo da spezzarla con il peso delle navi. Il porto fu raso al suolo e sulle sue rovine fu sparso il sale, come accadde per Cartagine ai tempi di Scipione, la campagna circostante devastata e saccheggiata.
Con questo evento, e con la definitiva presa della Sardegna pisana da parte Aragonese nel 1324, il potere sul mare di Pisa si spense definitivamente. Nel 1406 la città fu infine assoggettata da Firenze per la prima volta, ma solo dopo un lungo assedio che si concluse con la vendita della città da parte del pavido Capitano del Popolo Giovanni Gambacorta. I danni apportati da questi novant'anni di dominazione fiorentina furono incalcolabili per la città.
La grande catena del porto di Pisa fu portata a Genova, spezzata in varie parti che furono appese come monito a Porta Soprana e in varie chiese e palazzi della città (chiese di Santa Maria delle Vigne, San Salvatore di Sarzano, Santa Maria Maddalena, Sant'Ambrogio, San Donato, San Giovanni in Borgo di Prè, San Torpete, Santa Maria di Castello, San Martino in Val Polcevera, Santa Croce di Riviera di Levante; ponte di Sant'Andrea, Porta di Vacca, Palazzo del Banco di San Giorgio, Piazza Ponticello); furono restituite a Pisa solo dopo l'Unità d'Italia e sono attualmente conservati nel Camposanto Monumentale di Pisa. Uno degli anelli è ancora presente a Moneglia, borgo ligure, che partecipò con sue imbarcazioni alla battaglia.

Flotta genovese
Comandanti: Oberto Doria, Benedetto Zaccaria, Oberto Spinola
Effettivi: 93 tra Galee da Guerra e Galeotte
Perdite: sconosciute

Flotta pisana
Comandanti: Podestà Morosini di Venezia, Ugolino della Gherardesca, Andreotto Saraceno
Effettivi: 72 tra Galee da Guerra e Galeotte
Perdite: 5000-6000 morti, 11000 prigionieri, circa 50 galee affondate o catturate

Immagine
http://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_della_Meloria
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CURIOSITA’

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La meta’ delle galee della flotta genovese che parteciparono alla Meloria erano state costruite da poco, dai cantieri navali di Sampierdarena,dal 1200 dimora di abili maestri d’ascia fedelissima da sempre della Repubblica.(ricordo i quartieri di allora: Coscia, Fossato, Campaccio.)

In combattimento alla Meloria, ma era una pratica gia’ diffusa, vennero lanciate grandi quantita’ di sapone liquido per condizionare l’equilibrio degli avversari.
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Re: Battaglia della Meloria

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La tensione divenne estrema, nel 1241, quando, insieme alla flotta di Federico II di Sicilia e imperatore di Germania, Pisa occupò l’Isola del Giglio. All’interno non vi era tranquillità, poiché l’aristocrazia feudale e il popolo, di parte guelfa, si opponevano ai potenti mercanti ghibellini. Nello stesso tempo, nel sud della Sardegna si era accesa un’accanita lotta tra pisani e genovesi: questi ultimi riuscirono a conquistare il forte pisano di Castel di Castro, che fu, poi, ripreso dai pisani, nel 1257, quando, passati all’offensiva sotto la guida dei Capraia, dei Visconti e dei Gherardesca, assoggettarono tutto il Cagliaritano, dividendolo in tre signorie tra le tre famiglie nobili. Le passioni e le trame furono così violente che il Senato pisano pensò, nel 1272, di espellere i due massimi rappresentanti delle fazioni: Ugolino della Gherardesca e Giovanni Visconti. I due nobili, imparentati tra loro, si erano, invano, accordati per sostituire al governo ghibellino dei mercanti quello guelfo della nobiltà. Nel 1275, Pisa era sconfitta ad Asciano da una lega guelfa e il conte Ugolino poté rientrare in città, l’anno dopo, mentre Genova si organizzava per infierire con un colpo mortale sulla sua rivale.
Nell’agosto del 1284, dopo che il conte Ugolino aveva ricevuto il titolo di comandante della flotta, la squadra genovese, agli ordini di Benedetto Zaccaria, bloccò il porto di Pisa, ma con una brillante sortita, settantadue galee pisane riuscirono a prendere il mare con rotta verso Genova al comando del potestà, il veneziano Alberto Morosini, e si schierarono, a loro volta, davanti alla città ligure. Prontamente Zaccaria si portò alle spalle dei pisani, mentre da Genova tentava di uscire Oberto Doria con un’altra flotta. Per non essere circondati, i pisani, approfittando dell’oscurità, ripresero il largo, ma il Doria li superò e li attese con sessantaquattro galee nelle acque dell’Isola del Giglio, mentre la squadra di Zaccaria con trenta galee si tenne fuori vista a ridosso dell’isola.
I pisani che manovravano centodue imbarcazioni, tra galee e navi minori, si credettero superiori e accettarono la battaglia presso le secche della Meloria, ma durante lo scontro apparvero le altre navi genovesi. Le grandi galee pisane, ampie e solide, con grande ponte libero e vasta stiva, generalmente adibite al trasporto di merci, manovravano lentamente in mezzo a quella grande folla di legni, mentre le navi genovesi da combattimento, lunghe centoventi piedi e larghe quindici, erano assai manovriere, così snelle e sottili. Il pomeriggio del 6 agosto 1284, il giorno di San Sisto, già sacro ai trionfi pisani, Pisa vide il sole tramontare sul suo sogno di gloria; ebbe quaranta galee perdute, di cui trentatre catturate, circa cinquemila caduti e novemila prigionieri, tra i quali il podestà Morosini.
Nei mesi successivi, divenne così intenso il pellegrinaggio a Genova dei parenti dei superstiti, che nacque il detto:
“Chi vuol vedere Pisa, vada a Genova.”
Ugolino della Gherardesca e Giovanni Visconti, che ressero il comune dopo quella tragica giornata, tentarono di assicurarsi la neutralità di Lucca e di Firenze, cedendo loro, nel maggio del 1285, alcuni castelli di confine. Contemporaneamente, le famiglie dei prigionieri della Meloria premevano per un trattato di pace con Genova che Ugolino della Gherardesca sembrava rinviare, anche perché le previste cessioni territoriali da farsi ai genovesi avrebbero colpito le sue vaste proprietà in Sardegna. Fu, allora, accusato dalla famiglia Gualandi, rappresentante dei prigionieri, e dall’arcivescovo Ruggieri di alto tradimento (in realtà, Ruggieri, che favoriva i ghibellini in Pisa, voleva sbarazzarsi di un pericoloso rivale che si era, di nuovo, accostato alla parte ghibellina). Ugolino fu rinchiuso nella Torre dei Gualandi, con i figli e i nipoti e qui furono lasciati morire di fame, come Dante racconta nella Divina Commedia.
Solo, nel 1923, si giunse a una pace, rovinosa per Pisa, per cui questa, sei anni dopo, dovette cedere a Genova la sua parte di Corsica e vaste zone della Sardegna. Pisa fu bloccata sul mare dall’espansione genovese e nel retroterra da quella fiorentina. Furono anni duri, di lotte interne e di alterni periodi di successi e di scacchi militari e politici: passarono gli astri dell’imperatore Arrigo VII, cui andavano tutte le speranze pisane, di Uguccione della Faggiola che riuscì a conquistare Lucca e sconfiggere Firenze; passò la signoria dei Donoratico. Restava ancora alla città una parte della Sardegna, da cui ricavava quasi la metà delle sue entrate, che, tuttavia, era preda agognata degli aragonesi di Spagna, i quali trovarono l’appoggio di papa Bonifacio VIII in cambio della rinuncia aragonese alla Sicilia.
I pisani condussero fiaccamente la lotta contro gli aragonesi, dal 1322 al 1323; artigiani e mercanti vedevano di buon occhio un accostamento di Pisa a Firenze per poter vendere le loro merci su quel ricco mercato. La guerra in Sardegna, dopo la sconfitta della Meloria e l’annullamento di molti privilegi in Levante a opera dei Veneziani, li spaventò.
Nel 1326, cessava il dominio pisano sull’isola.
L’ultima grande amarezza della loro vita marinara i pisani la ebbero, nel 1342, quando reagirono a un tentativo fiorentino di aprire un porto commerciale a Telamone. Navi pisane intervennero, ma i genovesi, alleati di Firenze, forzarono il porto di Pisa e ne asportarono le catene che bloccavano l’ingresso.
Fu la fine, anche morale, per Pisa: le catene furono, in parte, donate ai loro avversari fiorentini che le restituirono, solo nel 1860, con l’unificazione dell’Italia, in segno di unità nazionale. Come si può leggere sulla lapide posta sopra le stesse:
“A segno perenne di fraterno affetto, di concordia, di unione ormai indissolubile.”
Oggi, le catene si trovano nel braccio occidentale del Cimitero Monumentale pisano.

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Re: Battaglia della Meloria

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Le condizioni dettate dai Genovesi erano gravissime e non pareva proprio che i Pisani volessero eseguirle. Così il 23 agosto 1290 la flotta genovese comandata da Corrado Doria salpò da Genova per raggiungere il Porto Pisano; ne abbatté le torri e mentre i Lucchesi devastavano Livorno e la campagna pisana, i Genovesi distrussero dalle fondamenta Porto Pisano, otturando con pietre e con una nave piena di mattoni le bocche dell'Arno. Fu in quella occasione che i Genovesi si impossessarono delle Catene di Porto Pisano.

Liberamente tratto da Federico Donaver, Storia di Genova,
Nuova Editrice Genovese, Genova, 1990
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Re: Battaglia della Meloria

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https://www.festivaldelmedioevo.it/port ... doma-pisa/

La battaglia della Meloria, la Superba doma Pisa

Le flotte di Pisa e Genova si inseguono da due anni nel tratto di mar Tirreno chiuso tra la costa toscana, quella della Sardegna e della Corsica. Il conflitto tra le due Repubbliche si è acceso nel 1282. Entrambe aspirano al controllo della Sardegna e della Corsica e a proteggere le reti commerciali lungo il Mediterraneo. Pisa ha risentito della diminuzione dei commerci di seta e spezie con l’oriente a seguito della costituzione dell’Impero Latino a Costantinopoli, fortemente appoggiato dai genovesi, e cerca nuovi spazi, dovendosi guardare dall’aggressività di Lucca e Firenze. Genova, padrona dell’intera Liguria e protetta dalle montagne, non ha nemici via terra e può dedicarsi al mare.

Il “casus belli” è ricondotto alla decisione di un signorotto della Corsica, Simoncello di Cinarca, il quale volendo sottrarsi al controllo di Genova, si rifugiò a Pisa, chiedendo protezione e divenendo vassallo della repubblica toscana. La Superba non esitò a far valere le proprie ragioni e scatenare il conflitto. In realtà esistevano tanti precedenti da vendicare. Nel 1241 i genovesi erano stati sconfitti dall’esercito pisano e da quello imperiale sotto il comando di Federico II, presso l’isola del Giglio, con 2.000 tra morti e feriti e 4.000 prigionieri condotti poi in catene a Napoli. Le scaramucce davanti alle coste sarde e lungo le rotte verso oriente erano pressoché continue. I genovesi sembravano aver un vantaggio importante: l’uso di carte nautiche molto precise che permettevano di evitare il cabotaggio lungo le coste. Un importante scontro era avvenuto ad aprile del 1284 nelle acque di Sardegna, a Tavolara, tra Enrico de’ Mari, capitano della scorta di un convoglio genovese, e una flottiglia pisana, agli ordini di Guido Zaccia, con la perdita di dieci galee pisane. La sconfitta bruciava e per lavare l’oltraggio Pisa aveva armato 70 galere e due pontoni carichi di macchine da lancio e si era presentata davanti a Genova.

Le forze in campo, navi e armamento
All’epoca le due città erano in grado di mettere in mare una trentina di galee e un numero di poco superiore di naviglio d’appoggio. Le navi erano, per la maggior parte, di proprietà di privati cittadini, obbligati a metterle a disposizione per le necessità belliche o ad affittarle. I proprietari tenevano all’integrità delle navi e, quindi, tendevano ad evitare gli scontri, anche in situazioni favorevoli. Nei due anni antecedenti allo scontro, però, le due repubbliche si erano rafforzate e avevano costruito molte imbarcazioni: Genova era in grado di mettere in mare 88 navi, contro le 54 navi pisane già in acqua e reduci da un colpo di mano contro la piazzaforte genovese di Alghero. Nel porto di Pisa, però, erano pronte altre 40 imbarcazioni da guerra.

La nave da guerra principale era la galea, con uno o due alberi con vela latina e rematori (in principio liberi cittadini che servivano ai remi al posto dell’uso delle armi in battaglia e in seguito rematori stipendiati. Solo nel XVI secolo si passò all’uso di schiavi e come pena detentiva) disposti su due ordini con un remo di massimo 8 metri di lunghezza e uno sperone a prua per sfondare la chiglia della nave avversaria. L’equipaggio era di 200 uomini. Navigli minori erano “saettìe”, le “teride” e le “galere con la poppa aperta”, una sorta di mezzo da sbarco. Esistevano anche navi a sola vela, con castelli, torri e macchinari da guerra, come la pisana “Leone della Foresta”, descritta da Ottobono Scriba come “maximam, cum castellis mirificis et instrumentis bellicosis et ingeniis et armatorum multitudine copiosa”. All’epoca dello scontro della Meloria è già in uso la “cocca”, una nave più leggera e manovrabile anche grazie al timone unico a poppa che ha sostituito i due timoni-remi di babordo e tribordo.

Il guerriero del mare è armato con spade, pugnali, daghe corte, coltellacci, mentre per colpire a distanza utilizza frombole e mazzafionde, dardi a mano, archi e balestre. Nei manuali dell’epoca si ricorda a chi combatte per mare il lancio di vasi pieni di pece, zolfo, resina ed olio, da incendiare tramite uno stoppaccino (una sorta di fuoco greco). Le tecniche prevedevano di speronare la nave o di accostare le fiancate e abbordare. In altri casi si cercava di spezzare i remi, per immobilizzare lo scafo, oppure disalberare la nave nemica. Non dovevano mancare frecce a punta larga per squarciare le vele, falci dal lungo manico per tagliare il cordame e le vele, grappini legati a catene e vasi di calce in polvere per accecare i nemici e otri di sapone liquido per rendere scivoloso il ponte. Sulle navi erano caricate ingenti scorte di pietre da lanciare a mano.

La battaglia: le navi si schierano E con 72 galee ben rifornite, il 22 luglio del 1284, il podestà pisano Morosini e il nobile Ugolino della Gherardesca si schierarono davanti al porto di Genova, sfidando i nemici, il quali disponevano di 50 navi da guerra. L’attacco di sorpresa a Genova fu impedito prima da una burrasca che indusse la flotta pisana a rifugiarsi a Bocca d’Arno e poi dall’arrivo di rinforzi per i genovesi. La battaglia non si svolse, perché le navi genovesi del comandante Zaccaria (futuro doge di Genova) vennero avvistate di ritorno da Porto Torres dove si era recato per sostenere le forze genovesi che stavano assediando Sassari. I pisani, in inferiorità numerica, fecero dietrofront e rientrarono in città, inseguiti dai genovesi che arrivarono a schierarsi davanti a Porto Pisano alla foce dell’Arno. I toscani furono tratti in inganno da un sotterfugio, sul numero di galee genovesi, e contando sulla superiorità numerica, decisero di uscire in mare e affrontare il nemico al largo delle secche della Meloria. Repetti, nel suo dizionario, descrive lo scoglio della Meloria come una secca “a cinque miglia di libeccio da Livorno”. Lo scoglio era un avamposto a difesa dello scalo portuale e punto di riferimento per i piloti delle navi dirette a Pisa.

Oberto Doria aveva schierato in prima linea solo 63 galee, altre 30 navi agli ordini di Benedetto Zaccaria, disalberate, erano state tenute in retroguardia. I pisani pensarono a navi appoggio o ausiliarie e si schierarono con una formazione in linea, leggermente incurvata con le estremità più avanzate, lungo oltre 2 chilometri e mezzo, dirigendosi contro la formazione avversaria, disposta in maniera speculare, cosiddetta a falcata o mezzo arco.

I genovesi erano disposti su due linee: il primo di cinquantotto galee e otto panfili, una galea sottile di origine orientale; Oberto Doria, l’ammiraglio genovese, era al centro imbarcato sulla San Matteo, la galea di famiglia; a destra le galee della famiglia Spinola e di quattro delle otto “società” o “compagne”, in cui Genova è divisa: Castello, Piazza lunga, Macagnana e San Lorenzo; a sinistra le galee dei Doria e di Porta, Soziglia, Porta Nuova e Borgo. La seconda linea di venti galee, sotto il comando di Benedetto Zaccaria, era composta da navi da guerra o di piccole imbarcazioni e messa in posizione defilata.

I pisani, comandati dal podestà Morosini Podestà e dei suoi luogotenenti Ugolino della Gherardesca e Andreotto Saraceno, erano compatti e disposti allo scontro frontale. Si racconta che mentre l’arcivescovo benediceva la flotta si staccasse la croce d’argento del pastorale. Un cattivo auspicio ignorato con irriverenza dai pisani, i quali dichiararono che bastava il vento per vincere anche senza l’aiuto divino.

Lo scontro Le tecniche delle naumachie, all’epoca, non erano molto raffinate. Le navi si scontravano violentemente l’una contro l’altra, cercando di speronarsi e abbordarsi. L’avvicinamento era preceduto dal lancio di frecce, dardi, giavellotti, a volte fuoco o gesso per occludere la vista al nemico. Catene tirate da una nave all’altra servivano per disalberare il naviglio nemico. Allo scoglio della Meloria le cose non andarono molto diversamente.

Le due flotte si lanciarono l’un contro l’altra e, a mano a mano che la distanza si riduceva, iniziò il lancio di quadrelli scagliati dalle balestre e di frecce dagli archi. Poi si passò ai sassi e alla calce in polvere per accecare il nemico. Furono lanciati anche vasi pieni di una mistura saponosa che rendesse i ponti scivolosi. Alcuni documenti riportano il lancio di proiettili infuocati, ma non è certo se vennero utilizzati. Alla battaglia della Meloria, secondo le cronache, i pisani avevano montato sui ponti delle galee una specie di girandola irta di spade e flagelli, innestati su un perno che veniva fatto ruotare in caso di arrembaggio da uomini posizionati sotto il ponte.

I pisani indossavano le corazze complete, nonostante il caldo estivo. I genovesi avevano scelto giubbe imbottite e potevano contare sul fatto di avere il sole alle spalle. Vi furono anche degli scontri individuali, a modo di singolar tenzone tra cavalieri. Particolarmente cruenta quella che vide la lotta senza quartiere fra la galera del Doria e quella del Morosini. Le navi pisane erano più vecchie e più pesanti e imbarcavano truppe armate con armature complete sotto il sole di agosto. Nel prolungarsi della battaglia i genovesi, muniti di armature ridotte e più leggere, risultarono avvantaggiati.

La battaglia infuriava al centro dello schieramento quando i genovesi, tirati su gli alberi e le vele della squadra tenuta nascosta, poterono aggirare i nemici e colpirli alle spalle piombando sul fianco pisano scoperto. I toscani colti completamente impreparati dalla manovra resistettero con la forza della disperazione fin quando Zaccaria non si avvicinò alla capitana pisana con due galee e stesa tra di esse una catena legata agli alberi, prese in mezzo la nemica, tranciandole l’asta che reggeva lo stendardo. A quella vista, i pisani cercarono scampo in una fuga disordinata: solo 30 navi agli ordini di Ugolino si salvarono (il suo comportamento in battaglia, a causa di alcune manovre poco chiare, fece sorgere il sospetto che fosse un traditore. Accuse che non impedirono ad Ugolino di divenire podestà di Pisa, fino al tragico epilogo della morte di inedia nella torre della Muda, dove venne chiuso con i figli e i nipoti). Trenta galee furono catturate, sette vennero affondate, altrettante si incagliarono nelle secche. Al calar della sera il mare davanti allo scoglio della Meloria era tinto di sangue e ingombro di cadaveri che galleggiavano. Ovunque c’erano remi spezzati, vele strappate, gomene recise e scialuppe rovesciate.

Alla fine dello scontro i pisani contarono diverse migliaia di morti e feriti e circa novemila prigionieri. Furono tutti portati a Genova e tenuti incatenati in una piccola zona fuori delle mura. Erano così numerosi che si diffuse il detto: «Se vuoi vedere Pisa vai a Genova». A migliaia morirono in prigionia, tanto che a Genova il cimitero dove vennero sepolti prese il nome Campo Pisano. I genovesi, però, non avevano la forza di provare la conquista di Pisa, rimasta praticamente indifesa. La grande catena del porto di Pisa venne presa dai genovesi, spezzata e appesa su palazzi e chiese cittadine come monito (fu restituita a Pisa solo dopo l’Unità d’Italia).

Nel corso della battaglia, infine, venne fatto prigioniero Rustichello da Pisa, legato indissolubilmente a Marco Polo e al racconto dei suoi viaggi: Il Milione.

Umberto Maiorca
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