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Veldriss
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ELENCO EVENTI STORICI DA M2TW 1270-1274

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Anno del Signore 1270
Luigi IX, re di Francia (Poissy, 25 aprile 1214 – Tunisi, 25 agosto 1270), detto il Santo, parte per la VIII Crociata, impresa in cui vi troverà la morte. Figlio di Luigi VIII e di Bianca di Castiglia, succedette al padre nel 1226, ma il giovane sovrano mosse i suoi primi passi sotto l'egida della madre, che per alcuni anni assicurò con decisione la reggenza.
Dopo l'improvvisa morte del padre, infatti, Luigi venne rapidamente armato cavaliere (l'"adoubement" delle fonti) e consacrato re a Reims nella tradizionale celebrazione che prevedeva l'unzione con l'ampolla di olio santo, appena in tempo per affrontare la rivolta dell'aristocrazia ostile alla reggenza della straniera (Bianca era spagnola) regina-madre.
Bianca di Castiglia, infatti, dovette fare i conti con la feudalità più riottosa, sempre pronta a muoversi con profitto tra i re di Francia e d'Inghilterra, protagonisti da tempo di un difficile conflitto politico, militare e dinastico: tra i nobili, per potere territoriale e prestigio, si distinguevano i conti di Fiandra, di Bretagna e della Marche, i quali non sempre avevano garantito fedeltà a Parigi.
Inoltre, il re d'Inghilterra, le cui origini si collocavano nella regione francese dell'Anjou, conservava estesi possedimenti nel Sud-Ovest del paese, per i quali doveva omaggio feudale proprio al giovane re. Dopo una serie di accordi e di transazioni, Luigi sfuggì per poco ad un rapimento organizzato e guidato dal conte di Bretagna (1227): furono gli stessi abitanti di Parigi a proteggerlo e ad accompagnarlo verso la capitale, sancendo la prima manifestazione popolare di simpatia nei suoi confronti e di solida fedeltà alle istituzioni monarchiche. Gli rimase vicino, invece, il conte di Champagne Tibaldo IV, forse il più influente (e ricco) dei vassalli regi dell'area settentrionale. Gli anni tra il 1227 e il 1230 furono molto difficili e videro Luigi impegnato in varie campagne militari, che si conclusero con successo.
Nel 1229 venne firmato l'accordo di Meaux con Raimondo VII di Tolosa, il più pericoloso dei baroni meridionali; contestualmente all'accordo, venne stabilito il matrimonio tra una delle figlie del conte e il fratello minore di Luigi, Alfonso di Poitiers: questa eredità avrebbe garantito alla corona un accesso diretto al Mediterraneo, sulle cui rive sarebbe sorto l'approdo di Aigues-Mortes, dal quale Luigi IX sarebbe salpato per l'Oriente.
L'unione, inoltre, affermò gli interessi della Francia capetingia nel mezzogiorno del paese, a pochi anni di distanza dalla fine della crociata contro gli Albigesi, che tra molte sofferenze e feroci rappresaglie aveva determinato la fine dell'originalità religiosa del Midi. Nel 1230, all'assemblea feudale di Melun, quasi tutta la feudalità del Regno si radunò al cospetto del giovane sovrano, in segno di evidente omaggio e oggettiva subordinazione. Nel 1234 Luigi sposò Margherita di Provenza, figlia del conte Raimondo Beringhieri V, dal 1209 conte della Provenza e personaggio di spicco del tempo. Margherita proveniva da una stirpe di consolidata importanza anche per la storia letteraria e in genere culturale dell'intero mondo francese medioevale, vista la buona accoglienza che l'aristocrazia provenzale aveva riservato per quasi due secoli ad artisti e poeti.
Negli anni compresi tra la giovinezza e la partenza per la Crociata, il re affrontò anche questioni legate alla sfera ecclesiastica, come lo "sciopero" degli studenti all'università di Parigi, provocato

dagli scontri che avevano coinvolto i "clerici", che frequentavano le aule dei conventi situati sulla riva sinistra della Senna, e gli abitanti della città, per poi provocare una secessione che avrebbe portato alla fondazione dell'università di Orléans.
Del resto, gli stessi pontefici romani vedevano con diffidenza sia l'insegnamento del diritto accanto alla teologia (a Parigi gli studi giuridici erano stati interdetti già nel 1219), sia la turbolenza degli studenti iscritti alla facoltà delle Arti, nelle quali si stava affermando un pensiero filosofico più libero.
Luigi riuscì a calmare gli animi, punendo i malfattori e confermando i privilegi ecclesiastici, fino a stabilire un prezzo calmierato per gli alloggi in città. Nei confronti delle autorità religiose, il re avrebbe mantenuto una condotta ferma e precisa, che non escludeva rispetto e devozione per la Chiesa, ma gli permise di frenare l'intervento dei vescovi in campo temporale, soprattutto in materia di giurisdizione; clamoroso fu il caso della disputa con il vescovo di Beauvais, che coinvolse un ampio numero di cittadini eminenti, praticamente deportati a Parigi, e si concluse solo dopo qualche anno, con la successione nella cattedra della città di un prelato più conciliante (1232-1240).
La profonda religiosità del sovrano si espresse nella ricerca instancabile di preziose reliquie, che affluivano nel tesoro regio e personale, costituendo motivo di venerazione popolare e di prestigio per la dinastia. Significativa fu la vicenda della corona di spine del Cristo, la cui acquisizione sfiorò il romanzesco: custodita a Bisanzio, in quel momento capitale di un regno latino circondato dai nemici greci e islamici, la corona venne offerta dal giovane sovrano Baldovino II (cugino di Luigi) in cambio di aiuti materiali; nel frattempo, però, i dignitari di Bisanzio l'avevano concessa in pegno ai mercanti veneziani a fronte di un ingente prestito. Per riscattarla, Luigi aveva impegnato somme davvero notevoli, e organizzò un trasferimento in Francia attraverso l'Adriatico e Venezia, dove la corona avrebbe sostato per qualche tempo, tra fastose celebrazioni popolari, finché, lasciata andare a malincuore dai veneziani, giunse nella capitale francese (agosto 1239). Per ospitarla degnamente, Luigi fece erigere nell'Île de la Cité uno dei gioielli dell'arte gotica settentrionale, la Sainte-Chapelle.
Assunto direttamente il governo, Luigi condusse una politica di organizzazione e di forte moralizzazione del nascente stato francese e delle sue istituzioni, proseguendo sulla scia dell'attività del nonno Filippo Augusto (1165-1223, re dal 1180): in particolare, Luigi IX promosse un'inchiesta sulle condizioni del governo nei suoi dominii diretti (1247-48), che fece condurre da coppie di frati domenicani e francescani: l'inchiesta, che descrisse una situazione preoccupante dovuta agli abusi perpetrati dagli agenti regi sulla popolazione urbana e soprattutto rurale, costituì non solo la premessa di rigenerazione morale e penitenziale alla vigilia della partenza per la Terrasanta, ma soprattutto la base per la riorganizzazione della struttura amministrativa del regno, opera che si sviluppò a partire dal ritorno di Luigi in Francia (1254).
Grazie al suo intervento, si definì meglio il ruolo del Parlamento come organo giurisdizionale e del Consiglio Regio come strumento di governo; migliorarono in pochi anni anche le istituzioni di controllo contabile e vennero giudicate inique le pratiche di giudizio non fondate sulla discussione delle prove (rimane celebre l'immagine del sovrano intento ad ascoltare le istanze del popolo parigino sotto la quercia del bosco di Vincennes, alle porte della capitale, dove i Capetingi possedevano una residenza). Dal 1256 in poi, con una serie di ordinanze, e con un singolare movimento dalla periferia al centro del Regno, Luigi IX stabilì funzionari residenziali per ogni circoscrizione territoriale (i balivi) e in ogni capoluogo di una certa importanza (i prevosti), inquadrati gerarchicamente e direttamente rispondenti al controllo regio.
Infine, dopo essere intervenuto contro gli usurai e il gioco d'azzardo (ma anche contro le comunità ebraiche, molto attive nella speculazione finanziaria, che a più riprese soffrirono pubbliche persecuzioni), mise mano alla riforma della città di Parigi, che in quegli anni aveva visto aumentare la propria popolazione fino a più di centomila abitanti.
L'amministrazione della capitale era stata fino a quel momento aggiudicata agli appaltatori che garantivano il maggiore gettito possibile dall'esazione fiscale, mentre la regolazione del commercio era affidata in primo luogo alle associazioni dei mercanti-importatori ("nautae parisienses"): il re affidò dal 1261 il ruolo di prevosto della città, con ampi poteri di polizia giudiziaria e commerciale, ad un funzionario di sua fiducia, Etienne Boileau, figura davvero mitica nella storia parigina; secondo il racconto di Jean de Joinville (Vie de Saint Louis, 1297), il prevosto agì energicamente, arrestando molti malfattori ed imbroglioni, organizzando la guardia della città e assicurando il buon andamento delle attività produttive e commerciali. Infine, tra il 1268 e il 1269, Boileau fece redigere una monumentale raccolta di leggi e consuetudini corporative, oggi nota come Livre des Mètiers, fonte preziosissima per la conoscenza del mondo del lavoro artigianale del pieno Medioevo, oltre che lista fiscale e documento di ricognizione dei poteri cittadini.
Questa ventennale attività di riforma e di organizzazione della vita sociale ed economica pubblica male si accorda con l'immagine oleografica del re santo e contemplativo, esclusivamente dedito alle pratiche penitenziali, che pure la pubblicistica ecclesiastica volle accreditare in funzione della sua canonizzazione (concessa da papa Bonifacio VIII nel 1297). In effetti, Luigi IX, al di là del suo profilo di sovrano medievale - dunque pienamente inserito nella rete di relazioni e di vincoli propri del tempo (e che lo avrebbero visto morire da crociato, lontano dal suolo francese) - si deve considerare uno dei padri dello Stato francese e capo politico di notevole intelligenza di governo, oltre che di alto profilo morale.
Anche la politica estera del suo regno fu attenta alle ragioni dell'equilibrio e della pace: nonostante l'iniziale successo (battaglie di Saintes e di Taillebourg, 1242), preferì giungere ad un accordo con la monarchia inglese per il possesso delle regioni sud-occidentali della Francia.
Con il trattato di Parigi del 1259 si giunse ad una pace duratura: l'Aquitania restò in mano inglese (divenendo la base operativa per gli scontri successivi), mentre la dinastia capetingia ottenne il controllo definitivo della Normandia, occupata anni prima da Filippo Augusto. Anche nella lotta tra Innocenzo III e Federico II, Luigi IX preferì non assumere una posizione definita: questo atteggiamento può apparire contraddittorio per un sovrano che doveva apparire quasi un pupillo della Chiesa; non lo è se si pensa all'intransigenza con cui Luigi IX difese, come si è accennato, l'autonomia del regno dalle politiche della Chiesa di Roma, e se si comprende la sua capacità di contemperare una fede sincera, un ossequio ineccepibile agli esponenti degli Ordini (che talvolta lo stesso popolo parigino gli avrebbe rimproverato), e una notevole forza di decisione nelle scelte politiche.
La sua equità gli valse stima e pubblico riconoscimento anche fuori dalla Francia: fu infatti chiamato a risolvere con un arbitrato le controversie territoriali tra le dinastie comitali fiamminghe dei d'Avesne e dei Dampierre, e in Inghilterra la disputa tra Enrico III e i baroni in rivolta.
Suo fratello fu il celebre Carlo d'Angiò, il quale esercitò pressioni non indifferenti sulla monarchia per inserirsi nella successione imperiale e per appropriarsi del regno di Federico II; Luigi continuò a non interferire nelle questioni dell'Impero, tanto per affermare la propria solidità di re legittimato dalla continuità dinastica, quanto per tenere lontano il Regno francese da questioni non essenziali alla sua dimensione politica e territoriale.
In seguito, fu papa Clemente IV, di origine francese, a chiedere direttamente l'intervento dello stesso Carlo, investendolo della corona di Sicilia, che l'Angiò conquistò con la battaglia di Benevento (1266).
Luigi IX guidò due crociate (partite entrambe da Aigues-Mortes): la VII 1248-1254 contro l'Egitto ayyubide, dove, durante la quale, dopo la conquista di Damietta, nel 1249, perse il fratello Roberto d'Artois alla battaglia di al-Mansura, e, nella primavera del 1250, fu fatto prigioniero, per poi essere rilasciato dietro il pagamento di un riscatto; tuttavia, rimase diversi anni in Terrasanta per collaborare con le autorità latine del luogo e per rinforzare le difese del residuo territorio crociato, il cui destino era peraltro segnato (nel 1291 sarebbe caduta San Giovanni d'Acri, e con essa ogni speranza di uno stabile insediamento cristiano in Oltremare). Tragico fu l'esito della VIII nel 1270, condotta contro l'emirato di Tunisi (forse per volere di Carlo d'Angiò, che fu l'unico a trarne vantaggio, o forse per un errore di prospettiva geo-politica): Luigi morì in quei giorni, non di peste, come comunemente si crede, ma di dissenteria dovuta alla mancanza di acqua potabile. In ogni caso, furono entrambe crociate fallimentari, ma soprattutto nella seconda gli interessi delle repubbliche marinare e degli altri poteri insistenti sul Mediterraneo sembrarono prevalere sulla difesa della cristianità, mentre rifulgeva la figura del Re-penitente, oramai proiettato alla gloria degli altari; per questo, Luigi è sovente considerato l'unico sovrano che, al di là di ogni racconto agiografico, abbia perseguito un'interpretazione genuinamente religiosa delle spedizioni militari in Terrasanta. La Crociata, che già alla metà del XIII secolo appariva una questione superata, rappresentò per Luigi IX una forma di devozione religiosa e di compimento del mestiere di re.
Alla sua morte, il corpo, secondo l'uso del tempo, venne bollito e disossato: il cuore risalì la penisola italiana e giunse a Parigi, dopo un lungo viaggio di ritorno contrassegnato dall'enorme favore popolare e dal succedersi dei miracoli, a testimonianza della riconosciuta santità del re, accertata non dalle commissioni pontificie o dai calcoli politici, ma dal sentimento e dall'immaginario collettivi.

Anno del Signore 1271
Marco Polo (Venezia, 15 settembre 1254 – Venezia,29 gennaio 1324) insieme al padre Nicolò e allo zio Matteo, inizia il suo viaggio in Oriente, che lo porterà fino alla corte di Kubilai Khan. Il padre Niccolò e lo zio Matteo (Maffio) erano ricchi mercanti che commerciavano con l'Oriente. I due attraversarono l' Asia nel 1255 e raggiunsero la Cina nel 1262, passando per Bukhara e il Turkestan cinese, arrivando a Khanbaliq (la residenza del khan, il nome mongolo dell'odierna Pechino). Ripartirono nel 1266 arrivando a Roma nel 1269 come ambasciatori di Kubilai Khan, con una lettera da consegnare al Papa con la richiesta di mandare persone istruite per raccogliere informazioni sul modo di vivere mongolo.
Niccolò e Matteo intrapresero il loro secondo viaggio nel 1271, con la risposta di Papa Gregorio X da consegnare a Kubilai Khan. Questa volta Niccolò portò con sé il figlio diciassettenne Marco, che, una volta arrivato in Catai, ottenne subito i favori di Kubilai Khan, cosi' tanto che divenne suo consigliere e successivamente suo ambasciatore. Nei 18 anni di servizio al khan, Marco Polo visitò le vaste regioni cinesi ed ebbe l'opportunità di vedere i numerosi traguardi di civiltà raggiunti in quell'epoca dalla Cina, traguardi non comparabili a quelli dall'Europa nello stesso periodo. Al suo ritorno dalla Cina nel 1295, la famiglia Polo si sistemò nuovamente a Venezia, dove attiravano folle di persone con i loro racconti incredibili, tanto che qualcuno ebbe difficoltà a credere che fossero stati davvero nella lontana Cina.
L'animo avventuriero di Marco Polo lo portò fino a partecipare nel 1298 alla Battaglia di Curzola (Kor?ula in croato) combattuta dalla Repubblica di Genova contro la Repubblica di Venezia, ma venne catturato e tenuto prigioniero per alcuni mesi. In questo periodo dettò in lingua d'oïl a Rustichello da Pisa (anch'egli prigioniero dei genovesi) Le deuisament du monde, un racconto dei suoi viaggi nell'allora sconosciuto Estremo Oriente, poi conosciuto anche come Il Milione.
In seguito il libro fu rimaneggiato da autori francesi, i quali apportarono delle correzioni personali e modifiche linguistiche sia durante sia dopo il periodo del Rinascimento, aggiungendo icone e qualche pittura miniaturizzata che se da una parte servivano ad abbellire l'opera rendendola più gradevole, dall'altra lo impoverivano sul piano della scoperta facendolo passare per uno scritto denso di fantasticherie e relativo a un mondo inesistente o immaginario. Solo durante il periodo dell'Illuminismo si tenderà a rivalutare il testo più antico e fedele al vero Milione e a dargli il posto che merita nella storia delle esplorazioni.
Dal primo capitolo del Milione:
"Signori imperadori, re e duci e tutte altre genti che volete sapere le diverse generazioni delle genti e le diversità delle regioni del mondo, leggete questo libro dove le troverrete tutte le grandissime maraviglie e gran diversitadi delle genti d'Erminia, di Persia e di Tarteria, d'India e di molte altre province. E questo vi conterà il libro ordinatamente siccome messere Marco Polo, savio e nobile cittadino di Vinegia, le conta in questo libro e egli medesimo le vide. Ma ancora v'à di quelle cose le quali elli non vide, ma udille da persone degne di fede, e però le cose vedute dirà di veduta e l'altre per udita, acciò che 'l nostro libro sia veritieri e sanza niuna menzogna.
Ma io voglio che voi sappiate che poi che Iddio fece Adam nostro primo padre insino al dí d'oggi, né cristiano né pagano, saracino o tartero, né niuno uomo di niuna generazione non vide né cercò tante maravigliose cose del mondo come fece messer Marco Polo. E però disse infra se medesimo che troppo sarebbe grande male s'egli non mettesse in iscritto tutte le maraviglie ch'egli à vedute, perché chi non le sa l'appari per questo libro.
E sí vi dico ched egli dimorò in que' paesi bene trentasei anni; lo quale poi, stando nella prigione di Genova, fece mettere in iscritto tutte queste cose a messere Rustico da Pisa, lo quale era preso in quelle medesime carcere ne gli anni di Cristo 1289."

Anno del Signore 1272
Tancredi da Pentima progetta la "Fontana della Rivera",detta anche "delle 99 Cannelle", capolavoro di ingegneria idraulica e simbolo della città dell'Aquila.
Originariamente svolgeva la funzione di lavatoio pubblico. Si trova alla base di una parete in pietra decorata a quadri bianchi e rosa e circonda su tre lati una zona erbosa. La fontana è composta da due vasche e da 99 maschere di pietra tutte diverse, ognuna con una cannella da cui fuoriesce l'acqua. Secondo la tradizione, questi 99 mascheroni rappresentano i signori, appartenenti ai 99 castelli adunati da Federico II, che fondarono la città. Rimane il mistero su quale sia la fonte principale della fontana, anche se molti esperti pensano che si possa trattare di una sorgente nell'area della chiesa di Santa Chiara d'Aquili.
Secondo la leggenda, lo stesso Tancredi fu giustiziato perchè rifiutò di rivelare l'origine dell'acqua che alimenta le cannelle, origine che è a tutt'oggi ancora sconosciuta e fu sepolto sotto una lastra di pietra più grande delle altre, al centro del cortile.

Anno del Signore 1273
In Germania viene eletto Rodolfo d'Asburgo (1º maggio 1218 – Spira, 15 luglio 1291) con il titolo di Rex Romanorum, ponendo fine al periodo detto del "Grande interregno". Per interregno si intende, nella storiografia del Sacro Romano Impero, il periodo che va dalla deposizione di Federico II da parte di papa Innocenzo IV, nel 1245 all'elezione di Rodolfo I nel 1273.
Durante questo periodo vennero eletti Re dei Romani Enrico Raspe, Guglielmo d'Olanda, Alfonso X di Castiglia e Riccardo di Cornovaglia. Nessuno di loro però riuscì ad esercitare concretamente il potere imperiale.
Il concetto di interregno, che Friedrich Schiller definì ne "il conte d'Asburgo" i tempi senza imperatore, gli orribili tempi, nasce da una visione storiografica tedesca del secolo XIX che esaltava l'epoca degli Hohenstaufen, e vedeva il periodo successivo come un periodo di guerre e disordini nell'impero. La visione storiografica moderna tende piuttosto a considerare questo periodo in maniera molto sfaccettata, tenendo conto del contesto e delle opzioni delle parti in causa, e respinge l'immagine dei "principi egoisti", indifferenti al bene dell'impero, e di un periodo caotico e senza legge.
L'inizio dell'interregno è datato, dalla deposizione di Federico II da parte di papa Innocenzo IV, il 17 luglio 1245, o, in alternativa, dalla morte di Federico II, il 13 dicembre 1250. A prescindere da quale data si scelga, per la situazione politica nell'Impero durante l'interregno era di grande importanza valutare se la deposizione di Federico II da parte del papa fosse legittima. E a questo riguardo non vi era unanimità già tra i contemporanei.
La lotta tra Federico II e Innocenzo IV verteva, ideologicamente, sul problema di chi fosse a capo della cristianità, ma era provocata da concreti motivi di politica di potenza: Federico II era Imperatore tedesco e, contemporaneamente, Re di Sicilia. Lo Stato della Chiesa si poneva di fatto in mezzo a questi due domini. Le tensioni causate da questa situazioni culminarono in una doppia scomunica dell'Imperatore da parte del papa Gregorio IX (1239). Gregorio IX progettava per il 1240 un sinodo a Roma, il cui svolgimento venne impedito da Federico, che assediò Roma e assalì le navi che trasportavano i partecipanti al sinodo, imprigionando centinaia di prelati. Gregorio morì poco dopo, il 21 agosto 1241.
Il 10 settembre dello stesso anno i più importanti principi ecclesiastici dell'Impero, l'arcivescovo di Magonza e quello di Colonia, si allearono contro l'imperatore, iniziando in questo modo la lotta contro il potere degli Hohenstaufen anche in Germania. Il trattato stipulato tra i due arcivescovi mostra molto bene con quale velocità circolassero le notizie a quell'epoca: infatti il trattato conteneva la posizione dei due arcivescovi riguardo al conflitto che "presentemente" opponeva Federico a papa Gregorio. Ma alla data del contratto papa Gregorio era già morto da tre settimane.
Fu solo il 25 giugno 1243 che Sinibaldo Fieschi, giurista ecclesiastico di nobile famiglia genovese, venne eletto papa. Volle chiamarsi Innocenzo IV. Un anno dopo la sua elezione riuscì a fuggire da Roma, che Federico continuava a tener assediata, per raggiungere Genova ed infine Lione. In precedenza aveva tentato, senza successo, di giungere ad un accordo con Federico. Il 3 gennaio 1245 Innocenzo convocò un nuovo concilio a Lione, che ebbe inizio il 28 giugno 1245, con circa 150 partecipanti. Tra loro, nessuno dei principali nemici di Federico nell'Impero. Si suppone che questi fossero al corrente dei piani di deposizione, ma che preferirono rimanere lontani dal concilio, forse per scrupolo, forse temendo le conseguenze di un fallimento.
Nella riunione conclusiva del sinodo Innocenzo proclamò la deposizione di Federico, sulla base di quattro gravi imputazioni: ripetuto spergiuro, rottura della pace tra Chiesa e Impero, arresto di prelati sulla via del concilio, e per comprovata eresia. Il papa proibì a tutti i sudditi di considerarlo Re e Imperatore, invitando i Principi elettori a eleggere un nuovo re. Innocenzo trasse la legittimazione a questo atto dal fatto di essere rappresentante di Cristo in terra.
Il papa aveva cercato di arrogarsi il diritto di deporre l'imperatore con ogni tipo di raffinatezze giuridiche ed ecclesiastiche, ma il suo gesto ebbe nell'Impero reazioni piuttosto contenute. Gli altri sovrani europei non interruppero le loro relazioni con l'Imperatore, ma nemmeno reagirono agli appelli alla solidarietà da parte di Federico.
La situazione era molto complicata anche perché, nel 1237, durante una dieta tenutasi a Vienna, Federico II aveva fatto eleggere Re dei Romani suo figlio, Corrado, il quale però non venne mai formalmente incoronato, e che per questo si fregiava del titolo di "in romanorum regem electus". Il papa, peraltro, non aveva mai riconosciuto questa elezione.
Furono gli ecclesiastici nemici di Federico in Germania a muovere i primi passi: il 22 maggio 1246 gli arcivescovi di Colonia e Magonza, assieme ad altri vescovi, conti e signori, elessero Enrico Raspe Re dei Romani.
Il regno di Heinrich Raspe non fu mai solido. Da un lato il grandissimo debito politico verso la chiesa lo rese ben presto noto come "pfaffenkönig" - rex clericorum (evidente ironia sul suo titolo ufficiale di Rex romanorum). Inoltre Corrado si riufitò di rinunciare al proprio titolo. Raspe, anche in considerazione della crescente opposizione che incontrava in Germania, si vide costretto a muovere guerra all'Hohenstaufen. Nell'inverno del 1247 assediò Ulma e Reutlingen. Ferito nei pressi di Reutlingen, abbandonò all'improvviso i suoi piani bellici, ritirandosi nel suo castello in Turingia, nei pressi di Eisenach, dove morì il 16 febbraio 1247.
Alla morte di Enrico Raspe il partito filo-papale elesse Re dei Romani Guglielmo d'Olanda, perché nessun altro principe dell'Impero era disposto a proseguire la lotta alla casa degli Hohenstaufen (Svevi). Venne incoronato dall'arcivescovo di Colonia ad Aquisgrana, il 1 novembre 1248. La sua incoronazione non sortì però grandi effetti, perché la maggior parte dei principi si pronunciò a favore di Federico II, mentre gli altri non erano disposti a riconoscerlo solo in cambio di lauti compensi. Fece così ritorno in Olanda. Fu solamente nel 1250, alla morte di Federico II, e con suo figlio Corrado IV costretto ad affrettarsi in Italia, che Guglielmo cominciò ad avere un seguito in Germania, grazie a dimostrazioni di benevolenza e a cessione di feudi, e solamente alla morte di Corrado IV nel 1254, la corona di Guglielmo venne riconosciuta senza opposizioni significative.
Subito dopo condusse una campagna vittoriosa contro Margherita di Fiandra, e nel 1256 si apprestò a sottomettere i Frisoni che si erano ribellati. Durante la campagna, nei pressi di Hoogwood, in Olanda, attraversando uno specchio d'acqua ghiacciato, il suo cavallo spezzò la crosta di ghiaccio, ed egli cadde nell'acqua gelata. Fu così catturato dai Frisoni, che lo uccisero.
Alla morte di Guglielmo, i sette principi elettori non riuscirono a trovare un accordo sul nome del nuovo Re dei Romani. Tre di loro (Treviri, Sassonia e Brandeburgo) indicarono Alfonso X di Castiglia, nipote di Filippo di Svevia, mentre Colonia, Magonza e Palatinato scelsero Riccardo di Cornovaglia, cognato di Federico II. Il settimo elettore, Ottocaro II diede il proprio voto ad ambedue, facendosi prima pagare da entrambi.
Nessuno dei due riuscì a trasformare la propria elezione in un potere concreto, per quanto Riccardo fosse stato incoronato Re dei Romani (17 maggio 1257), e si fosse recato di quando in quando in Germania, per far valere il proprio titolo (l'ultima volta nel 1269). Alfonso invece non dimostrò mai grande interesse alla corona imperiale, se non per quanto concerneva i suoi interessi in Italia, e non mise mai piede in Germania. Riccardo morì nel 1272, e, qualche mese più tardi, Alfonso rinunciò a qualsiasi pretesa sul trono dell'Impero. La rinuncia al titolo imperiale da parte di Alfonso X spinse il papa Gregorio X a prendere l'iniziativa per por fine al vuoto di potere creatosi nell'impero. Il papa richiese un elezione in tempi brevi, e affidò la scelta ai principi elettori. Il re di Boemia, Ottocaro, rientrava nella rosa dei candidati, e era, in quanto principe elettore, necessario per la valida elezione del re, ma venne escluso dal processo elettivo, in parte per suoi errori diplomatici, in parte per le manovre degli altri principi, Gli altri sei principi elettori giunsero ad un accordo sulla data dell'elezione, che avrebbe dovuto tenersi il 29 settembre 1273, e restrinsero i candidati a due: Rodolfo d'Asburgo e Sigfrido di Anhalt. Nel frattempo, oltre a Ottocaro di Boemia, anche il re di Francia e il langravio di Turingia manifestavano l'ambizione ad essere eletti imperatori.
Più si avvicinava il giorno dell'elezione, più il consenso si cristallizzava attorno al nome di Rodolfo. I motivi erano molteplici: da un lato Rodolfo era uno dei principi più ricchi e rispettati della Germania meridionale, e dall'altro i principi elettori erano interessati ad un candidato attivo e abile in guerra, ma non esageratamente potente. E così, il primo ottobre 1273, nella città di Francoforte, Rodolfo venne eletto Re dei Romani. Lungo la strada per Aquisgrana ricevette le insegne imperiali, e il 24 ottobre venne incoronato.
Rodolfo d'Asburgo dovette impegnarsi davanti ai principi elettori a restituire i beni imperiali alienati durante il periodo degli Staufer, e a por fine alle numerose faide in corso.
Eletto imperatore, Rodolfo non si limitò a rinnovare il "Reichslandfrieden" del 1235 (ispirandosi all'esempio degli Hohenstaufen), ma contrattò dei "Landfrieden" locali con i singoli grandi feudatari nell'ovest e nel sud della Germania, come fece per esempio con il Landfrieden austriaco del 1276 e con quello bavarese, renano e franco del 1281. Cercò di affermare l'ordine anche in regioni più periferiche dell'impero: nel 1289/90, in Turingia, fece abbattere 66 castelli che ospitavano cavalieri che si erano dati al brigantaggio. Nel marzo 1287 Rodolfo ritenne i tempi maturi per proclamare un Landfrieden generale.
Il 9 agosto 1281 decretò che tutte le donazioni o cessioni di beni e diritti imperiali avvenute dopo la fine del regno di Federico II dovevano essere considerate nulle, a meno che non venissero ratificate dalla maggioranza dei principi elettori. Inoltre nominò appositi funzionari, incaricati individuare i beni imperiali passati in possesso a qualcun altro, e ad agire in veste di rappresentanti dell'imperatore. Rodolfo infine riorganizzò in maniera radicale l'intera amministrazione del patrimonio imperiale, rendendola finalmente efficiente, una misura che le altre monarchie europee (come Francia e Inghilterra) avevano preso da molto tempo.
Questa politica ebbe successo soprattutto nei territori vicini alla base del potere di Rodolfo, ovvero nella Germania Sud-occidentale, mentre nelle zone più distanti, come il settentrione, sebbene cercasse, con l'aiuto di alleati, di recuperare i beni imperiali e a garantire i diritti delle città, non ottenne risultati di rilievo.
Per trent'anni il Sacro Romano Impero era rimasto privo di un forte potere centrale. Questo non fece che accentuare le spinte centrifughe già presenti nell'Impero. In questi anni si rafforzò il ruolo dei principi elettori, ponendo le premesse del processo che sarebbe sfociato, nel 1356, nella Bolla d'oro. I principi territoriali consolidarono la loro sovranità, ed anche le città rafforzarono la loro indipendenza rispetto al potere feudale ed imperiale. All'indomani dell'interregno gli imperatori furono costretti, per assicurarsi libertà d'azione rispetto alle molteplici istanze e poteri dell'Impero, a contare in misura sempre maggiore sui propri territori dinastici. Di conseguenza divenne sempre più difficile che l'imperatore medesimo fosse considerato super partes e sintesi politica dell'Impero nel suo complesso.

Anno del Signore 1274
A Lione, si tiene il quattordicesimo concilio ecumenico della Chiesa cattolica, il secondo della città francese.
Il secondo concilio di Lione è caratterizzato soprattutto dal tentativo di ristabilire l’unità religiosa con la Chiesa ortodossa d’Oriente, unità peraltro ricercata con vani tentativi lungo tutto il XIII secolo. Nel 1261 l’imperatore bizantino Michele VIII Paleologo riconquistava la città di Costantinopoli, e ristabilì contatti con il papato per motivi politici: rafforzare la sua posizione per evitare la reazione dei latini e la minaccia di una invasione angioina. Così, nella politica dell’imperatore bizantino, l’unità religiosa diventava strumento per raggiungere la pace con l’Occidente cristiano. Tuttavia, benché segnata fortemente da motivazioni politiche, si cercò comunque una certa unità sul piano teologico-ecclesiale attraverso legazioni, scambi di lettere, discussioni, vari memoriali.
Il 4 marzo 1267 papa Clemente IV, in risposta alle richieste di unione e di pace da parte di Michele VIII, gli invia una lunga lettera assieme ad una professione di fede, che l’imperatore bizantino e tutta la Chiesa d’Oriente doveva sottoscrivere. Questa professione di fede prevedeva: l’accettazione del Filioque e del primato giurisdizionale del papa di Roma sulla Chiesa orientale; la comunione eucaristica con pane azzimo; i patriarchi orientali concepiti come delegati del papa di Roma. Ma la morte improvvisa di Clemente IV nel 1268 e un lungo periodo di vacanza della sede romana (1268-1271) sembravano aver interrotto le trattative.
Solo nel 1272 il nuovo pontefice Gregorio X inviò una nuova legazione a Costantinopoli, composta da quattro francescani, manifestando la sua volontà di convocare un concilio per l’aiuto alla Terra Santa, per la riforma dei costumi e per raggiungere l’unità; a questo scopo Michele VIII doveva accettare la professione di fede, a suo tempo inviatagli da Clemente IV, con un solenne giuramento. Solo in seguito il papa avrebbe convocato il concilio in cui non si doveva né discutere né formulare alcuna professione di fede, ma semplicemente rafforzare l’unità già fatta con una conferma pubblica. Nello stesso tempo Gregorio X scrisse anche al patriarca di Costantinopoli Giuseppe I e ad altri prelati greci per spronarli all’unione e a sostenere il loro imperatore. In questo contesto appare chiaro cosa vuol dire per i latini l’unione: accettare senza mezzi termini la fede prescritta da Roma, dimenticando tutta la tradizione ecclesiale, dottrinale e patristica orientale.
Ovviamente in questi termini l’unione non poteva essere accettata dalle autorità ecclesiastiche, dai monaci e dal popolo greco, già mal disposti verso l’Occidente e la sua teologia. L’errore dell’imperatore Michele VIII fu di volerla imporre con la forza, con la violenza e le persecuzioni, cosa che portò ad una radicalizzazione delle posizioni e ad una forte opposizione antiunionista. Tuttavia l’imperatore riuscì a convincere un folto gruppo di metropoliti e vescovi greci ad accettare la professione di fede di Clemente IV, con il chiarimento che essa non significava da parte greca alcun cambiamento ecclesiologico o nella vita ecclesiale concreta, né alcuna modifica o aggiunta al testo greco del Credo. Nel febbraio 1274, nel palazzo imperiale di Costantinopoli, l’imperatore e metropoliti e vescovi giurarono e proclamarono la professione di fede di Clemente IV.
A questo punto il papa Gregorio X convocò il concilio a Lione, al quale doveva presentarsi la delegazione greca.
Gregorio X inaugurò i lavori conciliari il 7 maggio 1274 proclamando nella stessa seduta i tre scopi della convocazione, già annunciati due anni prima all’imperatore bizantino: l’aiuto alla Terra Santa, l’unione con i greci, la riforma dei costumi.
Nella seconda sessione, il 18 maggio, apparve chiaro il carattere papale del concilio, senza discussioni o interventi in aula, il pontefice presentò un testo già preparato in precedenza, la costituzione Zelus Fidei, con la richiesta di decime in favore della Terra Santa. La Ordinatio Concilii generalis Lugdunensis, che è la fonte più autorevole per ricostruire i lavori conciliari (scoperta e pubblicata al tempo del Concilio Vaticano II), afferma che la Zelus Fidei fu semplicemente letta, senza interventi o approvazioni da parte dei padri conciliari. In essa vengono fissate le somme che ogni nazione devono versare per aiutare la Terra Santa; si ricorda che le vittorie degli infedeli rappresentano uno scandalo per i cristiani; si stabiliscono le norme per evitare problemi alla spedizione militare (norme contro la pirateria, la mancanza di pace fra i re cristiani, contro i perturbatori, ecc.).
Il 4 giugno si svolse la terza sessione del concilio, durante la quale furono presentate e lette 12 costituzioni di riforma, rivolte soprattutto a clero e laici. Il 24 giugno arrivò a Lione la delegazione greca, accolta con solennità e fastosità, composta di due vescovi e del segretario dell’imperatore. Nella solenne messa papale del 29 giugno il simbolo di fede fu cantato nelle due lingue, latina e greca, e si cantò per tre volte il Filioque. Il 4 luglio giunse a Lione anche una delegazione dei Tartari, ed uno dei suoi membri il 16 luglio ricevette solennemente il battesimo.
Il 6 luglio si svolse la quarta sessione del concilio, dedicata all’unione con i greci. Gregorio X, dove aver riassunto tutti i negoziati precedenti, affermava che i greci « venivano liberamente all’obbedienza della Romana ecclesia ». I delegati greci ripeterono l’atto di obbedienza e professione di fede, già formulato dall’imperatore a Costantinopoli nel mese di febbraio precedente. Seguì il canto solenne del simbolo niceno-costantinopolitano con l’aggiunta del Filioque (cantato due volte).
Durante la quinta sessione, il 16 luglio, l’assemblea conciliare approvò la costituzione Ubi Periculum che fissava nuove norme relative al conclave, ed altri decreti di riforma. Il giorno successivo si chiudeva il concilio.
L’atto di unione, formulato a Costantinopoli nel febbraio del 1274 e ripetuto a Lione il 6 luglio, non poteva avere vita lunga. Secoli dopo, Paolo VI, in una lettera del 19 ottobre 1974, ricorderà che l’unione fu siglata « senza dare alla chiesa greca la facoltà di esprimere liberamente il proprio parere in questa materia. I latini infatti scelsero il testo e le formule che riproducevano la dottrina ecclesiologica elaborata e composta in occidente ». L’atto di unione durò finché vissero i suoi protagonisti: l’imperatore Michele VIII cercò di imporre con la forza delle persecuzioni una fede in cui nessun suo suddito credeva e accettava; accusato da Roma di non saper imporre l’unione, venne scomunicato per eresia e scisma. Dopo la sua morte (1282), il figlio e successore Andronico, antiunionista, sconfessò subito la professione di fede del padre e ogni contatto con l’occidente; e l’atto di Lione, che doveva ricostruire l’unità, finì invece per approfondire il solco, politico e religioso, tra oriente ed occidente cristiano.
Il primo canone del Concilio recita così:
"Lo zelo della fede, il fervore religioso e un sentimento di compassione devono eccitare il cuore dei fedeli, perché tutti quelli che si gloriano del nome cristiano, toccati fin nelle più riposte fibre del loro cuore dall'offesa fatta al loro Redentore, con moto aperto e potente sorgano a difesa della Terra Santa e in aiuto della causa di Dio.
E chi mai, illuminato dalla luce della vera fede, e meditando piamente i meravigliosi benefici che il nostro Salvatore ha elargito al genere umano nella Terra Santa, non si sentirebbe riscaldare da un sentimento di devozione e non arderebbe d'amore, e non proverebbe nell'intimità del cuore e con tutto l'ardore della sua mente compassione per quella Terra Santa, parte dell'eredità del Signore? Quale cuore non sarebbe indotto alla compassione per essa dalle prove d'amore date dal nostro creatore in quella terra? E invece, purtroppo quella stessa terra, nella quale il Signore si è degnato operare la nostra salvezza, e che ha reso sacra col proprio sangue, per redimere l'uomo con la offerta della sua Morte, assalita audacemente e occupata a lungo da nemici scelleratissimi del nome cristiano e perfidi Saraceni, viene temerariamente tenuta soggetta e senza alcun timore devastata. In essa il popolo cristiano è barbaramente trucidato a maggior disprezzo del Creatore e con ingiuria e dolore di tutti quelli che professano la fede cattolica. Essi, insultando i cristiani, rimproverano loro con molte espressioni ingiuriose: "Dov'è il Dio dei cristiani?".
Questo ed altro, che l'animo non può del tutto concepire né la lingua riferire, hanno acceso il nostro cuore ed eccitato il nostro animo, cosicché noi, noi che nell'oltremare non solo abbiamo udito quanto abbiamo accennato, ma l'abbiamo visto coi nostri occhi e toccato con le nostre mani, insorgessimo, secondo le nostre possibilità, a vendicare l'ingiuria fatta al Crocifisso, con l'aiuto di quelli che lo zelo della fede e della devozione spingerà a questa impresa.
E poiché la liberazione della Terra Santa deve riguardare tutti i cattolici, abbiamo ordinato di convocare questo concilio, affinché, dopo esserci consultati in esso con prelati, re, principi, ed altre persone prudenti, potessimo stabilire e ordinare in Cristo quanto giovasse alla liberazione della Terra Santa, e perché, inoltre, i popoli Greci fossero riportati all'unità della chiesa, - essi che con superba cervice tentarono di dividere in qualche modo la tunica inconsutile del Signore, e si sottrassero alla devozione e all'obbedienza della sede apostolica -; e fossero anche riformati i costumi, che sotto la spinta dei peccati nel clero e nel popolo si sono corrotti. In tutto ciò che abbiamo detto, guiderà i nostri atti e i nostri propositi, colui cui nulla è impossibile; ma che, quando vuole, rende facili anche le cose difficili, e appianando con la sua grazia le vie ineguali rende diritte quelle scabrose.
Ad ogni modo, perché quanto abbiamo esposto potesse tranquillamente esser realizzato, dati anche i pericoli delle guerre e le difficoltà dei viaggi, cui avrebbero potuto andare incontro quelli che abbiamo creduto dover chiamare al concilio, senza alcun riguardo per noi e per i nostri fratelli, ma andando incontro, invece, spontaneamente alle fatiche, pur di preparare ad altri la tranquillità, siamo venuti nella città di Lione, pensando che qui quelli che erano stati convocati per il concilio potessero convenire con minor disagio e minori spese. Siamo venuti con i nostri fratelli cardinali e con la nostra curia, sottoponendoci al peso di pericoli vari, di incomodi diversi, di molti rischi, e qui, radunati tutti quelli che erano stati convocati al concilio o personalmente o per mezzo di rappresentanti adatti, abbiamo frequentemente trattato con loro dell'aiuto da inviare alla Terra Santa; ed essi, zelanti per vendicare l'ingiuria fatta al Salvatore, cercarono le strade migliori per recare soccorso alla Terra Santa, e come dovevano diedero i loro consigli e suggerimenti."
STO: Mentre era in viaggio per recarsi al Concilio di Lione, muore nell'abbazia di Fossanova San Tommaso d'Aquino (Roccasecca, 1225 – Fossanova, 7 marzo 1274) filosofo e teologo italiano della scuola scolastica, definito Doctor Angelicus o Doctor Universalis dai suoi contemporanei. Rappresenta uno dei principali pilastri teologici della Chiesa cattolica, che lo venera come santo, lo considera Dottore della Chiesa e lo festeggia il 28 gennaio. La Chiesa luterana lo ricorda invece l'8 marzo. Egli è anche il punto di raccordo fra la cristianità e la filosofia classica, che ha i suoi fondamenti e maestri in Avicenna, Aristotele, Platone e Socrate, poi passati attraverso il periodo ellenistico della tarda grecità.
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Anno del Signore 1275
Giacomo di Cesole ha pubblicato il "Liber de moribus hominimum vel officiis nobilium". Un ampio trattato di successo immediato, la cui maggiore originalità risiede nell'interpretazione del gioco degli scacchi come immagine della lotta per la vita.
Il ghibellino Guido I da Montefeltro detto anche Il Vecchio (San Leo, 1223 – Assisi, 29 settembre 1298), sconfigge i guelfi di Bologna nella battaglia di San Proclo. Nacque nella prima metà del XIII secolo e per quanto nei primi anni malaticcio, ovvero gracile e debole, diede in giovinezza prove di forza e di resistenza. A ventisei anni si era già fatto capo di numerose schiere di faentini e di forlivesi, che avanzavano minacciosi contro Bologna. I bolognesi, decisi a difendere la propria città, come seppero della minaccia uscirono in campo aperto, ma a Bagnacavallo ebbero per opera di Guido una gravissima sconfitta.
Quando Firenze guelfa cacciò i ghibellini, se ne divise i beni confiscati. Dopo il 1267 i fuoriusciti, eletto per loro capo Selvatico di Dovadola, marciarono contro la parte avversa di cui era capo Guido. Quando i due eserciti si trovarono di fronte uno a l'altro, la paura invase gli assalitori che fuggirono prima di iniziare il combattimento. Con pari fortuna il montefeltrino prese Senigallia. Papa Martino IV, di cui Guido nel frattempo era diventato nemico, gli mandò incontro un esercito comandato da Giovanni di Appia, con il compito di assediare Forlì. Con astuzia diabolica, Guido, fingendo la resa della città, colse alla sprovvista i nemici e li massacrò.
Un altro episodio noto è la battaglia di San Procolo, nel 1275: dopo un tentativo, fallito, della guelfa Bologna di attaccare la ghibellina Forlì, i ghibellini, sotto il comando di Guido da Montefeltro, di Maghinardo Pagani e di Teodorico degli Ordelaffi, attaccarono Bologna: i guelfi furono sconfitti presso il fiume Senio, al ponte di San Procolo. La rotta dei bolognesi fu tale che persero anche il carroccio, portato da Guido in trionfo a Forlì.
Nello stesso anno Guido sconfisse Malatesta da Verucchio a Raversano, cacciando i Malatesta da Cesena. L'anno seguente divenne Capitano del popolo di Forlì. Guido era il capo dei Ghibellini in Romagna.
L'impresa più famosa, però, ricordata anche da Dante, che di Forlì dice: "la terra che fe' già la lunga prova e di Franceschi sanguinoso mucchio" (Inferno XXVI, 43-44), è la vittoria, momentanea, nel 1282, sull'esercito di francesi che il Papa Martino IV aveva inviato contro la città di Forlì, roccaforte dei ghibellini. Nella circostanza, Guido ebbe anche l'aiuto dell'astronomo, allora celeberrimo, Guido Bonatti. La città era stata cinta d'assedio l'anno prima e Guido, grazie alle sue doti di fine stratega, era riuscito a rompere l'assedio ed a riportare una momentanea vittoria.
Ma nel 1283 l'esercito alleato del papa riportò la vittoria definitiva. Guido dovette far atto di sottomissione; quindi fu inviato al confino, prima a Chioggia e poi ad Asti.
Rimase ad Asti inattivo per alcuni anni. Nel 1289, richiamato dai pisani, cercò di portare ordine e disciplina nello stato di cui era affidatario. Papa Martino IV lo scomunicò, cosa che non lo danneggiò affatto, tanto era amato dai suoi seguaci.
Nel 1295, fatta la pace tra fiorentini e pisani, una delle condizioni era l'allontanamento di Guido. Ma questi si accattivò l'animo del nuovo papa Bonifacio VIII e fu investito della signoria di Forlì. Qui, ripensando al suo passato di sanguinario, si sentì preso dai rimorsi, tanto che il 17 novembre 1296 vestì l'abito francescano.
Così Dante su Guido da Montefelro nel XXVII canto dell'Inferno:
"Io era in giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tentò di costa,
dicendo: "Parla tu; questi è latino". 33
E io, ch'avea già pronta la risposta,
sanza indugio a parlare incominciai:
"O anima che se' là giù nascosta, 36
Romagna tua non è, e non fu mai,
sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni;
ma 'n palese nessuna or vi lasciai. 39
Ravenna sta come stata è molt'anni:
l'aguglia da Polenta la si cova,
sì che Cervia ricuopre co' suoi vanni.
La terra che fé già la lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi si ritrova.
E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,
là dove soglion fan d'i denti succhio.

Anno del Signore 1276
E' di questo periodo la più antica carta nautica che ci sia pervenuta, la Carta Pisana dove sono riprodotte con esattezza le coste del Mediterraneo.
La carta è disegnata con sorprendente precisione, seppur disorientata verso est, e rappresenta il bacino mediterraneo compreso il Mar Nero, quest'ultimo povero di toponomastica rispetto al Mediterraneo vero e proprio, dove i toponimi sono fitti e perpendicolari alla costa, alcuni colorati in nero e altri, forse più importanti, in rosso. La costa atlantica oltre Gibilterra è schematica e il sud dell'Inghilterra appena riconoscibile. Nel collo della pergamena è disegnata la scala delle distanze. Il disegno "poggia" su un fitto reticolo di "rombi" che si intersecano a partire da punti d'intersezione regolarmente distribuiti, che formano due circonferenze tangenti, l'una nel bacino occidentale e l'altra in quello orientale.
La totale mancanza di documenti nautici dei secoli precedenti al Duecento ha alimentato un'irrisolta diatriba tra gli studiosi sulla credibilità del fatto che popoli di conquistatori, quali ad esempio i Fenici, i Greci e i Romani, possano verosimilmente non aver avvertito l'esigenza di produrre cartografia nautica. La tesi corrente è che, in aggiunta alle perdite dovute a naufragi e alla deperibilità del materiale scrittorio nell'ambiente inidoneo della nave, quegli antichi navigatori abbiano, sì, costruito carte nel corso della navigazione ma, considerandole strumenti finalizzati al viaggio in atto, non le hanno tuttavia ritenute meritevoli di conservazione.
Come che sia, del periodo intercorso tra il 1200 e il 1400 sono sopravvissute circa 180 carte propriamente nautiche, in larga misura di produzione italiana, e non si hanno elementi per poterne verosimilmente ipotizzare la produzione effettiva, se non la menzione - su inventari, cronache e atti notarili - di carte nautiche in dotazione alle navi.
A Genova la Repubblica retribuiva i cartografi affinché non uscissero dai confini e istruissero allievi nell'arte specifica, ma in effetti una caratteristica del cartografo era la mobilità tipica della gente di mare; quindi Pietro Vesconte - probabile iniziatore di una tradizione d'allora in poi ininterrotta - si spostò da Genova a Venezia, come pure il concittadino Battista Agnese, mentre un'altrettanto florida scuola fioriva ad Ancona, di cui era originario Grazioso Benincasa - che ci ha lasciato ventidue opere certe, prodotte nella seconda metà del Quattrocento - che peraltro lavorò prevalentemente a Venezia; e Messina fu centro prolifico nel Cinque-Seicento, soprattutto per effetto dell'immigrazione di cartografi ebraico-maiorchini.
Muore il poeta Guido Guinizelli (Bologna, 1230 – Monselice, 1276).
Poeta di grande novità rispetto alla precedente Scuola siciliana e a quella toscana: è considerato l'iniziatore e il teorizzatore del Dolce Stil Novo, la corrente letteraria italiana del XIII secolo di cui la sua canzone "Al cor gentil rempaira sempre amore" può essere considerata il manifesto. Nonostante l'identità storica non sia del tutto sicura, Guinizelli occupa un posto di rilievo nella storia della letteratura italiana; la sua produzione lirica fu molto apprezzata dai contemporanei e dallo stesso Dante Alighieri, che lo dichiara padre suo e quindi maestro, nel canto XXVI del Purgatorio.
« quand'io odo nomar sé stesso il padre
mio e de li altri miei miglior che mai
rime d'amor usar dolci e leggiadre; »
(Dante Alighieri, Purgatorio XXVI 97-99.)
Guido Guinizzelli nasce a Bologna nel 1230, se è corretta - come ormai si ritiene - l'identità storica di Guido di Guinizello di Magnano, giurisperito, politico e ghibellino: le informazioni biografiche riguardo al poeta sono quasi inesistenti. Secondo questa identità storica, Guido sarebbe figlio di Guinizzello di Magnano e di un'esponente della famiglia ghibellina dei Ghisilieri, ideologia politica che lo vorrà anche partecipe alla politica cittadina.
Nel 1265, aderì ai cavalieri di Santa Maria, comunemente detti "frati gaudenti". Questa conversione segna la sua vita, e lo induce a lasciare la moglie e i figli per dedicarsi completamente ad una missione religiosa. Si è certi che, sempre nel 1265 o poco tempo dopo, Guido inviò un sonetto a Guittone d'Arezzo, chiamandolo padre. Negli anni a seguire, nel periodo compreso tra il 1266 e il 1270, esercitò la professione di giurisperito. Terminata la carriera di giudice, viene nominato podestà, o magistrato a carico di Castelfranco Emilia. Nel 1274, viene esiliato a Monselice, Padova, insieme alla sua famiglia a causa della sconfitta ghibellina a cui si era legato, in particolar modo alla sconfitta della famiglia Lambertazzi, sopraffatta dalla fazione guelfa dei Geremei. A Monselice si reca anche con la moglie, Bice della Fratta, e suo figlio, Guiduccio Guinizzelli.
La data di morte non è ancora certa: risale però al 14 novembre 1276 un documento notarile che affida alla moglie di Guido la tutela del figlio minorenne. Con tutte le probabilità infatti Guido di Guinizzello morì in quello stesso anno, nel 1276.
Il canzoniere di Guinizzelli si compone di ventiquattro testi, secondo l’edizione di Luigi Di Benedetto, alcuni di paternità incerta: il poeta è attivo tra il 1265 e il 1276, ma non si ha ancora una cronologia completa e affidabile delle sue opere. L'incertezza sulla cronologia delle opere infatti non permette una divisione accurata del percorso poetico dell'autore: con ogni probabilità si può definire una distinzione tra la prima giovinezza del poeta, di stampo guittoniano, e una seconda fase, che anticipa lo stilnovismo. La prima opera di certa datazione è il sonetto A frate Guittone, che ne attesterebbe la sua adesione ai canoni guittoniani: rientrano nel primo periodo i sonetti, in settenari, Gentil donzella, di pregio nomata; Lamentomi di mia disaventura; Sì sono angostioso e pien di doglia; Madonna mia, quel dì ch’Amor consente e i componimenti Pur a pensar mi par gran meraviglia e Fra l’altre pene maggio credo sia.
Al secondo periodo, quello che si può definire come prestilnovista, appartengono le canzoni (in endecasillabi e settenari), i diversi sonetti il cui tema centrale è la lode dell'amata, quelli che anticipano le tematiche svolte in seguito da Guido Cavalcanti e quelli impostati sulla poesia comico-realista.
Con gran disio pensando lungamente
Con gran disio pensando lungamente
Amor che cosa sia,
e d'onde e come prende movimento,
diliberar mi pare infra la mente
per una cotal via,
che per tre cose sente compimento,
ancorch'è fallimento
volendo ragionare
di così grande affare;
ma seusami che eo sì fortemente
sento li suoi tormente, - ond'eo mi dogli
E' par che da verace piacimento
lo fino amor diiscenda
guardando quel ch'al cor torni piacente;
ché poi ch'om guarda cosa di talento,
al cor pensieri abenda,
e cresce eon disio immantenente;
e poi dirittamente
fiorisce e mena frutto;
però mi sento isdutto,
l'amor crescendo fiori e foglie ha messe
e vèn la messe - e 'l frutto non ricoglio.
Di ciò prender dolore deve e pianto
lo core inamorato,
e lamentar di gran disaventura,
però che nulla cosa a l'omo è tanto
gravoso riputato,
che sostenere affanno e gran tortura,
servendo per calura
d'essere meritato;
e poi lo su'pensato
non ha compita la sua disianza,
e per pietanza - trova pur orgoglio.
Orgoglio mi mostrate, donna fina,
ed eo pietanza chero
a vo', cui tutte cose, al meo parvente,
dimorano a piacere. A vo' s'inchina
vostro servente, e spero
ristauro aver da vo', donna valente;
ché avvene spessamente
che 'l bon servire a grato
non é meritato.
Allotta ch 'l servente aspetta bene,
tempo rivene - che merta ogni scoglio.

Anno del Signore 1277
Il 20 gennaio 1277 ha luogo la battaglia di Desio, in cui Ottone Visconti, detto Ottorino (1207 - 8 agosto 1295), Arcivescovo di Milano, sconfigge Napoleone della Torre e diventa Signore di Milano.
Dopo essere stato al servizio dell'allora arcivescovo di Milano Leone da Perego, Ottone, nel settembre 1247 entrò al servizio del cardinale Ottaviano Ubaldini, che seguì per oltre un decennio in varie "ambasciate" in Italia e in Francia. In tale lasso di tempo egli fu inoltre procuratore dell'arcivescovo presso la corte pontificia e divenne canonico di Desio.
Morto l'arcivescovo Leone da Perego, fu il cardinale Ubaldini ad appoggiare il nome di Ottone quale degno successore al trono Arcivescovile in luogo di Raimondo della Torre o del nobile Francesco de Settala. Malgrado l'opposizione di Martino della Torre, capo della Credenza di Sant'Ambrogio, ossia il comune milanese, Ottone fu nominato da papa Urbano IV arcivescovo del capoluogo lombardo il 22 luglio 1262.
Martino della Torre, indignato per l'elezione imposta dal Papa aveva occupato nel mese di agosto l'arcivescovato, fu scomunicato dal legato apostolico Filippo di Pistoia, il quale gettò l'interdetto su Milano per avere rifiutato il nuovo arcivescovo. Si aprì allora una guerra fra Ottone e coloro che si opponevano alla sua carriera ecclesiastica: in primis il potente Manfredi, Napoleone della Torre (che sarebbe divenuto Vicario Imperiale nel 1274) e l'intera famiglia guelfa della Torre, i cui sostenitori furono poi chiamati Torriani.
Il 1° aprile 1263, giorno di Pasqua, Ottone entrò ad Arona, villaggio sulle rive meridionali del Lago Maggiore, con un corteo di nobili scappati da Milano e rifugiatisi nelle diverse città lombarde e prese formalmente possesso della sede ambrosiana. In risposta l’esercito milanese assediò Arona e prese posizione nella fortezza arciepiscopale di Angera situata sull’altra riva del lago in faccia ad Arona a circa 2 km di distanza.
Ottone Visconti reagì, scrivendo da Arona al capitolo della cattedrale di Novara, perché scomunicasse per il loro aiuto agli assedianti milanesi Francesco della Torre, fratello di Martino, podestà di Mantova e quest’ultimo Comune.
Minacciato dalla fanteria del capitano generale di Milano, Pelavicino, Ottone si arrese il 5 maggio. Pelavicino fece distruggere le fortificazioni d'Arona e il castello d'Angera e di Brebbia.
Ottone si ritirò a Novara, ma in giugno, Francesco della Torre lo cacciò e Ottone si rifugiò presso il papa a Montefiascone. Ottone allora scomunicò persino il vescovo di Novara che aveva consegnato al podestà gli ostaggi che Ottone gli aveva affidato.
Nel novembre 1263 si spense Martino della Torre, che fu sostituito al vertice della Credenza dal fratello Filippo e, nell’ottobre del 1264, il grande sostenitore di Ottone, papa Urbano IV. Il nuovo papa Clemente IV, pur rifiutandosi nell'agosto 1265 di destituire Ottone e di accettare la proposta di nominare quale legato apostolico Raimondo della Torre, si sarebbe rivelato assai più tiepido nei confronti del Visconti.
Nel frattempo Pelavicino aveva ceduto il titolo di capitano generale di Milano a Carlo d'Angiò, fratello del re di Francia Luigi XI, e si era trasferito nel campo dei Ghibellini, diventando un nemico dei della Torre. Malgrado ciò i Della Torre - nel frattempo alla morte di Filippo della Torre nel settembre 1265 gli era succeduto il cugino Napo Torriani - continuarono a dettar legge alla città di Milano, tanto che, quando Paganino della Torre divenuto podestà di Vercelli fu assassinato nel gennaio 1266 per iniziativa di Pelavicino, la vendetta fu atroce: 53 nobili milanesi furono decapitati sulla pubblica piazza.
Malgrado nel dicembre 1266 Clemente IV avesse sollecitato Milano ad accettare il proprio arcivescovo Ottone Visconti, alla morte del pontefice nel novembre 1268 il caso non era ancora risolto e così rimase per i tre anni di sede vacante che seguirono.
Nell'aprile 1273 il nuovo papa Gregorio X di passaggio a Milano confermò la validità dell'elezione di Ottone. Fu così che una vera e proprio psicosi s'impossessò di Milano: i della Torre arrivarono a proscrivere oltre duecento persone appartenenti alle famiglie nobili della capitale lombarda che furono obbligate a fuggire in esilio a Novara e Pavia. In previsione di un contrattacco del Visconti, fu costituita una milizia speciale per proteggere la città da Ottone. Napo sfidò le truppe pavesi e fece prigioniero un importante numero di nobili milanesi, fra i quali Teobaldo Visconti, padre di Matteo e nipote dell'arcivescovo Ottone. Quest'ultimo, che si trovava a Vercelli, quando ricevette la notizia si mise alla testa di un'armata di rifugiati ed occupò Castelseprio, da cui fu tuttavia scacciato da Napo, così da doversi rifugiare a Lurate presso Como. Nel 1277 l'ostracismo di cui era vittima Ottone Visconti finì quindici anni dopo la sua nomina ad arcivescovo e, per ironia della sorte, ciò avvenne nella città in cui era stato una volta canonico. Il 20 gennaio 1277 la battaglia di Desio fu decisiva con la disfatta dei Torriani: Francesco vi fu ucciso e Napo vi fu fatto prigioniero (morirà dopo un anno e mezzo di carcere), mentre Ottone entrava trionfalmente a Milano.
Per ricompensare tutte le maggiori sue clientele che lo avevano soccorso nella battaglia di Desio, il 20 aprile 1277 Ottone volle e approvò la "Matricula Nobilium": l'elenco delle nobili famiglie patrizie aventi il diritto sull'ordinamento della Chiesa metropolitana di Milano.
La vittoria nella battaglia di Desio nel 1277, aveva sostanzialmente segnato l'inizio della signoria viscontea e l'assoluto dominio di questa famiglia su Milano e sulla Lombardia. Ciononostante gli anni che seguirono non furono anni tranquilli. I della Torre iniziarono infatti una resistenza contro i Visconti e conquistarono Lodi e Castelseprio, conquistando l'intera regione fra l'Adda e il fiume Ticino.
Ottone fece appello a Guglielmo VII di Monferrato, facendolo eleggere capitano generale di Milano per cinque anni e poi dieci e fino a farlo Signore di Milano nel 1278 dopo che l'esercito milanese era stato sconfitto dai Torriani a San Donato. A fine 1281 i rapporti fra Ottone e il marchese di Monferrato si sarebbero deteriorati e l’arcivescovo avrebbe scacciato Guglielmo, divenuto alleato dei Della Torre da Milano.
Nel frattempo proprio nel 1281 una nuova battaglia contro i Torriani a Vaprio d'Adda aveva dato la vittoria ai Visconti il giorno di san Dionigi, il quale diverrà con sant'Agnese protettore dei Visconti. L’armata avversaria era vinta e dispersa: Cassone della Torre fu ucciso in combattimento, Raimondo della Torre riparò in Friuli e la pace fu siglata a Lodi.
Gli ultimi anni di governo di Ottone, il quale mai assunse la carica di Capitano del popolo o di signore di Milano, funzioni peraltro evidentemente incompatibili con il titolo di arcivescovo, furono più calmi. Il potere di fatto di Ottone – fondato sulla sua capacità di potere convocare rapidamente delle milizie cittadine - era tuttavia sia in politica estera che interna incontrastato a fronte dei capitani del popolo e dei podestà che cambiavano ogni 6 mesi. Ottone godeva anche del sostegno dell’imperatore – formalmente sovrano di Milano – che evitava sostenendo il Visconti di dovere delegare formalmente poteri a un'autorità locale.
Nel dicembre 1287, Ottone fece nominare il nipote Matteo capitano del popolo, funzione che gli sarà riattribuita due anni dopo. Nel 1291 il consiglio generale attribuirà a Matteo il titolo di signore di Milano. Stanco Ottone si ritirerà nell'Abbazia di Chiaravalle dove morirà all’età di 88 anni il giorno 8 agosto 1295.
Arnolfo di Cambio, noto anche come Arnolfo di Lapo (Colle di Val d'Elsa, circa 1240 – 1302) realizza la statua di Carlo I d'Angio, una statua in marmo alta circa 160 cm oggi conservata ai Musei Capitolini di Roma. L'opera era anticamente collocata nella chiesa di Santa Maria in Aracoeli a Roma.
Il sovrano è raffigurato seduto, su un trono con protomi leonini, con in mano i simboli regali ben in vista (corona e scettro), in un atteggiamento di meastosa dignità, ma anche di realistica fisicità.
L'opera è importante perché dopo gli pseudo-ritratti di Federico II risalenti alla prima metà del XIII secolo e dopo i primi ritratti per monumenti funebri (come quello di quello di papa Clemente IV di Pietro di Oderisio conservato nella chiesa di San Francesco di Viterbo), Arnolfo fu il primo in Europa a scolpire un ritratto realistico di un personaggio vivente. Particolarmnete notevole è il volto, dove si concentrarono gli sforzi dello sculture per rendere il ritratto solenne ma anche verosimile, rappresentando dettagli fisici quali i solchi del viso.

Anno del Signore 1278
Nicola e Giovanni (Pisa, 1248 ca – Siena, 1315 ca) Pisano terminano a Perugia la Fontana Maggiore.
La Fontana Maggiore o Fontana di Piazza è uno dei principali monumenti di Perugia. Progettata tra il 1275 ed il 1278 da Nicola e Giovanni Pisano con la collaborazione di Frà Bevignate da Cingoli per la parte architettonica e di Boninsegna Veneziano per la parte idraulica, tale opera era stata eretta per celebrare l'arrivo dell'acqua nella parte alta della città grazie al nuovo acquedotto, che convogliava le acque provenienti dal Monte Pacciano nel centro di Perugia. È costituita da due vasche marmoree poligonali concentriche sormontate da una tazza bronzea (opera del fonditore perugino Rosso Padellaio).
La Fontana è una delle più belle d'Italia, per eleganza di linee, armonia di forme e pregio nella decorazione incentrata in 50 bassorilievi e 24 statue con cui la ornarono Nicola e Giovanni Pisano. Le due vasche poligonali concentriche sono decorate a bassorilievi: in quella inferiore sono rappresentati i simboli e le scene della tradizione agraria e della cultura feudale, i mesi dell'anno con i segni zodiacali e le arti liberali, la bibbia e la storia di Roma; in quella superiore sono raffigurati nelle statue poste agli spigoli personaggi biblici e mitologici. La Fontana ha recentemente subito un restauro durato cinque anni che l'ha riportata all'antico splendore. Situata al centro della bellissima Piazza IV novembre (già Piazza Grande) è stata la prima fontana a non essere stata costruita sul posto, infatti la fontana fu costruita in laboratorio e poi montata al centro della piazza, costruita con la pietra di Assisi riceve da più di 800 anni l'acqua dal monte Pacciano situato a pochi km dalla città.
A Pisa viene costruito il Camposanto sulla Piazza dei Miracoli.
Il Camposanto monumentale si trova al limite nord della Piazza. Si tratta essenzialmente di un cimitero cinto da mura. Si dice, secondo uno schema di leggenda di fondazione tipica di altri edifici simili in tutta Europa, che il Camposanto sia nato intorno ad uno strato di terra portato dalla Terrasanta via nave dopo la Seconda Crociata dall'arcivescovo Ubaldo de' Lanfranchi nel XII secolo.
La sua struttura, iniziata nel 1278 da Giovanni di Simone, è quella di un chiostro oblungo in stile gotico fiorito, che però non fu completato fino al 1464, a causa della crisi provocata della sconfitta pisana nella battaglia della Meloria avvenuta nel 1284. Il muro esterno è composto di 43 archi ciechi con due porte.
I muri erano una volta affrescati: il primo affresco fu eseguito nel 1360, l'ultimo circa tre secoli più tardi. Le Storie dell'Antico testamento di Benozzo Gozzoli (XV secolo) si trovavano nella galleria nord, mentre quella sud era famosa per le Storie della Genesi di Piero di Puccio (fine del XV secolo). L'affresco più interessante è il realistico Trionfo della Morte, opera di Buonamico Buffalmacco, ma a lungo ritenuto di attribuzione incerta, tanto che le didascalie degli affreschi ancora riportano come autore un anonimo Maestro del Trionfo della Morte.

Anno del Signore 1279
Viene istituito il Palio di Ferrara, il puù antico palio del mondo.
Il Palio di Ferrara venne istituzionalizzato dal Comune di Ferrara nel 1279, codificando - tra le leggi - una tradizione popolare di giochi e feste iniziata nel 1259. Gli statuti del 1287, primo vero corpo di leggi promulgato dal Comune di Ferrara, disponevano che il Palio si corresse due volte l'anno: il 23 aprile in onore di San Giorgio patrono di Ferrara, ed il 15 agosto in onore della Vergine Assunta. Le corse dei cavalli, degli asini, delle donne e degli uomini, alle quali chiunque poteva iscriversi, dovevano effettuarsi in quelle ricorrenze alla presenza delle autorità cittadine. Il premio per il vincitore era appunto un palio , cioè un panno di stoffa; al secondo ed al terzo classificato venivano dati in premio una porchetta e un gallo.
Il tradizionale Palio di San Giorgio si correva abitualmente lungo la via Grande parallela alla riva del Po, partendo dal borgo della Pioppa fino al Castel Tedaldo. Era tradizione che le associazioni cittadine o qualche comunità del contado offrissero al proprietario del cavallo il drappo in segno di vittoria. Altre corse si tenevano tradizionalmente nelle "delizie" estensi, insieme a battute di caccia, giostre e tornei.
Nel 1391, quando il marchese Alberto d'Este ritornò da Roma (dove papa Bonifacio IX gli consegnò la "Rosa d'oro", segno di distinzione della Santa Sede, e la bolla In supreme dignitatis con la quale Ferrara veniva autorizzata ad aprire una sua Università) vennero organizzate in suo onore tre corse di cavalli, una di asini, due di uomini e una di donne. Sono rimaste celebri, nella storia, anche la parata ed il Palio del 1471 in onore di Borso d'Este che ritornava da Roma dopo aver ottenuto da papa Paolo II il titolo di duca di Ferrara ed altri privilegi. Grande risonanza ebbero le corse al tempo del duca Ercole I (1471-1505) e della moglie Eleonora d'Aragona: se Ercole era fuori città era la duchessa che faceva proclamare il bando del Palio e che presenziava alle corse. A quel tempo le corse si tenevano anche per sottolineare avvenimenti particolari come nascite, matrimoni, visite di personaggi importanti e nemmeno le disastrose rotte del Po potevano fermare la festa, che veniva semplicemente rinviata.
Delle corse al palio è rimasta memoria negli affreschi del Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia dove sono raffigurati uomini, donne, il duca Borso, la corte, dame e nobili cavalieri che assistono dai balconi dei loro palazzi sullo sfondo di una città addobbata a festa.
Durante il Rinascimento le corse ferraresi erano rinomate anche perché molte famiglie nobili vi partecipavano con i cavalli delle loro scuderie. Nel 1466 re Ferdinando di Napoli volle provare a Ferrara la velocità dei suoi cavalli; nel 1475 i Gonzaga, marchesi di Mantova, parteciparono al palio con 19 cavalli vincendo l'ambito drappo, mentre il secondo posto fu appannaggio di un cavallo di Sigismondo d'Este; nel 1499 la vittoria arrise ad un cavallo di Isabella d'Este. Dalle cronache sappiamo che il premio per la corsa dei cavalli del 1481 fu un panno d'oro riccio color cremisi di braccia 14, con un bel cimiero in aggiunta.
Le tradizionali corse al Palio erano una grande festa di popolo, essendo aperte a chiunque volesse partecipare. A quelle corse, in seguito, se ne aggiunsero altre (specialmente durante il ducato di Ercole I) di carattere più aristocratico, che si tenevano nella parte del Barco più vicina alla città: il "Barchetto del duca".
Per quanto riguarda la corsa delle putte - che si correva da Santa Maria delle Bocche (angolo Gioco del Pallone) alla porta di Gusmaria - ci rimane un editto con il quale il duca Ercole I invitava qualunque persona de qualunque borgo della sua città sua de Ferrara a mandare soe pute de anni XII in suso a correre al palio insieme ad altre ragazze honeste ed dabene . La prima arrivata avrebbe ricevuto un braccio di panno verde e alle successive quindici il duca avrebbe offerto pignolato novo per un guarnello: quel 23 Aprile 1476 corsero ben 57 ragazze.
La corsa degli uomini si teneva dall'angolo di San Pietro alla porta di Gusmaria, mentre quella degli asini si svolgeva dalla porta di Sotto alla porta di Gusmaria.
Durante il XVI secolo il campo delle corse venne spostato nelle strade più ampie dell'Addizione Erculea, realizzata da Biagio Rossetti, dalla Giovecca alla via degli Angeli (attuale corso Ercole I d'Este) e alla via di San Benedetto.
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ELENCO EVENTI STORICI DA M2TW 1280-1284

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Anno del Signore 1280
Comincia a diffondersi, in varie parti d'Europa, un complesso strumento di misurazione del tempo che non si affida né al sole né all'acqua o alla sabbia. I dotti hanno spiegato che per far funzionare i meccanismi dell'"orologio" è necessario soltanto un oggetto che dondoli con regolarità. Qualcuno che ha già avuto occasione di osservare uno di questi nuovi orologi meccanici ha suggerito di costruirne uno abbastanza grande da poter essere collocato in un punto in cui possa essere visto da tutti i comuni cittadini.
Cimabue, pseudonimo di Cenni di Pepi (Firenze, 1240 circa – Pisa, 1302), esegue la Madonna con il Bambino nella Chiesa di San Francesco a Pisa.
Si hanno notizie di lui dal 1272. Dante lo citò come il maggiore della generazione antecedente a quella di Giotto, parallelamente al poeta Guido Guinizelli e al miniatore Oderisi da Gubbio. Secondo il Ghiberti e il Libro di Antonio Billi fu al contempo maestro e scopritore di Giotto. Il Vasari lo indicò come il primo pittore che si discostò dalla "scabrosa goffa e ordinaria [...] maniera greca", ritrovando il principio del disegno verosimile "alla latina".
Probabilmente la sua formazione si svolse a Firenze, tra maestri di cultura bizantina. Già con la Crocefissione della chiesa di San Domenico di Arezzo, databile attorno al 1270, e assegnato al suo catalogo da Pietro Toesca, segnò un distacco dalla maniera bizantina.
In questa opera Cimabue si orientò verso le recenti rappresentazioni della Crocefissione con il Christus patiens dipinte verso il 1250 da Giunta Pisano, ma aggiornò l'iconografia arcuando ancora maggiormente il corpo del Cristo, che ormai debordava occupando tutta la fascia alla sinistra della croce. Sempre ai modelli di Giunta rimandano le due figure nei tabelloni ai lati dei braccio della croce (Maria e San Giovanni raffigurati a mezzo busto in posizione di compianto) e lo stile asciutto, quasi "calligrafico" della resa anatomica del corpo del Cristo.
Poco dopo il viaggio a Roma del 1272, eseguì il Crocifisso per la chiesa fiorentina di Santa Croce, oggi semidistrutto a causa dell'alluvione di Firenze del 1966. Quest'opera si presenta dall'apparenza simile al Crocifisso aretino, ma a un'analisi attenta lo stile pittorico è molto migliorato, tanto da suggerire che sia stato eseguito un decennio dopo, intorno al 1280.
Alto tre metri e 90 è un crocifisso grandioso, con la posa del Cristo ancora maggiormente sinuosa, ma è soprattutto la resa pittorica delicatamente sfumata a rappresentare una rivoluzione, con un naturalismo commovente (forse ispirato anche alle opere di Nicola Pisano) e privo di quelle dure pennellate grafiche che si riscontrano nel crocifisso aretino. La luce adesso è calcolata e modella con il chiaroscuro un volume realistico: i chiari colori dell'addome, girato verso l'ipotetica fonte di luce, non sono gli stessi del costato e delle spalle, sapientemente rappresentati come illuminati con un angolo di luce diverso. Le ombre, appena accennate su pieghe profonde come quelle dei gomiti, sono più scure nei solchi tra la testa e la spalla, sul fianco, tra le gambe. Un vero esempio di virtuosismo è poi la resa del morbido panneggio, delicatamente trasparente. Dopo secoli di aspri colori pastosi Cimabue fu quindi il primo a stendere morbide sfumature.
Cimabue anche nell'iconografia tradizionale della Madonna col bambino stabilì un nuovo canone con il quale si dovettero confrontare i pittori successivi, soprattutto Giotto.
Verso il 1280 eseguì la Madonna con il Bambino o Maestà del Louvre, proveniente dalla chiesa di San Francesco a Pisa. In questa opera è amplificata la maestosità, tramite un più ampio campo attorno alla Madonna (si pensi alla Madonna del Bordone di Coppo di Marcovaldo), e migliore è la resa naturalistica, pur senza concessioni al sentimentalismo (Madonna e bambino non si guardano e le loro mani non si toccano). Il trono è disegnato con un'assonometria intuitiva e quindi collocato precisamente nello spazio, anche se gli angeli sono disposti ritmicamente attorno alla divinità secondo precisi schemi di ritmo e simmetria, senza interesse ad una reale disposizione nello spazio, infatti lievitano l'uno sopra l'altro (non l'uno dietro l'altro). Molto fine è il modo con cui i panneggi avvolgono il corpo delle figure, soprattutto della Madonna, che crea un realistico volume fisico. Non vi è usata l'agemina (le striature dorate).
Questa pala ebbe un'eco immediata, ripresa per esempio verso il 1285 dal senese Duccio di Buoninsegna, nella sua aristocratica Madonna Rucellai, già in Santa Maria Novella e oggi agli Uffizi.
Sotto il papato di Niccolò IV (1288-1292), primo papa francescano, lavorò ad Assisi con affreschi nell'abside della basilica superiore di San Francesco: Evangelisti, Storie della Vergine e due Crocifissioni, molto rovinati, nella basilica inferiore affrescò una Maestà con San Francesco. Il Santo è simile a quello ritratto in una tavola conservata nel Museo di Santa Maria degli Angeli.
L'arrivo di Cimabue ad Assisi segnò l'ingresso nella prestigiosa commissione papale di artisti fiorentini e la scelta del maestro fu dettata quasi certamente dalla fama che aveva acquistato a Roma nel 1272, anche se non sono conosciute opere di Cimabue del periodo romano. È difficile avere un'idea degli affreschi assisiati di Cimabue e della sua bottega, perché oggi sono i più danneggiati della basilica Superiore, avendo subìto un processo di ossidazione e distacco dei colori che ha reso i toni chiari scuri e viceversa (per cui sembra di essere di fronte a un negativo fotografico).
Così Dante sul Cimabue:
" « Credette Cimabue nella pittura
tener lo campo, ed ora ha Giotto il grido,
si che la fama di colui oscura »
(Dante Alighieri, Purgatorio XI, 94-96)"

Anno del Signore 1281
Viene composto, con molta probabilità il Novellino (o Libro di novelle et di bel parlar gentile), una delle prime raccolte di novelle della letteratura italiana. Non è difficile stabilirne la patria. La lingua della novelle mostra evidente il suo carattere fiorentino. Ma questo non vorrebbe dir molto, se sono fiorentini tutti i manoscritti, e se tutti sono più o meno lontani dall'originale: la loro fiorentinità potrebbe essere opera dei copisti.
Meglio la fiorentinità dell'originale si prova osservando come, tra i pur prediletti aneddoti italiani, prevalgono quelli dove campeggiano personaggi fiorentini, dove domina l'ambiente fiorentino, dove palpita la vita fiorentina. I personaggi fiorentini sono molti, anche se non sempre agiscano a Firenze o nel territorio fiorentino, e maestro Taddeo [di Alderotto] insegni a Bologna, e il vescovo Aldobrandino [Cavalcanti] regga la diocesi d'Orvieto, e messer Migliore degli Abati viaggi in Sicilia e quella perla d'amico di Cante Caponsacchi vada in confino a Mantova.
Intanto il suo troppo fiducioso amico mantovano tien l'ufficio di podestà a Firenze. Da Firenze muovono i due amanti fiorentini della «bella novella d'amore »; da ' Firenze esce Ciolo degli Abati per visitare in villa l'amico Maso Leonardi; a Firenze il vescovo [Giovanni] Mangiadore si fa cogliere in fallo da un suo colpevole piovano; a Firenze infine tra la costa San Giorgio e il Ponte Vecchio, l'avaro set Frulli è allegramente beffato da quel burlone di Bito. In questa novella sopra tutto la descrizione particolareggiata dei luoghi, la rappresentazione minuta della vita quotidiana è tale, che difficilmente sarebbe uscita dalla penna di qualcuno che non fosse stato di quei luoghi e non avesse partecipato a quella vita.
Il Novellino fu dunque composto a Firenze: quando tra i personaggi, storici o leggendari, che affollano le nostre novelle, molti appartengono all'antichità, altri al medio evo prima del secolo XIII; e i fatti che si raccontano di loro provengono dai libri, tanto che quasi sempre se ne può indicare la fonte. Non provengono invece dai libri, se non eccezionalmente, i fatti che si raccontano di personaggi dugenteschi. E questi sono in gran numero : dal prediletto Federico II a Carlo d'Angiò, col re Corrado di Svevia, con Ezzelino da Romano, col vescovo Mangiadore di Firenze, col vescovo Aldobrandino d'Orvieto, con altri che Dante ha accolti nella sua Commedia: Marco Lombardo, Francesco d'Accorso, Lizio da Valbona, Rinieri di Calboli...
Certo la frequenza delle persone appartenenti a quello scorcio di secolo contrasta nel Novellino con l'assenza di uomini la cui attività sia da porre, decisamente, nel Trecento, sia pure nei primi anni. Ond'è che la data fissata dal d'Ancona nel suo lavoro Del Novellino e delle sue fonti, pubblicato nel 1873 e accolto poi tra i suoi Studi di critica e storia letteraria, è stata generalmente accettata. Secondo lui il Novellino fu composto «verso la fine del Dugento, e forse nel penultimo « decennio ». Noi diciamo, senza precisar troppo: non prima del 1281 e non dopo il 1300...
Nelle migliori novelle del Novellino tutto è fresco e vivo. Nessun indugio in descrizioni d'ambiente: i personaggi sono introdotti subito, con formule spicce. E nessun indugio in motivazioni psicologiche: i personaggi sono preferibilmente fatti parlare. E son fatti parlar bene: si ricordino i dialoghi della novella fiorentina di Bito e di ser Frulli. Vien prima il dialogo tra la ingenua serva di Frulli, che scende al mercato di ponte Vecchio con un paniere di verdura, e quel burlone di Bito, che l'aspetta per la strada, sulla Costa di San Giorgio, e la ferma, e le compra un mazzo di cavoli, e la imbroglia sul prezzo, frodandole un « danaio ».
Poi c'è il dialogo tra il padrone e la serva, quando, tornata al podere, gli sta rendendo i conti, e quegli s'avvede dell'ammanco, e s'adira, e le fa confessare l'incontro con Bito, e capisce l'inganno. C'è infine il dialogo tra ser Frulli e Bito, l'uno acceso alla vendetta, l'altro pronto alla beffa, alla beffa estrema che rimanda a casa, frodato d'un altro «danaio» ma contento (« Ben mi piace... »), il vecchio avaro e sospettoso. Tre dialoghi brevi, e pur pieni di vivacità e di verità, che bastan da soli a scolpire i caratteri dei tre diversi personaggi.
D'altra parte, se la proprietà e la vivacità del dialogo è in alcune novelle mirabile, non meno degna d'ammirazione è, in altre, la grazia e la schiettezza della narrazione: si ricordi la «bella novella d'amore».
Con che schiva semplicità è precisata la situazione iniziale! «Un giovane di Firenze amava una gentile pulzella; la quale non amava niente lui, ma amava a dismisura un altro giovane, lo quale amava anche lei, ma non tanto ad assai quanto costui » E con che attenta sobrietà son tratteggiati i movimenti e gli atteggiamenti dei tre personaggi l'amante non riamato che, condotto in villa, perché si distragga, da un amico pietoso, non può tanto stare che non torni una notte, a cavallo, in città, sol per vedere le mura della casa in cui abita la sua amata crudele; la fanciulla che, crucciata con la madre, arditamente offre all'altro giovane, al suo tanto amato, di fuggire una notte con lui; l'eletto che accetta, e prepara con amici fidati le facilità occorrenti a una sicura fuga notturna.
Poi, i contrattempi e gli equivoci della notte fatale: l'amante riamato che passa troppo presto, e ripassa troppo tardi davanti alla porta della fanciulla; l'amante non riamato che vi passa, inconsapevole, proprio al momento opportuno; e la fanciulla che, scambiandolo per l'altro, salta dietro a lui sul suo cavallo; e galoppano a lungo silenziosi, fuor di città, molte miglia, sino a un bel prato « intorniato di grandissimi abeti ». E con che grazia, a questo punto, con che misurata e pur arguta discrezione è indicata la soluzione dell'intrico ! « Smontaro e legaro il cavallo a un albero. E prese a baciarla. Quella il conobbe. Accorsesi della disavventura, cominciò a piangere duramente. Ma questi la prese a confortare, lagrimando, ed a renderle tanto onore, ch'ella lasciò il piangere, e preseli a voler bene, veggendo che la ventura era pur di costui, ed abbracciollo... »
Non volubilità femminile: umana accettazione del destino è quella che l'autore vuol qui rappresentare nell'abbraccio della donna. Anche per lei la «disavventura» si muta, con naturale spontaneità, in «ventura» Ond'è che poi gli inseguitori, a trovarli e a mirarli «dormire così abbracciati », nel « lume della luna ch'era apparito », non osano «disturbarli ». Faranno più tardi quello che hanno a fare - non lo faranno anzi più, tanta è la potenza della «ventura» non cercata, non voluta, ma infine accettata con felice consenso. Chi avrebbe potuto narrare con maggior sobrietà e con maggior verità la curiosa vicenda dei tre giovani fiorentini?
Ma, se vogliamo un ultimo esempio dell'efficacia che l'arte del Novellino sa in qualche caso raggiungere, prendiamo infine la novella dei tre maestri di negromanzia alla corte dell'imperator Federico. Vi fan meraviglie; poi menan con sé partendo il conte di San Bonifazio. E lo conducono in un paese lontano, di cui egli acquista la signoria, vincendo a piú riprese i nemici, e in cui vive a lungo, accanto a sua moglie, con dei figli, sino alla vecchiaia. Ond'è che quando riappaiono i tre maestri e lo invitano a tornar con loro dall'imperatore, il conte risponde, tra svogliato e stupito: « Lo 'mperio fra ora più volte mutato; le gemi frano ora tutte nuove: dove ritornerei? » Ma alla fine li segue. E che trovano L'imperator Federico, e i suoi baroni, non mutati d'aspetto né d'abito, che ancora stanno per sedere a mensa, come stavano quand'egli era partito. E i tanti e tanti anni di lontananza, e le molteplici vicende che li avevano riempiti, tutto non era stato che una magica illusione di pochi istanti, effetto prodigioso d'un gioco d'incantatori. Ma l'autore non dice niente di tutto questo: perché il lettore intenda, gli basta far parlare il conte. È l'imperatore che l'interroga; e il conte, come trasognato, narra la sua avventura; mormora: «I' ho poi moglie, figliuoli c'hanno quarant'anni; tre battaglie di campo ho poi fatte; il mondo è tutto rivolto : come va questo fatto». E il lettore rimane sotto l'impressione viva di questa sorpresa; gli par di tornare, anche lui, da un paese lontano di sogni, destato, anche lui, bruscamente, dal riso dell'imperatore e dei suoi baroni, che suona festoso alla fine della novella. Non tutte le novelle del Novellino rivelano l'istinto artistico che appare così evidente e così efficace in queste ultime; ma esse (e, con loro, altre che. si potrebbero pur ricordare) bastano ad assicurare il valore singolare di questo piccolo, semplice libro, e a spiegare il favore di cui, dopo tanti secoli, ancor sempre gode.
Così recita il prologo del Novellino:
"Questo libro tratta d'alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di be' risposi e di belle valentie e doni, secondo che per lo tempo passato hanno fatto molti valenti uomini.
Quando lo Nostro Signore Gesù Cristo parlava umanamente con noi, in fra l'altre sue parole ne disse che dell'abondanza del cuore parla la lingua. Voi c'avete i cuori gentili e nobili in fra li altri, acconciate le vostre menti e le vostre parole nel piacere di Dio, parlando, onorando e temendo e laudando quel Signore Nostro, che n'amò prima che Elli ne criasse e prima che noi medesimi ci amassimo. E se in alcuna parte, non dispiacendo a lui, si può parlare per rallegrare il corpo e sovenire e sostentare, facciasi con più onestade e con più cortesia che fare si puote.
Et acciò che li nobili e ' gentili sono nel parlare e nell'opere molte volte quasi com'uno specchio appo i minori — acciò che il loro parlare è più gradito però che esce di più dilicato stormento —, facciamo qui memoria d'alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di belli risposi e di belle valentie, di belli donari e di belli amori, secondo che per lo tempo passato hanno fatto già molti. E chi avrà cuore nobile et intelligenzia sottile, si li potrà simigliare per lo tempo che verrà per innanzi et argomentare e dire e raccontare (in quelle parti dove avranno luogo), a prode et a piacere di coloro che non sanno e disiderano di sapere.
E se i fiori che proporremo fossero mischiati intra molte altre parole, non vi dispiaccia: ché 'l nero è ornamento dell'oro, e per un frutto nobile e dilicato piace talora tutto un orto, e per pochi belli fiori tutto un giardino. Non gravi a' leggitori che sono stati molti che sono vivuti grande lunghezza di tempo et in vita loro hanno appena tanto: un bel parlare, overo una cosa, da mettere in conto fra i buoni."

Anno del Signore 1282
Il 30 marzo scoppia a Palermo, e ben presto in tutta l'isola, la rivolta contro gli Angioini, che prende il nome di Vespri Siciliani.
Dopo la morte di Corrado, la sconfitta di Manfredi a Benevento il 26 febbraio 1266 e la decapitazione di Corradino a Napoli 29 ottobre 1268, il Regno di Sicilia era stato definitivamente assoggettato a Carlo I d'Angiò. Il Papa Clemente IV, che già aveva incoronato Re di Sicilia Carlo nel 1263, sperava così di poter imprimere ulteriormente la propria influenza sul Regno dell'Italia meridionale, senza subire gli odiati veti che furono imposti dagli svevi. Tuttavia il Papa si renderà conto molto presto che in realtà gli angioini non manterranno le promesse e perseguiranno una politica espansionistica. Conquistato il Meridione d'Italia, Carlo pensava già a Costantinopoli.
In Sicilia la situazione era particolarmente critica per una riduzione generalizzata delle libertà baronali ed una opprimente politica fiscale. L'isola, infatti, che fu sempre una fedele roccaforte sveva e resistette per alcuni dopo il tentativo di Corradino, ora era il bersaglio della rappresaglia angioina. Gli Angiò peraltro si mostrarono insensibili a qualunque richiesta di ammorbidimento ed applicarono un esoso fiscalismo praticando usurpazioni, soprusi e violenze. Dante Alighieri (che aveva 17 anni nel 1282) nel VIII canto del Paradiso, indica come Mala Segnoria il regno angioino in Sicilia. I nobili siciliani e soprattutto il diplomatico Giovanni da Procida riponevano le proprie speranze per una soluzione alla situazione siciliana su Michele VIII Palaeologo, imperatore bizantino in contrasto con Carlo I d'Angiò, sul Papa Niccolò III che si era dimostrato sensibile e sul Re Pietro III d'Aragona. Il re d'Aragona era favorito in quanto la propria consorte Costanza era figlia di Manfredi ed unica discendente della dinastia sveva di cui la popolazione siciliana manteneva ancora il ricordo dello splendore raggiunto con il nonno, l'imperatore Federico II, tuttavia egli era impegnato dalla riconquista della parte della penisola iberica in mano ai mori. A fine 1280 accaddero due eventi storici importanti: morì Papa Niccolò mentre l'imperatore Michele era duramente impegnato da una coalizione dove vi erano fra gli altri gli Angiò e Venezia. I baroni siciliani iniziarono a organizzare una sollevazione popolare anche per dare un segno tangibile della loro forza e convincere Pietro, l'unico interlocutore rimasto a poter accorrere in aiuto dei siciliani. In questo contesto avveniva l'elezione di Papa Martino IV il 22 febbraio 1281 su cui in Sicilia si riponevano le ultime speranze. Invece il Papa, che era francese ed era stato eletto proprio grazie al sostegno degli Angiò a cui era particolarmente legato, si mostrò subito insensibile ai siciliani.
Le pressioni internazionali in realtà, celate o meno, erano molteplici data la instabile situazione politica europea di fine XIII secolo, la forte opposizione nei confronti dell'ingerenza papale e l'inarrestabile ascesa degli angioini, vassalli del pontefice. Carlo I d'Angiò era sostenuto oltre che dal Papa Martino IV, da Filippo III di Francia e dai guelfi fiorentini. Pietro d'Aragona, che rappresentava la possibilità di frenare l'espansione angioina invece aveva i favori oltre che di Michele VIII Palaeologo, di Rodolfo d'Asburgo, di Edoardo I d'Inghilterra, della fazione ghibellina genovese, del Conte Guido da Montefeltro, di Pietro I di Castiglia, della nobiltà locale e catalana e tiepidamente delle Repubbliche marinare di Venezia e di Pisa.
Tutto ebbe inizio all'ora del vespro del 30 marzo 1282, lunedì dopo la Pasqua, sul sagrato della Chiesa dello Spirito Santo, a Palermo. L'insurrezione dilagò immediatamente in tutta la Sicilia. A generare l'episodio fu - secondo la ricostruzione storica - la reazione al gesto di un soldato dell'esercito francese, tale Drouet, che si era rivolto in maniera irriguardosa ad una giovane nobildonna accompagnata dal consorte con la scusa di ricercarle armi nascoste sotto le vesti. La reazione dello sposo, a difesa della nobildonna, fu appunto la scintilla che dette inizio alla rivolta. Nel corso della serata e della notte che ne seguì i palermitani si abbandonarono ad una vera e propria "caccia ai francesi", presto trasformatasi in una autentica carneficina.
Si racconta che i siciliani, per individuare i francesi che si camuffavano fra i popolani, facessero ricorso ad uno shibboleth, mostrando loro dei ceci e chiedendo di pronunziarne il nome; appena i francesi dicevano "siseró" anziché "ciciru" venivano uccisi!
La rivoluzione del Vespro fu possibile perché vi furono alcuni uomini forti che organizzarono la rivolta in segreto. Fra essi si devono menzionare:
-Giovanni da Procida, della famosa Scuola Medica Salernitana, medico di Federico II;
-Alaimo di Lentini, Signore di Lentini;
-Gualtiero di Caltagirone, Barone, Signore di Caltagirone;
-Palmiero Abate, Signore di Trapani e Conte di Butera.
All'alba, la città di Palermo si proclamò indipendente. Ben presto, la rivolta si estese a tutta la Sicilia. Dopo Palermo fu la volta di Corleone, Taormina, Messina, Siracusa, Augusta (SR), Catania e, via via, tutte le altre città. Carlo I d'Angiò tentò invano di sedare la rivolta con la promessa di numerose riforme. Alla fine decise di intervenire militarmente. Con 25.000 uomini e duecento navi, a fine maggio 1282, sbarcò tra Catona e Gallico (a nord di Reggio) iniziando l'assedio di Messina e bloccando di fatto l'intervento di Reggio a sostegno della città siciliana. La città dello Stretto era allora comandata da Alaimo di Lentini, che nominato Capitano del Popolo, organizzò la resistenza nella città. Il primo assalto navale fu il 2 giugno, respinto dai siciliani; indi sbarcò sulle coste di Messina il 25 luglio 1282, ben sapendo che non avrebbe mai potuto avanzare all'interno della Sicilia se non dopo aver espugnato la città sullo stretto. Il 6 e l'8 agosto si ebbe un assalto guelfo italo-francese alle spalle della città, dai colli, respinto dai siciliani. Alla guerra parteciparono tutti i centri dell'isola, tranne Sperlinga, che divenne l'unico caposaldo angioino e dove i soldati si asseragliariono per circa un anno. Nel castello della cittadina infatti, si può ancora leggere di questa fedeltà: "Quod Siculis placuit, sola Sperlinga negavit" ("Ciò che piacque ai Siciliani, solo Sperlinga lo negò").
L'assedio di Messina durò fino a tutto il mese di settembre, ma la città non fu espugnata. Al periodo storico sono legate due leggende: il Vascelluzzo e Dina e Clarenza.
Nel frattempo i nobili siciliani avevano offerto la corona di Sicilia a Pietro III d'Aragona, marito di Costanza, figlia del defunto Re Manfredi di Svevia. L'aver fatto cadere su Pietro III la scelta quale nuovo Re di Sicilia significava per gli isolani la volontà di ritornare, in certo qual modo, alla dinastia sveva, incarnata da Costanza. La flotta di re Pietro, comandata da Ruggero di Lauria sbarcò il 30 agosto 1282 a Trapani accolto da Palmiero Abate. L’insurrezione divenne così un vero conflitto politico fra Siciliani ed Aragonesi da un lato e gli Angioini, il Papato, il Regno di Francia e le varie fazioni guelfe dall'altra.
Appena insediatosi Pietro nominò Alaimo di Lentini Gran Giustiziere, Giovanni da Procida Gran Cancelliere e Ruggero di Lauria Grande Ammiraglio. Inoltre assegnò incarichi di primo piano ai suoi fidati Berengario Pietrallada, Corrado Lancia e Blasco I Alagona.
Il 26 settembre 1282, Re Carlo, sconfitto, fece ritorno a Napoli, lasciando la Sicilia nelle mani di Pietro III. Ebbe inizio, così un lungo periodo di guerre tra gli angioini e gli aragonesi per il possesso dell'isola.
Il primo intervento del Papa Martino IV nella guerra fu nel novembre 1282, quando lanciò la scomunica su Pietro ed i siciliani.
Gli Aragonesi presero l'impegno di tenere distinti i Regni di Sicilia e di Aragona: il Re nominava un luogotenente che in sua assenza avrebbe regnato in Sicilia. Così quando Pietro fu richiamato in Spagna lasciò la luogotenenza ad Alfonso III d'Aragona e dopo questo verrà investito dell'incarico Giacomo II d'Aragona. Gli aragonesi però frustrarono quasi subito le aspirazioni dei siciliani, quando Pietro finita l'occupazione dell'isola sbarcò a Reggio Calabria e puntò a risalire la Calabria in direzione di Napoli. I malumori dei baroni siciliani sfociarono in ostilità aperta ed a farne le spese furono alcuni dei capi dei Vespri come Gualtiero di Caltagirone che il il 22 maggio del 1283 venne condannato al patibolo da Giacomo figlio di Pietro e luogotenente di Sicilia.
Davanti a Malta, l'8 giugno 1283 si affrontarono per la prima volta la flotta catalano-siciliana di Ruggero di Lauria e quella angioina nella cosiddetta Battaglia navale di Malta. L'ammiraglio Ruggero vincitore inflisse un duro colpo agli angioini che furono costretti alla fuga.
Il Papa Martino IV che sosteneva fortemente la causa angioina, scomunicò nuovamente Pietro nel gennaio e quindi nel febbraio 1283 ed indisse una vera e propria crociata da Orvieto il 2 giugno 1284 contro i siciliani. Il 5 giugno 1284 e poi nel 1287 nelle due «Battaglie navali di Castellammare» combattute nel Golfo di Napoli la flotta aragonese con al comando l'ammiraglio Ruggero di Lauria vinse nuovamente quella angioina comandata da Carlo lo Zoppo, che in occasione del primo scontro venne catturato e tenuto in prigionia nel castello di Cefalù rischiò la pena capitale. Giacomo infatti premeva per la condanna a morte mentre il padre Pietro tramite Alaimo di Lentini spinse per cercare un trattato di pace. Tale situazione costò la fiducia ad Alaimo. Quest'ultimo avrebbe pagato di persona con la deposizione da Giustiziere e l'esilio sino al 1287 quando Alaimo venne giustiziato.
Il Papa Onorio IV successore di Martino pur mostrandosi più diplomatico del predecessore non accettò la sollevazione del Vespro e confermò l'11 aprile 1286, la scomunica per il Re Giacomo di Sicilia ed i vescovi che avevano preso parte alla sua incoronazione a Palermo, il 2 febbraio 1286; ma né il Re né i vescovi se ne preoccuparono. Il re inviò addirittura una flotta ostile sulla costa romana e distrusse col fuoco la città di Astura.
Nel 1288 Roberto d'Angiò veniva catturato e tenuto in ostaggio dal Re Giacomo per costringere gli angioini a firmare un armistizio nel 1295.
Nel 1291 Alfonso III d'Aragona firmava a Tarascon un trattato con Papa Niccolò IV e Carlo II d'Angiò che prevedeva l'espulsione del fratello Giacomo dalla Sicilia, ma l'accordo non ebbe alcun effetto nella guerra.
Alfonso morì nel 1291 e Giacomo, suo successore salì quindi sul trono di Aragona lasciando la luogotenenza in Sicilia al fratello Federico che da subito si mostrò molto attento alle istanze dei siciliani. Il Trattato di Tarascon rimase inapplicato e Papa Nicola IV colse l'occasione per lanciare una crociata contro il regno d'Aragona comandata da Carlo di Valois. Nello stesso momento erano in difficoltà anche gli angioni così Giacomo II di Aragona e con Carlo II d'Angiò cercarono con il Trattato di Anagni firmato il 12 giugno del 1295 una via d'uscita dal conflitto del Vespro. Il trattato avrebbe previsto la ritirata degli aragonesi dall'isola e la riconsegna agli Angiò. Così i siciliani si sentirono abbandonati ed in questo contesto il Parlamento siciliano, riunito al Castello Ursino di Catania, elesse a Re di Sicilia Federico disconoscendo Giacomo. Il piano di alleanze fu stravolto: da questo momento i Siciliani continuarono la lotta sotto la reggenza di Federico, contro sia gli Angioini che gli Aragonesi di Spagna del Re Giacomo.
La reggenza di Federico acuì però il malcontento di alcuni grossi feudatari fra i quali l'ammiraglio Ruggero di Lauria che si asseragliò prima nel castello di Aci e successivamente entro le mura di Castiglione di Sicilia, suo feudo impegnando gli aragonesi in un logorante assedio (1297).
L'ammiraglio Ruggero passò quindi dalla parte angioina-aragonese di Spagna e vinse Federico il 4 luglio del 1299 nella «Battaglia navale di Capo d'Orlando».
Il 31 dicembre del 1299 durante la «Battaglia di Falconara», tentativo dei francesi di riconquistare la Sicilia e che venne combattuta fra Mazara del Vallo e Marsala, il generale aragonese Martino Perez de Roisviene vincitore fece prigioniero Filippo I d'Angiò figlio di Carlo II. Il 4 luglio del 1300 nella «Battaglia navale di Ponza» Ruggero di Lauria batteva nuovamente gli aragonesi facendo prigioniero Federico III e Palmiero Abate. Il re riuscì poi a fuggire, mentre Palmiero morì di stenti in prigionia pochi mesi dopo.
Con la fine di Palmiero, scompariva l'ultimo dei promotori del Vespro, dopo Gualtiero e Alaimo che vennero giustiziati e Giovanni da Procida, l'unico, quest'ultimo a morire di morte naturale.
Alla conclusione del XIII secolo il regno di Trinacria iniziava ad essere logorato da fazioni che facevano capo alle principali famiglie nobiliari:
alla «fazione latina», legata al partito svevo-ghibellino appartenevano principalmente i Ventimiglia, i Chiaramonte, i Palizzi, i Lanza, gli Uberti ;
alla «fazione catalana», legata agli aragonesi appartenevano gli Alagona questi specialmente alla corte di Sicilia ed i Moncada maggiormente vicini alla corte di Barcellona, e Matteo Sclafani i Rosso ed inoltre si possono mensionare i Lentini anche se spesso vennero accostati alla casata angioina (Nel corso dei successivi anni '30 del 1300 si aggiungeranno a questa fazione i Peralta).
La guerra civile proseguirà ben oltre il Vespro, in questo periodo e con alcuni trattati si tentò invano di ricomporre la pace fra le fazioni. Il maggior trattato è del 4 ottobre 1362 che venne firmato tra le fazioni latina e catalana.
La pace di Caltabellotta (AG) fu il primo accordo ufficiale di pace firmato il 31 agosto 1302 nel castello della cittadina siciliana fra Carlo di Valois, come capitano generale di Carlo II d'Angiò e Federico III d'Aragona e concluse quella che viene indicata come la prima fase dei Vespri. L'accordo limitava il regno di Carlo II al meridione peninsulare d'Italia ed il titolo di Re di Sicilia mentre stabiliva che Federico continuasse a regnare in Sicilia, con il titolo di Re di Trinacria. Inoltre prevedeva che Federico sposasse Eleonora, sorella del duca di Calabria Roberto d'Angiò e figlia di Carlo II. Grazie a questo accordo si avviò anche una ricongiunzione fra la corte aragonese e diversi signori ribelli come Ruggero di Lauria.
L'accordo di Caltabellotta serviva a Federico per riorganizzare il proprio regno fortemente indebolito dai duri anni di guerra e ciò riusci al monarca sino a quando cercando di eludere il trattato di pace di Caltabellotta assegnò la corona di Re al figlio Pietro, evitando così di far ereditare la corona agli angioini come previsto dagli accordi. Pietro regnò così a partire dal 1321, ben quindici anni prima della morte di Federico (1336), e ciò provocò la inevitabile reazione angioina e la ripresa della guerra.
Alla morte di Pietro (1342) succedeva il figlio Ludovico sotto tutela di Giovanni d'Aragona, perché di soli cinque anni. Fu probabilmente grazie alla diplomazia di Giovanni che si raggiunse un accordo con gli Angioini siglato nel Castello Ursino di Catania l'8 novembre 1347 e che andava a chiudere quella che viene definita la seconda fase dei Vespri.
Tuttavia Giovanni contagiato dalla epidemia di peste perì ed il giustiziere Blasco II Alagona mal visto dal Parlamento siciliano non riuscì a far ratificare l'accordo. Così la guerra proseguì, con il debole regno di Sicilia nelle mani di Federico IV d'Aragona incalzato dall'esterno dagli angioini, che erano riusciti a riconquistare buona parte dell'isola e dall'interno dall'anarchia causata da vari e potenti signori ribelli. Nel 1349 Eleonora, figlia di Pietro II andava in sposa a Pietro IV d'Aragona in base ad un importante accordo che prevedeva la rinuncia della Spagna alle pretese sulla Sicilia. Una ulteriore ed importante svolta si ebbe nel 1356 quando il governatore di Messina, Niccolò Cesareo, in seguito a dissidi con Artale I Alagona, richiese rinforzi a Ludovico d'Angiò, che inviò il maresciallo Acciaiuoli.

Le truppe, assistite dal mare da ben cinque galee angioine saccheggiarono il territorio di Aci, assediando il castello. Proseguirono quindi in direzione di Catania cingendola d'assedio. Artale uscì con la flotta ed affrontò le galere angioine, affondandone due, requisendone una terza, e mettendo in fuga le truppe nemiche. La battaglia navale, che si svolse fra la borgata marinara catanese di Ognina ed il Castello di Aci, fu detta «Lo scacco di Ognina» e segnò una svolta definitiva a favore degli aragonesi nella guerra del Vespro.
Dallo Scacco di Ognina gli angioini non si sarebbero più ripresi tuttavia la guerra fra Sicilia e Napoli si trascinò sino al 20 agosto 1372 quando si concluse dopo ben novanta anni con il Trattato di Avignone firmato da Giovanna d'Angiò e Federico IV d'Aragona e con l'assenso di Papa Gregorio XI.

Anno del Signore 1283
Edoardo I d'Inghilterra "Gambelunghe" e (come si legge nella sua lapide, scritta in latino) "martello degli Scoti", epiteto che ottenne per aver conquistato il Galles e mantenuto la Scozia sotto la dominazione inglese (Westminster, 17 giugno 1239 – Cumberland, 7 luglio 1307), inizia nel Galles la costruzione dei castelli di Caernarfon, di Conwy e di Harlech, con lo scopo di creare un sistema difensivo contro le possibili rivolte dei gallesi.
Edoardo I fece costruire castelli e città fortificate nel Galles del nord per controllare l'area a seguito della sua conquista dei principati indipendenti del Galles, nel 1283. Llywelyn ap Gruffudd, principe di Galles, dopo aver rifiutato una mazzetta da mille sterline e una tenuta in Inghilterra se avesse arreso senza riserve la sua nazione al re d'Inghilterra, venne attirato in una trappola l'11 dicembre 1282, e messo a morte. Suo fratello Dafydd ap Gruffudd continuò la lotta per mantenere l'indipendenza, ma venne catturato sul Monte Bera, nelle uplands sopra Garth Celyn, nel giugno 1283.
Edoardo circondò Garth Celyn, la casa reale e il quartier generale della resistenza al dominio inglese con i castelli di Caernarfon e Conwy, e successivamente con il Castello di Beaumaris. L'altra fortezza dell'anello di ferro che accerchiava Snowdonia era il Castello di Harlech.
Iniziato nel 1283, dopo che Snowdonia -la patria di Gwynedd- era stata travolta da un grande esercito, il castello giunse all'incirca al suo stato attuale nel 1323. Non venne mai completato, e anche oggi in vari punti delle mura interne sono visibili diversi raccordi pronti ad accogliere ulteriori muri che non vennero mai costruiti. Le registrazioni dell'epoca riportano che la costruzione del castello costò qualcosa come 22.000 sterline – una somma enorme all'epoca, equivalente a più di un anno di entrate della tesoreria reale. Il disegno lineare è sofisticato in confronto ai castelli britannici precedenti, e si dice che le mura siano state modellate su quelle di Costantinopoli, essendo stato Edoardo un crociato. Il castello domina lo stretto di Menai.
Nella insurrezione del 1294–1295, Caernarfon fu assediato, ma la guarnigione, rifornita dal mare, tenne duro fino a quando non venne soccorsa nella primavera del 1295. Nel 1403 e 1404 resistette all'assedio delle forze di Owain Glynd?r. Durante la guerra civile inglese le forze realiste si arresero a quelle parlamentariste nel 1646.

Anno del Signore 1284
Nei pressi dell'isola della Meloria, nelle acque antistanti Livorno, la flotta genovese sconfigge quella pisana e ottiene il controllo assoluto del Mediterraneo occidentale.
Dopo i grandi contrasti verificatisi nei secoli precedenti tra la Repubblica di Genova e la repubblica marinara di Pisa, l'occasione per lo scontro definitivo avvenne nel 1284. Parte della flotta genovese era ormeggiata presso Porto Torres, in Sardegna, allora territorio conteso tra le due repubbliche.
Il piano dei pisani era di colpire in netta superiorità (settantadue galee) la flotta ligure per poi affrontare la rimanenza e chiudere per sempre il conto con i genovesi.
Benedetto Zaccaria, futuro doge di Genova, che comandava quella parte di flotta (venti galee), eluse lo scontro, fingendo una ritirata verso il Mar Ligure. La flotta pisana lo incalzò, ma fu raggiunta dalla restante parte della flotta genovese (68 galee), e ripiegò verso Porto Pisano, non senza lanciare una provocazione ai genovesi, sotto forma di una pioggia di frecce d'argento.
La flotta della Repubblica di Genova raccolse la sfida, e il giorno 6 agosto 1284, giorno di San Sisto, patrono di Pisa (che da quel giorno non fu più festeggiato) salpò verso Porto Pisano.
L'ammiraglio genovese Oberto Doria, imbarcato sulla San Matteo, la galea di famiglia, guidava una prima linea di 63 galee da guerra composta da otto "Compagne" (antico raggruppamento dei quartieri di Genova): Castello, Macagnana, Piazzalunga e San Lorenzo, schierate sulla sinistra (più alcune galee al comando di Oberto Spinola), e Porta, Borgo, Porta Nuova e Soziglia posizionate sulla destra.
Benedetto Zaccaria, comandava invece una squadra di trenta galee, lasciate volutamente in disparte per prendere di sorpresa la flotta pisana. Parte di essa era ormeggiata dentro Porto Pisano, mentre un'altra parte sostava poco fuori dal porto.
Si narra che durante la tradizionale benedizione delle navi, la croce d'argento del Bastone dell'Arcivescovo di Pisa, si staccò. I pisani non si curarono di questa premonizione negativa: dopotutto era il giorno del loro patrono, San Sisto, anniversario di tante gloriose vittorie, e quella era un'ottima occasione per eliminare definitivamente i genovesi: contando 63 legni genovesi, i pisani forti di 9 navi in più decisero di uscire dal porto.
Secondo le consuetudini del Governo Potestale, i pisani avevano scelto un forestiero come Podestà, Morosini da Venezia. I Veneziani com'è noto erano da sempre in rivalità contro Genova, ma in questo frangente avevano rifiutato l'appoggio alla repubblica toscana. Assistevano il Morosini: il Conte Ugolino della Gherardesca (celebre perché cantato da Dante nel XXXIII canto dell'Inferno nella Divina Commedia) e Andreotto Saraceno.
I Pisani dopo una prima esitazione, decisero di attaccare la flotta genovese e si lanciarono sulla prima linea. Entrambe le flotte erano in formazione a falcata ovvero a mezzo arco. Lo scontro era dunque frontale. I famosi balestrieri genovesi, al riparo dietro le loro pavesate, tiravano contro i legni pisani, mentre questi tentavano, secondo le tattiche dell'epoca, di speronare le navi con il rostro per poi abbordarle. Qualora l'abbordaggio non avesse luogo, gli equipaggi si colpivano con ogni sorta di munizione scagliata da macchine belliche o dalle nude mani, come sassi, pece bollente e addirittura calce in polvere.
Le sorti della battaglia furono decise dopo ore dai trenta legni dello Zaccaria, che piombarono sul fianco pisano, colto completamente impreparato dalla manovra, ed ignaro della stessa esistenza di quelle galee: fu uno sfacelo di legno, corpi e sangue. Dell'intera flotta pisana, solo venti galee, quelle comandate dal Conte Ugolino, si salvarono. L'accusa di vigliaccheria, se non di tradimento, non impedirà al conte di conquistare la signoria de facto e di restare al vertice del governo della città fino alla sua deposizione (1288) ed alla celebre morte per inedia (1289).
Alcuni storici riferiscono che il contingente di rinforzo genovese fosse nascosto dietro l'isolotto della Meloria (allora un basso scoglio sopra il livello del mare), ma si tratta probabilmente di un fraintendimento, dato che una squadra navale, anche piccola, non avrebbe assolutamente potuto evitare di essere visto. Secondo un'altra ipotesi le navi sarebbero state in realtà nascoste alla fonda di un'isola dell'arcipelago.
Un'altra ragione della sconfitta pisana deve essere individuata nell'ormai obsoleto armamento navale e individuale; le navi pisane, più vecchie e più pesanti, imbarcavano anche truppe armate con armature complete, nonostante la calura agostana, e durante la lunghissima battaglia i genovesi, muniti di armature ridotte e più leggere ne furono chiaramente avvantaggiati.
Tra i cinque e i seimila furono i morti, e quasi undicimila furono i prigionieri tra cui proprio il podestà Morosini, che fu portato con gli altri a Genova nel quartiere che da allora si sarebbe chiamato "Campo Pisano" (da qui nacque il detto "Chi vuol vedere Pisa, vada a Genova"). Tra i prigionieri anche l'illustre Rustichello che aiutò Marco Polo a scrivere il suo Milione, nelle prigioni genovesi. Solo un migliaio di prigionieri pisani tornò a casa dopo tredici anni di prigionia. Gli altri morirono tutti e sono sepolti sotto il quartiere genovese che tristemente porta ancora il loro nome.
Pisa firmò la pace con Genova nel 1288, ma non la rispettò: fatto che costrinse Genova ad un'ultima dimostrazione di forza. Nel 1290, Corrado Doria, salpò con alcune galee verso Porto Pisano, trovando il suo accesso sbarrato da una grossa catena. Fu il fabbro Noceto Ciarli (il cognome è spesso riportato anche come Chiarli) ad avere l'idea di accendere un fuoco sotto di essa per renderla incandescente in modo da spezzarla con il peso delle navi. Il porto fu raso al suolo e sulle sue rovine fu sparso il sale, come accadde per Cartagine ai tempi di Scipione.
Con questo evento e, con la definitiva presa della Sardegna pisana da parte Aragonese nel 1324, il potere sul mare di Pisa si spense definitivamente. Nel 1406 la città fu infine assoggettata da Firenze.
Le catene del porto di Pisa furono appese come monito a Porta Soprana a Genova, e sono state restituite dai genovesi a Pisa dopo l'Unità d'Italia. Sono attualmente conservate nel Camposanto Monumentale.
A Venezia viene coniato per la prima volta il ducato d'oro. Il ducato d'oro era una moneta pari al bisante di Firenze, emesso per la prima volta dal doge Giovanni Dandolo (1280-1288) e che in seguito prese il nome di zecchino. Il ducato d'oro di Venezia valeva 2 lire veneziane e 8 soldi. Il ducato veneziano presentava al dritto il Doge che si inginocchia davanti a San Marco ed al verso Gesù Cristo dentro la "mandorla" con attorno l'iscrizione Sit tibi Christe datus quem tu regis iste ducatus. Pesava 3,44 g a 24 K.
Fu emesso con la stessa quantità di intrinseco e con gli stessi tipi fino alla caduta della Repubblica. Il nome di ducato fu preso anche da altre monete simili, emesse da altre autorità: ducato papale, dell'Impero, di Milano, Rodi, Savoia, Urbino.
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Anno del Signore 1285
Una novità assoluta si sta rapidamente diffondendo in ambito ludico: le carte, destinate a un brillante successo, rappresentano nel settore l'unica vera innovazione del secolo. Si tratta di una serie di cartoncini ornati di segnum, impiegabili in vari giochi.
Duccio di Buoninsegna (Siena, 1255 – 1318), tradizionalmente indicato come il primo maestro della scuola senese esegue la Madonna Rucellai.
L'arte di Duccio aveva una solida componente bizantina, legata in particolare alla cultura più recente del periodo paleologo, e una notevole conoscenza di Cimabue, alle quali va aggiunta una rielaborazione personale in senso gotico, inteso come linearismo ed eleganza transalpini. Da Cimabue riprese l'impostazione delle figure monumentali e malinconiche, rendendole però con una linea morbida e una raffinata gamma cromatica. Non si aggiornò mai alla cultura tardo-antica, come fece Giotto, ma fece suoi i modelli orientali e nordici che aveva molto probabilmente avuto modo di vedere in opere trasportabili che facilmente circolavano in Toscana, quali codici miniati, libri di modelli, mosaici portatili, icone, avori ed oreficerie. Col tempo lo stile di Duccio raggiunse esiti di sempre maggiore naturalezza e morbidezza.
Duccio, figlio di Buoninsegna, nacque probabilmente poco oltre la metà del Duecento. Il primo documento su di lui è del novembre 1278, quando venne pagato per dodici casse dipinte destinate a contenere documenti del Comune di Siena (opere perdute). Successivamente lo si ritrova citato in documenti che parlano di decorazioni di registri pubblici, anche questi andati perduti.
Il 15 aprile 1285 gli venne commissionata la cosiddetta Madonna Rucellai, dalla Compagnia dei Laudesi per la chiesa di Santa Maria Novella a Firenze, ora agli Uffizi. Venne detta "Rucellai" perché venne collocata nella cappella della famiglia Rucellai. In questa opera è raffigurata la Madonna col Bambino in maestà, fiancheggiati da sei angeli. L'opera si ispira alla Maestà del Louvre di Cimabue, dipinta circa 5 anni prima, tanto che a lungo venne creduta un'opera di Cimabue e tale errata attribuzione fu sostenuta a lungo, anche dopo il ritrovamento del documento di allogazione (1790). Questa "maestà" è un'opera chiave nel percorso dell'artista, dove la solida maestosità e l'umana rappresentazione di Cimabue viene incrociata con una maggiore aristocraticità, con un contenuto umano ancora più dolce. Inoltre vi immise un nervoso ritmo lineare, come sottolineato dal capriccioso orlo dorato della veste di Maria che disegna una complessa linea dal petto fino ai piedi.

Anno del Signore 1286
Dall'Italia settentrionale giungono notizie di studiosi capaci di inserire lenti di vetro all'interno di una montatura metallica da appoggiare al naso. Pare che queste lenti siano sagomate in modo tale da correggere la vista di chi non riesce a vedere come gli altri. Gli esteti già dibattono se indossare tali oggetti sia un motivo di vanto o di derisione.
Muore Guglielmo di Moerbeke (Willem van Moerbeke) (Moerbeke, circa 1215 – 1286) traduttore fiammingo.
Vissuto tra il 1215 circa e il 1286, grande conoscitore della lingua greca, Guglielmo di Moerbeke fu una figura di profondo spessore culturale. Ebbe modo di confrontarsi con le più importanti menti del suo tempo, fu il traduttore di testi medici, filosofici e scientifici dal greco al latino. Le sue traduzioni furono fondamentali, in un'epoca nella quale i traduttori di buona fatta erano rari e, soprattutto, hanno il pregio di essere sopravvissute fino a noi. Nato probabilmente a Moerbeke, presso Geraardsbergen nel Brabante, divenne domenicano, forse nel convento di Lovanio. Studiò a Parigi e a Colonia. Soggiornò in Grecia e viaggiò in Asia Minore. Nel 1260 fu a Nicea e a Tebe, quindi presso la curia pontificia a Viterbo e ad Orvieto ed ebbe l'incarico di penitenziere e cappellano del papa sotto Urbano IV e Clemente IV. Nel 1272, Gregorio X gli affidò legazioni diplomatiche. Partecipò al concilio Laterano IV e nel 1278 venne eletto arcivescovo di Corinto. Fu in contatto con molti scienziati dell'epoca, come Witelo, Enrico Bate, Campano, Rosello di Arezzo, e in particolare collaborò con Tommaso d'Aquino, da cui ebbe l'incarico di redigere o di correggere la traduzione di molte opere aristoteliche, di interesse anche scientifico, quali la Physica, il De generatione animalium, il De partibus animalium, il De coelo et mundo (con il relativo commento di Alessandro di Afrodisia), le Meteore (con il commento di Alessandro). Tradusse anche numerose opere di Archimede, opere di ingegneria (come il De aquarum conductis et ingeniis erigendis di Erone Alessandrino) e opere di medicina (come il De virtutibus alimentorum di Galeno, traduzione conclusa a Viterbo, presso la curia papale, nell'ottobre del 1277). Guglielmo di Moerbeke fu il primo traduttore della Politica di Aristotele. La ragione della richiesta di traduzione avanzata da Tommaso (il quale, a differenza di Guglielmo, non conosceva il greco) era l'utilizzo fuorviante e mistificante che dei testi di Aristotele facevano gli averroisti, autori delle dette traduzioni latine, che, partite dalla Spagna, venivano tradotte in Siriaco e poi in Arabo. Già nel XIV secolo erano testi classici ed accettati, quando Henricus Hervodius ne dichiarò il loro valore imperituro: erano letterali (de verbo in verbo), fedeli allo spirito aristotelico e senza troppa eleganza. A causa di numerose traduzioni di Guglielmo, molti originali greci sono scomparsi, o meglio hanno assunto nuova forma, mescolandosi col pensiero di Guglielmo: ma al tempo stesso, senza di lui parecchie opere sarebbero andate irrimediabilmente perse. Nel Nome della rosa di Umberto Eco, Guglielmo di Baskerville sa che la Poetica di Aristotele che Jorge tiene nascosta è stata tradotta da Guglielmo di Moerbeke. Guglielmo tradusse anche opere di Archimede e di Erone di Alessandria. Particolarmente importante fu la traduzione degli Elementi di teologia di Proco, poiché si trattò di una delle fonti essenziali del neoplatonismo duecentesco. La Biblioteca Vaticana conserva le traduzioni di Archimede con commento di Eutoco, composte nel 1269 a Viterbo. Guglielmo consultò due dei migliori manoscritti greci di Archimede, entrambi andati persi.

{AD1287_TITLE}Anno del Signore 1287
{AD1287_BODY}Fra' Salimbene de Adam da Parma (Parma, 9 ottobre 1221 – Montefalcone, 1288) porta a termine la sua opera storica, la Cronica, scritta in latino ma con molti richiami in volgare.
Dalla sua Cronica si apprende che entrò nell'ordine dei Francescani nel 1238, contro la volontà del padre, e iniziò a vagabondare tra i conventi di Firenze, Ravenna, Reggio, Lucca e Parma. Da qui, nel 1247, essendo ancora Parma assediata dalle forze imperiali, fu mandato in Francia a studiare. Durante il viaggio si fermò a Lione, sede della corte pontificia, dove incontrò Innocenzo IV (in Italia aveva già conosciuto l'imperatore Federico II). In Francia fece anche la conoscenza di fra' Ugo da Digne, noto gioachimita, che lo avvicinò alla dottrina dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore. Rientrato in Italia, gli fu assegnata la sede di Ferrara, dove rimase per sette anni.
Di Salimbene de Adam ci è giunta solo una copia, parzialmente mutila, della sua Cronica, scritta in un latino che spesso muta in volgare, ricchissima di racconti e notizie, tanto da farne una delle fonti storiche più interessanti per il secolo XIII. L'autore attinse largamente dalla Cronica Universalis del Sicardo, di poco precedente.
Si tratta di una cronaca della vita religiosa e politica italiana dei 120 anni che vanno dal 1168 al 1287, scritta con uno stile molto personale, dal quale traspaiono le caratteristiche di un autore complesso e multiforme: colto e vicino al volgo, spirituale e focoso, attento alla storia e cultore della Bibbia. Diversi dettagli rivelano le sue conoscenza contadine: ad esempio la calura che danneggia il frumento, o i frutti dei mandorli in Provenza quando a Genova stanno ancora fiorendo.
È un'opera tanto viva quanto storicamente importante: restituisce in modo vivido il flagello delle guerre nello scontro tra Chiesa ed Impero, tratteggia le figure di papi e cardinali come di donne e popolani, mendicanti e profeti, tutti visti da lui da vicino.
Quest'opera è anche la principale fonte per costruire la biografia del suo autore, che in essa parla con dovizia di particolari della propria vita e delle opere da lui scritte, che tuttavia non ci sono giunte.
Tra queste vi erano i "XII scelera Friderici imperatoris", opera che doveva avere carattere polemico, essendo servita anche come opuscolo di propaganda antimperiale, dopo la sconfitta di Vittoria nel 1248. Nella stessa Cronica Federico II è dipinto come uomo avaro, che combatté la Chiesa solo perché voleva impadronirsi dei beni ecclesiastici.
La Chronica salimbeniana presenta Federico II nelle primissime pagine, con diretto riferimento all’immagine ed all’opera del Pontefice che gli aveva fatto da tutore: «...Innocenzo III fu un uomo probo e forte. Diceva che gli appartenevano le due spade, e cioè quella spirituale e quella temporale. [...] ...E costituì imperatore il suo pupillo Federico, che nominò figlio della Chiesa». Ma il lettore non può restare nell’illusione che sia esistita una situazione di idilliaco accordo tra Sacerdotium ed Imperium; anzi, deve conoscere in tutta la sua crudezza il disagio, religioso ed istituzionale, presente in Italia a causa di «…Federico, figlio di Enrico. Questi fece leggi ottime per la libertà della Chiesa e contro gli eretici. Egli superò tutti per ricchezza e gloria, ma abusò per superbia di queste cose. Infatti si comportò da tiranno verso la Chiesa…».
Bene e male; anzi, più male che bene; ma scorrono pochissime pagine, e Federico appare definitivamente investito da un’invettiva violenta, che non lascia dubbi: egli fu «…un uomo pestifero e maledetto, scismatico, eretico ed epicureo, corruttore di tutta la terra, giacché seminò il seme della divisione e della discordia nelle città d’Italia, tanto che dura fino ad oggi, in modo che, secondo le parole del profeta Ezechiele 18, ”i figli possono lamentarsi dei padri. I padri hanno mangiato l’uva acerba e si allegano i denti dei figli”. E anche lo ripete Geremia nell’ultima delle Lamentazioni: “I nostri padri peccarono e poi sono morti, e noi abbiamo portato le loro iniquità”. Pertanto sembra verificata in Federico quella profezia dell’abate Gioacchino [da Fiore], che all’imperatore Enrico suo padre (il quale chiedeva cosa sarebbe diventato nel futuro il figlio) rispose: “Perverso il tuo bambino! Cattivo il tuo figlio ed erede! Oh, Dio! Sconvolgerà il mondo e calpesterà i santi di Dio”. Nello stesso modo si attaglia a Federico quello che il Signore disse di Assur, ossia di Sennacherib, a mezzo di Isaia, 10: “il suo cuore era per l’annientamento e lo sterminio di non poche nazioni”. Tutto questo si compì in Federico, come abbiamo visto coi nostri occhi…».
Evidentemente, il frate intende subito affermare la propria posizione politica e morale. Pur scrivendo, come lui stesso dichiara, nel 1283, quando le lotte fra Papato ed Impero svevo erano ormai un ricordo, non vuole ingannare il lettore e soprattutto deve creare le premesse per la condanna di Federico II. Pertanto, documenta meglio le affermazioni, con chiaro riferimento all’invasione dei domini pontifici da parte dell’esercito tedesco del 1240 ed alla battaglia della Meloria dell’anno successivo: «…Così il patrimonio di San Pietro fu quasi tutto occupato dal predetto imperatore Federico; e a causa dello stesso imperatore molti prelati, anche cardinali, corsero pericolo tanto in terra quanto in mare».
Salimbene è la principale fonte cui risale il dubbio sulla paternità di Federico II, quando afferma che «…Jesi è la città natale dove è nato l’imperatore Federico. E si divulgò la notizia che fosse figlio di un beccaio di Jesi: per il fatto che la donna Costanza imperatrice era molto anziana quando l’imperatore Enrico la sposò, e, come si dice, oltre questo non ebbe altro figlio o figlia. Per il quale motivo, si sparse la voce che, ricevutolo dal padre vero dopo aver simulato la gravidanza, se lo pose sotto le vesti per farlo credere partorito da lei...».
Non è facile interpretare questa notizia, peraltro successivamente smentita da altre fonti ed inoppugnabili considerazioni. Essa può essere stata il mero frutto della fantasia popolare, o una falsa informazione diffusa ad arte per finalità politiche: il desiderio di screditare la dinastia sveva, forse la premessa per poter impugnare la legittimità della successione. Il prosieguo della vicenda parrebbe far propendere per la prima ipotesi, dato che nessuno ha mai dato interessato seguito alla malevola illazione: nemmeno Gregorio IX, che nella nota lettera enciclica Ascendit de mari non avrebbe trascurato un simile succoso argomento, evitando di lanciare generiche quanto ineleganti invettive.
Salimbene non si dilunga sui particolari politici, militari ed organizzativi che hanno caratterizzato la Crociata degli Scomunicati. Ad un frate lombardo del ’200 sia pur colto, abituato a viaggiare, la spedizione nel lontano Oriente appariva forse un evento difficilmente penetrabile, non era un fatto di cronaca alla sua portata. Ciò non lo esime però dal condannare senza appello il comportamento di Federico II in Palestina, inutile per certi versi, dannoso per altri: «…Avendolo infatti mandato la Chiesa oltremare per recuperare la Terra Santa, egli fece pace con i Saraceni senza alcun vantaggio per i Cristiani. E per di più fece invocare il nome di Maometto pubblicamente nel tempio dei Signore…».
Nello spesso periodo, era più affine alla sua mentalità la lotta tra Papato ed Impero che si svolgeva più vicino, in territorio italiano, e di già difficile interpretazione. Così, informa sul «…[ il tentativo della Chiesa] di togliergli [a Federico] il Regno delle Due Sicilie…» alludendo chiaramente alla fallita invasione dei territori svevi da parte delle milizie pontificie nel 1237, mentre l’Imperatore si trovava in Palestina. L’intervento è oggi generalmente considerato una delle peggiori e vili iniziative concepite dalla diplomazia pontificia, la prova che per lei la Crociata era solo il pretesto per allontanare l’Imperatore ed allungare facilmente le mani sui suoi possedimenti. Ma anche allora l’episodio doveva apparire censurabile, almeno agli occhi degli osservatori più attenti, capaci di valutazioni autonome; tant’è che Salimbene, fedele al proprio ruolo, si affretta a fornire una propria giustificazione dei fatti, ed afferma che «…questo non avveniva senza sua colpa [di Federico]». Il motivo? Semplice: i peccati commessi proprio in occasione della Crociata.
Salimbene tratta a lungo la terza e definitiva scomunica di Federico II, decretata nel 1245 a conclusione del concilio di Lione; ma dimostra di non voler inveire oltre modo contro l’Imperatore ormai perdente. Siamo in presenza di osservazioni di parte ma piuttosto pacate, insolitamente oggettive, pur nella significatività dell’evento. «Nell’anno del Signore 1245 [...] Federico II imperatore fu deposto dall’Impero da papa Innocenzo IV, nell’assemblea generale del concilio radunato a Lione, città della Francia. Per la qual causa il detto imperatore esiliò da Parma e da Reggio, senza eccezione, tutti gli amici più stretti del detto papa... ». (699) Ed ancora: «...In quell’anno [1245] papa Innocenzo IV stava a Lione, sul Rodano, con la curia e i cardinali; il quale privò dell’Impero, scomunicò e depose l’imperatore Federico. E il detto imperatore mise al bando il papa e i cardinali e anche i legati».
Quando passa a commentare l’inevitabile reazione di Federico, il cronista mostra sulle prime di voler addirittura comprendere il suo dolore, paragonandolo a quello che deriva dalla violazione di un sentimento materno. «Or dunque Federico imperatore, essendo stato deposto dall’Impero dal papa Innocenzo IV nel 1245, era inasprito d’animo, come un’orsa inferocita nel bosco perché le hanno rapito i cuccioli. [...] Ma ascolta quanto dice il sapiente nei Proverbi 17: “Meglio incontrare un’orsa privata dei figli che uno stolto in preda alla follia”». Solo alla fine, ricorda di doversi associare alla condanna emessa per diretta volontà dal Pontefice. Egli conosce bene i tremendi capi d’accusa rivolti all’Imperatore ed il contenuto dell’inelegante pamphlet Eger cui venia, improvvisato in ambiente curiale per giustificare alle potenze cristiane ed ai fedeli i motivi di un provvedimento quanto meno oscuro. Ma rinuncia a mutuare da argomentazioni calunniose, prive di sostanza, preferendo da quel momento ripetere alla noia che Federico II aveva tradito la Chiesa, ingrato dopo essere stato allevato e protetto nel suo seno.
In questo senso, fra le tante denunce di cui è disseminata la Chronica, una in particolare rappresenta la sobria versione dell’invettiva con la quale Innocenzo IV, pazzo di furore contro l’Imperatore e la dinastia sveva, incitava ad «estirpare il nome di questo babilonese e quanto di lui possa rimanere, i suoi discendenti, il suo seme…». Recita Salimbene: «Quale fu Federico, che non riconobbe i benefici ricevuti dalla Chiesa, e anzi perseguitò in modo asperrimo e crudele la stessa Chiesa romana. Ma non impunemente, perché, come è detto in Giobbe 24 “Le anime dei feriti gridano, e Dio non permette che si allontani l’invendicato”. Per questo dice il sapiente nei Proverbi 17: “Chi rende male per bene vedrà sempre la sventura nella sua casa”». «…il che si è verificato in Federico, la cui casata è andata completamente distrutta. Per questo dice Giobbe 18: “Il suo ricordo sparisca dalla terra e il suo nome più non si oda sulle piazze. Dio lo getti dalla luce nel buio e lo stermini dal mondo. Non la famiglia, non discendenza avrà nel suo popolo, non superstiti nei luoghi della sua sventura…”».
A margine del processo celebrato contro l’imperatore, Salimbene indugia sul ruolo politico che lui stesso ebbe la possibilità di svolgere a Lione, accolto nella ristretta cerchia dei consiglieri pontifici. Ne parla in vari punti tra cui: «...Mentre la mia città era assediata dall’imperatore deposto, uscii da Parma e andai a Lione. E saputolo, il papa mandò a cercarmi subito il giorno della festa di Ognissanti. Dal giorno infatti che io ero partito da Parma fino al giorno che ero arrivato a Lione, il papa non aveva avuto notizie da Parma: né notizie sicure né voci vaghe, ed era in attesa dell’esito della vicenda. E avendo io parlato in camera sua familiarmente con lui da solo a solo, mentre parlando ci dicemmo vicendevolmente molte cose, egli mi assolse di tutti i miei peccati...».
Salimbene commenta con un certo affetto, misto a campanilismo, l’assedio portato a Parma dall’esercito imperiale: «Nell’anno dei Signore 1247 il già deposto imperatore Federico perdette Parma, sul finire di giugno. Questa è la mia città, della quale cioè sono oriundo; e l’assediò dal mese di giugno [1247] al mese di febbraio [1248]».
Ovviamente non cela le sue preferenze per le forze guelfe poste a difesa della città e sottolinea da par suo le presunte atrocità commesse dalle truppe sveve. «E l’imperatore aveva stabilito di distruggere fin dalle fondamenta la città di Parma e di trasferirla nella città di Vittoria che aveva costruito; ed anche di seminare in segno di perpetuo annientamento il sale su Parma rasa al suolo».
Qui è soprattutto nato il mito di Vittoria che la letteratura guelfa, sempre pronta ad ingigantire le iniziative nemiche per far emergere l’eroismo delle comunità fedeli, ha descritto come una città strutturata, dotata di mura di cinta, ville, palazzi, tali da farne la futura capitale dell’Impero nel regno d’Italia. In realtà, essa era un accampamento costruito con capanne di legno e frasche, congeniale alla corte itinerante dove Federico II esercitava le funzioni giurisdizionali e di governo ed ospitava il consueto seguito di sacerdoti, consiglieri, odalische, attori, animali...
Ed ancora: «...l’imperatore ogni mattina arrivava coi suoi e nel letto del fiume Parma faceva tagliare la testa a tre o quattro o anche a più, come gli pareva, dei suoi prigionieri [...] in modo che e i Parmigiani che erano in città vedessero e si demoralizzassero...». L’episodio citato ha tutte le caratteristiche per essere vero; ed appare come una delle tante provocazioni militari, in un secolo che ha visto consumare le più orrende rappresaglie.
Simili notizie contribuirono comunque ad accentuare la mobilitazione degli assediati, se la Chronica prosegue: «...Conoscendo questo, le donne di Parma — soprattutto le ricche e nobili e potenti — andarono tutte a pregare la beata vergine che liberasse del tutto la loro città da Federico e dagli altri nemici, a motivo che i Parmigiani tenevano in grande riverenza il nome di lei, come titolare della chiesa matrice». Con il richiamo alle donne ricche e nobili e potenti, il cronista pare voler conferire all’evento una connotazione elitaria, maturata negli ambienti elevati della città, cari alla cultura borghese del Comune. E poi, è chiaro che le nobildonne dovevano contribuire a costruire la vittoria con le preghiere, mentre alle donne del popolo spettava di impugnare le armi.
La sconfitta di Parma inferse a Federico II un colpo micidiale; di converso, fu un tonico per il morale dei partigiani guelfi e rilanciò le sorti della politica papista. Per celebrare l’avvenimento, Salimbene sfodera le sue più raffinate conoscenze bibliche, che nel caso specifico possiedono un elevato significato simbolico. «Tutti i Parmigiani e tutti i cavalieri e i popolani armati e addestrati per il combattimento, sortirono da Parma, e le donne uscirono con loro; similmente i bambini e le bambine, gli adolescenti e le ragazze, i vecchi con i giovani (Salmi, 148,12); e con grande impeto scacciarono da Vittoria l’imperatore con tutti i suoi cavalieri e fanti».
Da esperto cronista, Salimbene indugia con dovizia di particolari sugli episodi spiccioli che seguirono la distruzione di Vittoria. «...I Parmigiani portarono via all’imperatore tutto il suo tesoro, che era ricco assai, e comprendeva oro, argento, pietre preziose, vasi e vestimenti; e si impossessarono [...] anche della corona imperiale, che era di grande peso e valore, tutta d’oro e tempestata di pietre preziose, con molte figure in rilievo lavorate, che sembravano cesellature. Era grande come un’olla. [...] Io l’ho tenuta nelle mie mani, perché si conservava nella sagrestia della cattedrale di Parma...». «È da sapere anche che molti tesori in oro e in argento e pietre preziose rimasero sotterrati dentro orci, loculi e tombe proprio nel posto dove era la città di Vittoria, e sono ivi ancora al giorno d’oggi, ma non se ne conoscono i nascondigli. [...] ...Quando i mercanti comprarono dai parmigiani il tesoro trovato in Vittoria, si adempì quanto si legge nei Proverbi 20: “È robaccia! È robaccia!” dice ogni compratore; ma quando se ne parte si vanta [di aver fatto l’affare]».
La sconfitta di Federico II a Parma fu naturalmente accolta con gioia in ambiente minorita. «…Un giorno che stavo ammalato in infermeria […] corsero da me alcuni frati francesi del convento con una lettera, dicendo: ”Abbiamo eccellenti notizie da Parma. I Parmigiani hanno cacciato il fu imperatore Federico dalla sua città di Vittoria, da lui costruita… […] Questa è una copia della lettera che i Parmigiani hanno mandato a Lione dal Papa».
Salimbene giudica in modo severo il carattere di Federico che «…non è mai stato amico di nessuno. È facile cominciare un’amicizia, ma per conservarla ci vuole un gran riguardo». «La qual cosa Federico non sapeva fare, a causa della sua meschinità e della sua avarizia; infatti finiva sempre per avvilire tutti i suoi amici e li confondeva e uccideva per arraffarne i denari, i possedimenti, il patrimonio e approvvigionarsene per sé e per i suoi figli. E dunque, nel periodo del bisogno, degli amici ne trovò pochi…».
Quando elenca «dodici disavventure di Federico che fu già imperatore» — in realtà un accostamento di fatti e di comportamenti — Salimbene cita tra le prime «…il fatto che volle mettersi sotto i piedi la Chiesa, al punto che tanto il papa quanto i cardinali diventassero poveri e camminassero a piedi. E questo non lo faceva per zelo del Signore, ma perché non era un buon cattolico. E anche perché […] voleva impossessarsi delle ricchezze e dei tesori della Chiesa…».
Salimbene si diffonde nell’accusare Federico II di stranezze: in realtà alcune delle ingenue sperimentazioni che hanno lastricato le difficili vie del progresso quando questo si accingeva a diventare scientifico. Ma ciò non gli impedisce di sottolinearne alcune virtù: «E fu un uomo valente qualche volta, quando volle dimostrare le sue buone qualità e cortesie: sollazzevole, allegro, delizioso, industre. Sapeva leggere, scrivere e cantare; sapeva comporre cantilene e canzoni. Fu bell’uomo e ben formato, ma era di statura media…». «Ancora sapeva parlare molte e svariate lingue». Significativa appare una frase, che dimostra la presenza di un sentimento che va oltre il semplice, distaccato apprezzamento culturale e professionale: «…e io lo vidi, e una volta gli volli bene».
Ben più severo appare Salimbene quando giudica il comportamento politico dell’Imperatore, che considera senza mezzi termini l’inizio di tutti i mali che tormenteranno l’Italia. «Pertanto, tutte le fazioni e scissioni e divisioni e maledizioni tanto in Toscana quanto in Lombardia, quanto in Romagna, quanto nella marca d’Ancona, quanto nella marca trevigiana, quanto in tutta Italia le provocò Federico, che una volta fu chiamato imperatore. E di conseguenza fu punito molto bene, perché […] fu compiutamente punito nell’anima e nel corpo». «Per di più, anche i prìncipi del suo regno, che aveva elevato dal nulla e aveva esaltato dalla polvere, […] non gli restarono fedeli e lo tradirono. […] Lo stesso fecero a lui i prìncipi di cui abbiamo fatto menzione sopra. Ma essi pure furono puniti, non perché abbandonarono Federico avendolo conosciuto come un uomo malvagio, ma perché commisero molti peccati». «Dunque Federico II seminò in Italia queste fazioni, queste divisioni, queste maledizioni che durano ancora; e non possono né finire né terminare a causa della cattiveria degli uomini e per la malvagità del demonio, che si definisce il nemico dell’uomo…».
Si è visto come la morte di Federico II sia stata accolta con soddisfazione in ambiente francescano. Ma appaiono inquietanti alcune affermazioni di Salimbene, che rivestono l’avvenimento di valenze arcane: «Io stesso per molti anni avrei stentato a credere che fosse morto, se non lo avessi sentito con le mie orecchie, dalla bocca stessa di Innocenzo IV […] quando, predicando, disse: “ Quel messere che una volta fu imperatore, avversario nostro e di Dio e nemico della Chiesa, è morto, come con certezza ci è stato comunicato”». E prosegue, mostrando un vissuto degli avvenimenti comprensibile solo immedesimandosi nella mentalità profetica radicata negli ambienti minoriti più spirituali: «...Il sentire questo mi riempì di stupore e a stento potei crederlo. Ero infatti gioachimita e credevo e attendevo e speravo che Federico fosse per fare mali maggiori di quelli che aveva già fatto, per quanto ne avesse già fatti molti…».
Ancorché scritta dopo la conclusione degli eventi narrati — Corradino, l’ultimo degli Svevi, era morto proprio nel 1268, l’anno in cui presumibilmente Salimbene iniziava a raccontare — la Chronica, come poche opere medievali, rispecchia la partigianeria tipica della società italiana, presso la quale stenta ad affermarsi il perdono cristiano, meglio un più maturo senso di comprensione.
Eppure, alcune considerazioni espresse in modo particolarmente chiaro, spontaneo, dimostrano che il giudizio personale del frate era di critica severa, spesso di contrapposizione verso l’Imperatore, ma anche di apprezzamento per alcune sue evidenti peculiarità, mai di odio; anzi, la propaganda papale non era riuscita a celarne le indubbie virtù. «…Si deve sapere che Federico non fu crudele come Ezzelino da Romano; ebbe molti detrattori e molti che gli tesero insidie […] volendolo uccidere, specialmente in Puglia e Sicilia e anche in tutto il regno». Ed ancora: egli «…non fu, in assoluto, il martello dell’orbe, per quanto fu artefice di molti mali…». «E, per farla corta, se fosse stato veramente cattolico e avesse amato Dio e la Chiesa e la propria anima, avrebbe avuto al mondo pochi uguali a lui nell’autorità».
Questi giudizi non ripropongono certamente la bestia dell’Apocalisse tratteggiata dal Papa Gregorio IX. Eloquente, in proposito, appare la frase del cronista parmense, che, con una punta di ironia, pone sullo stesso piano Papa ed Imperatore, uniti solo nell’intento di voler guerreggiare tra loro: «L’asen da la paré: botta dà, botta riceve, che è come dire: quando recalcitra l’asino scalcia contro la parete, ma una botta dà e una riceve. Un vecchio proverbio che la saggezza popolare attribuiva al papa e all’imperatore: Gregorio IX e Federico II, in quel tempo in discordia tra loro».

Anno del Signore 1288
L'arcivescovo Ruggeri si impadronisce di Pisa, deponendo il Conte Ugolino della Gherardesca (Pisa, circa 1220 – Pisa, marzo 1289), il quale viene rinchiuso in una torre con i suoi figli, dove vi morirà di fame l'anno successivo.
Ugolino nacque a Pisa da una famiglia di origine sarda, i della Gherardesca, che grazie alle connessioni con la casata degli Hohenstaufen godeva di possedimenti e titoli in quella regione (allora territorio della Repubblica di Pisa) e difendeva le posizioni dei ghibellini in Italia. Questo ben si adattava alle esigenze politiche di una città come Pisa, che storicamente appoggiava l'Impero contro il Papato.
Egli era però passato alla fazione guelfa grazie a una serie di frequentazioni e a un'amicizia profonda col ramo pisano dei Visconti, tanto che una delle sue figlie andò in sposa a Giovanni Visconti, Giudice di Gallura. Tra il 1271 e il 1274 guidò una serie di disordini contro il podestà imperiale ai quali partecipò lo stesso Visconti, e che finirono con l'arresto di Ugolino e l'esilio per Giovanni. Morto Giovanni nel 1275, Ugolino fu mandato in esilio – un confino terminato qualche anno dopo manu militari, grazie all'aiuto di Carlo I d'Angiò.
Nuovamente inserito nel tessuto politico pisano, fece valere la propria formazione diplomatica e bellica: nel 1284 era uno dei comandanti della flotta della repubblica marinara, e ottenne piccole vittorie militari contro Genova nella guerra per il controllo del Tirreno che era scoppiata quello stesso anno. Partecipò anche alla battaglia della Meloria del 1284, dove Pisa fu pesantemente sconfitta e in seguito alla quale perse territorio e influenza.
Secondo alcune testimonianze dell'epoca, durante la battaglia, Ugolino non riuscì a concludere alcune manovre navali, in particolare il ritiro di alcuni vascelli da una parte dello specchio d'acqua per rinforzarne altri: si convenne dunque che Ugolino stesse cercando di scappare con le forze a sua disposizione, e si generò il sospetto che fosse null'altro che un disertore, fermato più dal precipitare degli eventi che da un effettivo ripensamento.
Conclusa l'esperienza con la marina, e nonostante le accuse che gli venivano rivolte, Ugolino fu nominato prima podestà (1284) e poi capitano del popolo (1286) assieme al figlio di Giovanni Visconti, Nino. Egli ricopriva questa carica in un momento difficilissimo per la Repubblica: approfittando infatti della semi-distruzione della flotta pisana, Firenze e Lucca, tradizionalmente guelfe, attaccarono la città. Avere un vertice guelfo a capo di una città ghibellina avrebbe aumentato le possibilità di dialogo e smorzato i contrasti tra i governi, a patto di poter contare su una personalità forte.
Ugolino prese per prima cosa contatti con Firenze, che pacificò corrompendo, per mezzo delle sue cospicue amicizie, alcune alte cariche della città. In qualità di uomo più influente di Pisa prese poi contatti coi Lucchesi, che desideravano la cessione dei castelli di Asciano, Avane, Ripafratta e Viareggio; pur sapendo che per Pisa si trattava di una concessione troppo ampia, essendo tali piazzeforti una serie di punti chiave del sistema difensivo cittadino, acconsentì alle pretese di Lucca, e con questa convenne in segreto di lasciarle senza difesa. Alla conclusione dell'operazione, che fattivamente poneva fine al conflitto, Pisa manteneva il controllo delle sole fortezze di Motrone, Vico Pisano e Piombino.
I negoziati di pace con Genova non furono meno dolorosi: riguardo al fallimento delle trattative esistono due versioni, probabilmente diffuse dalle fazioni politiche coinvolte. Secondo una leggenda di chiara origine ghibellina, Ugolino decise non cedere alle richieste genovesi – il passaggio di mano della rocca di Castro, in Sardegna – in cambio dei prigionieri pisani per impedire il rientro di alcuni capi ghibellini imprigionati a Genova. Secondo una voce più probabilmente guelfa, alcuni tra i prigionieri avevano dichiarato, interpretando l'umore di tutti, che avrebbero preferito morire piuttosto di vedere una piazzaforte costruita dagli antenati cadere senza combattere, e se fossero stati liberati avrebbero impugnato le armi contro chiunque avesse consentito uno scambio tanto disonorevole.
Curiosamente, l'insieme delle trattative riuscì ad accontentare chiunque all'infuori di Pisa, e a scontentare tutti i Pisani: i ghibellini cominciavano a guardarlo come un traditore in battaglia come in politica, per essere passato alla parte guelfa in gioventù, per la "diserzione" della Meloria e per il sacrificio dei capi ghibellini a Genova, al momento destinati alla vendita come schiavi; i guelfi lo consideravano ambiguo, privo di una vera affidabilità per le proprie origini ghibelline, dalla concessione facile nei confronti dei nemici e troppo avido di ricchezze e potere per costituire una guida sicura per la città.
Il duumvirato con Nino ebbe dunque vita breve: costui decise di appropriarsi del titolo di podestà insediandosi nel palazzo comunale, e si avvicinò alla maggioranza ghibellina entrando in contatto con l'arcivescovo, nonché capofazione del patriziato e dei sostenitori dell'Impero, Ruggeri degli Ubaldini.
Il conte reagì con assoluta fermezza: nel 1287 scacciò e fece demolire i palazzi di alcune famiglie ghibelline prominenti, occupò con la forza il palazzo del Comune, ne scacciò il nuovo podestà e si fece proclamare signore di Pisa.
Nell'aprile dello stesso anno giunse a Pisa una delegazione di ambasciatori genovesi per trattare la pace e decidere sulla sorte dei numerosi prigionieri della Meloria, per la cui liberazione si era deciso di abbassare il riscatto: anziché la cessione del Castro, Genova si sarebbe accontentata di una somma in denaro.
Ugolino della Gherardesca, all'apice del potere, vide però nel ritorno dei prigionieri una minaccia, tanto più che questi gli avevano giurato vendetta per il fallimento delle trattative iniziali: in risposta alla legazione, che rientrò a Genova a mani vuote, le navi pisane cominciarono ad aggredire i mercantili genovesi nell'alto Tirreno, per mano dei corsari sardi.
Per scongiurare che anche il nipote Nino diventasse una minaccia all'unità del proprio potere, fece rientrare in città alcune delle famiglie ghibelline scacciate (i Gualandi, i Sismondi e i Lanfranchi), le cui milizie si unirono a quelle dei della Gherardesca: una mossa che valse una parziale pacificazione con Ruggeri degli Ubaldini, il quale fece finta di non vedere quando il Visconti gli chiese appoggio contro le forze politiche schierate contro di lui.
Esiliato il nipote, sistemata la questione con Genova e pacificate Firenze e Lucca, il conte Ugolino, dall'alto del proprio potere ormai quasi assoluto, si permise il lusso di rifiutare un'alleanza con l'arcivescovo in un momento delicatissimo per la storia della Repubblica: dopo una serie di lotte intestine che impedirono la ricostruzione di una flotta militare, e dopo che si era indebolita proprio per questa ragione quella mercantile, nel 1288 Pisa soffriva di un drammatico caroviveri, che limitava al minimo la circolazione delle merci e soprattutto impediva il continuo e corretto approvvigionamento della popolazione.
Le tensioni che si crearono tra le grandi famiglie pisane causarono una serie di rivolte e scontri, nei quali le famiglie della maggioranza ghibellina appoggiata da Ruggeri degli Ubaldini (Gualandi, Sismondi, Lanfranchi, Orlandi, Ripafratta) si opposero con le armi alle famiglie della minoranza guelfa appoggiata dal conte (Visconti, Gaetani, Upezzinghi): entrambe le fazioni erano state aumentate nel numero dei combattenti dalla penetrazione di guelfi e ghibellini travestiti da mercanti.
Il casus belli fu la morte di un nipote dell'arcivescovo, avvenuta per mano dello stesso Ugolino, durante un violento alterco che quest'ultimo aveva avuto con un familiare. Il 1° luglio 1288, dopo avere partecipato nella chiesa di San Bastiano ad un consiglio che doveva decidere della pace con Genova, ma che si sciolse senza concludere nulla, Ugolino si ritrovò coinvolto coi suoi in una serie di violenti attacchi, in cui morì Balduccio della Gherardesca, un figlio naturale del conte.
Dopo un'accanita resistenza, sopraffatto coi suoi dai ghibellini, Ugolino si chiuse verso mezzogiorno coi familiari nel palazzo del Comune, dove rimase a difendersi disperatamente fino a sera e donde uscì solo dopo che fu appiccato il fuoco all'edificio.
Furono allora rinchiusi nella Muda, una torre di proprietà dei Gualandi, che fu una durissima prigione per Ugolino, i figli Gaddo e Uguccione, e i nipoti Anselmuccio e Lapo. Per ordine dell'arcivescovo, nel frattempo autoproclamatosi podestà, nel marzo 1289 fu dato ordine di gettare la chiave della prigione nell'Arno, e di lasciare i cinque prigionieri morire di fame.
I loro corpi furono trasportati post mortem al chiostro della Chiesa di San Francesco, sempre a Pisa, dove rimasero fino a 1902; in quell'anno infatti le spoglie dei cinque furono ricomposte e portate all'interno della Cappella della Gherardesca.
Se la biografia di Ugolino della Gherardesca è suffragata da alcune prove storiografiche, la terribile fine del conte nei suoi tragici aspetti deve la sua fama e la sua diffusione esclusivamente a Dante Alighieri, che lo collocò nell'Antenora, ovvero il secondo girone dell'ultimo cerchio dell'Inferno (a metà tra i canti XXXII e XXXIII), tra i traditori.
Secondo Dante, i prigionieri morirono per inedia lentamente e tra atroci sofferenze, e prima di morire i figli di Ugolino lo pregarono di cibarsi delle loro carni. Nel poema, Ugolino afferma che più che il dolor poté il digiuno, con una doppia, ambigua interpretazione: in un caso, il conte ormai impazzito si ciba della progenie; nell'altro, resiste alla fame e lascia che sia la fame a dare il colpo di grazia a un uomo già distrutto dal dolore per la perdita dei figli.
La prima conclusione, la più terrificante e raccapricciante, fu quella che convinse maggiormente l'ampio pubblico della Commedia, almeno inizialmente: per questa ragione Ugolino è passato alla storia come il conte cannibale e viene spesso rappresentato con le dita delle mani strappate a morsi ("ambo le man per lo dolor mi morsi", Inf XXXIII, 57) per la costernazione, come nella scultura I Cancelli dell'Inferno di Auguste Rodin, e Ugolino e i suoi figli di Jean-Baptiste Carpeaux.
Studi più recenti hanno invece portato gli studiosi ad optare per la seconda scelta, cioè quella secondo la quale il Conte sia morto per la fame che lo opprimeva da quasi una settimana.
Ugolino appare nell'Inferno sia come un dannato che come un demone vendicatore, che affonda i denti per l'eternità nel capo dell'arcivescovo Ruggeri.


Anno del Signore 1289
A Campaldino (Casentino) le forze guelfe sconfiggono i ghibellini. A questa battaglia partecipa anche Dante Alighieri (Firenze, tra il 14 maggio ed il 13 giugno 1265 – Ravenna, 13 settembre 1321) nelle file guelfe.
Le insegne di guerra furono consegnate il 13 maggio, a Firenze. Fu preparato un campo presso Badia a Ripoli con l'intenzione di muovere verso Arezzo passando per il Valdarno. La prima strategia decisiva fu quella di valicare, invece, il passo della Consuma e procedere verso Arezzo passando dal Casentino. Fu una decisione inaspettata e rischiosa, dovuta in gran parte ai suggerimenti degli aretini di parte guelfa esuli a Firenze. Le vie di accesso al Casentino erano impervie, generalmente sorvegliate e sormontate da castelli nemici come Castel San Niccolò, Montemignaio, Romena. La mattina del 2 giugno i Guelfi si misero in marcia e misero in atto questa decisione: guadarono l'Arno fra Rovezzano e Varlungo e si diressero verso Pontassieve. Quindi presero a scalare alacremente la Consuma. I condottieri erano Guillaume de Durfort e Aimeric de Narbonne, coadiuvati da Vieri de' Cerchi, Bindo degli Adimari e Barone dei Mangiatori.
Appena giunta la notizia della via percorsa dai Guelfi, i Ghibellini dovettero agire di conseguenza e si misero in marcia da Arezzo verso Bibbiena, per cercare di difendere i castelli dei Guidi e degli Ubertini. I capi Ghibellini erano Guglielmino degli Ubertini, vescovo di Arezzo, coadiuvato da Guglielmino Ranieri dei Pazzi di Valdarno, detto Guglielmo Pazzo, da Guidarello di Alessandro da Orvieto, Guido Novello dei Conti Guidi, Bonconte da Montefeltro e Loccio, suo fratello. Molti di questi erano reduci dai combattimenti vittoriosi del 1288 contro Siena. Ad Arezzo erano convenute truppe ghibelline da tutta Italia.
La scelta di passare dalla Consuma e dal Casentino si dimostrò vincente per la parte Guelfa. I castelli casentinesi, colti di sorpresa, non si opposero al passaggio dell'esercito e questo dilagò nelle vallate sottostanti. I ghibellini non avevano altra scelta che dare battaglia in campo aperto per non trovarsi assediati nei castelli e per fermare il saccheggio delle campagne. Il vescovo di Arezzo inviò dunque il guanto di sfida ai capitani Guelfi che furono felici di accettare.
Il luogo individuato fu la Piana di Campaldino, fra Poppi e Pratovecchio nelle vicinanze di una chiesetta chiamata Certomondo, sul lato sinistro dell'Arno. I capitani scelsero le strategie e le tattiche. I Guelfi pianificarono una tattica inizialmente difensiva. Vieri dei Cerchi aveva il compito di individuare coloro che dovevano sostenere il primo e più violento assalto. Giovanni Villani racconta che questi, vedendo poco entusiasmo, si offrì personalmente pur essendo anziano e menomato ad una gamba. I Ghibellini scelsero di attaccare al centro lo schieramento nemico e preparò dodici "paladini" per trascinare i
"feditori", cioè i cavalieri di prima linea. Guido Novello comandava la cavalleria di riserva Ghibellina. Corso Donati quella Guelfa. La mattina di sabato 11 giugno, San Barnaba, cominciò la battaglia. I Ghibellini scatenarono una prima ondata di trecento "feditori" al galoppo comandata da Bonconte da Montefeltro, seguiti da trecentocinquanta cavalieri al trotto. La fanteria seguiva di corsa.
I "feditori" guelfi di Vieri dei Cerchi serrarono le file e ricevettero l'urto in pieno. Furono quasi tutti disarcionati ma chi aveva conservato l'integrità fisica continuò il combattimento appiedato, con le asce, le spade e le mazze. I feditori Ghibellini si incunearono profondamente nelle schiere nemiche. Lo scontro divenne disordinato: si frantumò in zuffe e duelli. Entrarono in azione i balestrieri. I guelfi, ben protetti dalle mura mobili dei palvesi, tiravano a colpo sicuro da distanza ravvicinata. I ghibellini tiravano da lontano, con efficacia molto minore, anche perché la giornata era secca e si alzava la polvere. La cavalleria guelfa era arretrata ma le ali dello schieramento, composte da fanteria avevano retto. A quel punto cominciarono a chiudersi a tenaglia accerchiando cavalleria e fanteria ghibellina. Un certo numero di cavalieri guelfi disordinati dalla carica riuscì a ritirarsi e a prepararsi nelle retrovie a continuare il combattimento. I balestrieri di entrambe le parti intensificarono il tiro di quadrelli e verrettoni. Aimeric de Narbonne, Gherardo Vetraia dei Tornaquinci e Guglielmo de Durfort guidarono una contro carica di cavalleria al centro dello schieramento. Guglielmo di Durfort cadde nel tentativo, colpito da un quadrello. Anche Aimeric de Narbonne fu ferito al volto. I cavalieri ghibellini si avventarono verso il Tornaquinci, che reggeva le insegne. Le sorti della battaglia in quel momento erano veramente incerte.
Fu decisivo il comportamento delle riserve. Corso Donati con un atto di insubordinazione caricò per "fedire" con i suoi cavalieri della riserva quindi freschi. Guidò la carica verso il fianco destro dei ghibellini con grandissima efficacia perché separò i cavalieri dai fanti. Guido Novello, che osservava la mischia dalla chiesa di Certomondo non lo imitò: giudicò persa la battaglia e si ritirò coi suoi cavalieri verso i propri castelli La battaglia era decisa. La cavalleria ghibellina era accerchiata e i fanti, tagliati fuori, erano disorientati. Guglielmino degli Ubertini affrontò i nemici con i suoi fanti e fu abbattuto dopo un aspro combattimento. Caddero anche Bonconte da Montefeltro e Guglielmo Pazzo. Cominciò la fase conclusiva della battaglia: quella della "caccia" per prendere ostaggi da scambiare con riscatti e per sottrarre le insegne, l'equipaggiamento e le armi ai nemici. Nel tardo pomeriggio scoppiò un temporale estivo. Fu dato il segnale di ritirata per sospendere la caccia.
La battaglia era finita. Si cominciarono a raccogliere e a cercare di riconoscere i caduti che furono moltissimi: da parte ghibellina si contarono circa 1700 morti; da parte guelfa se ne contarono circa 300. Vennero sepolti in grandi fosse comuni in prossimità del Convento di Certomondo. All'interno della stessa chiesa si è sempre ritenuto fosse stato sepolto il vescovo Guglielmo Ubertini e il recente ritrovamento di resti ossei sotto il pavimento della chiesa, all'interno di un sepolcro, sembra avvalorare tale ipotesi. Furono condotti, inoltre, più di mille prigionieri a Firenze che in parte furono rilasciati in cambio di un riscatto. Chi non fu riscattato morì in breve tempo nelle prigioni fiorentine: furono alcune centinaia. Questi furono sepolti a lato della via di Ripoli, a Firenze, in un luogo che ancora oggi si chiama "Canto degli aretini".
La citazione nella Divina Commedia di Dante (Purgatorio V, 85-129) della battaglia di Campaldino ha contribuito più del suo concreto valore strategico alla fama di questo evento militare, citato da poeti e scrittori come Gabriele D'Annunzio e Franco Sacchetti e protagonista di numerose leggende locali e rievocazioni storiche. La vittoria ottenuta l'11 Giugno 1289 dai Fiorentini e dai Guelfi di Toscana contro i Ghibellini non fu infatti determinante per la risoluzione del conflitto poiché i vincitori, invece di proseguire rapidamente verso Arezzo, indugiarono nell'assedio di vari castelli del Casentino e diedero il tempo ai Ghibellini di riorganizzarsi. Il busto che ricorda la partecipazione di Dante Alighieri alla battaglia di Campaldino Nella vasta pianura alluvionale di Campaldino, estesa sulla riva sinistra dell'Arno e delimitata da Porrena e Ponte a Poppi, che ospita numerose attività industriali, l'evento storico è ricordato da una colonna chiamata "Valigia di Dante" eretta nel 1921 sulla strada statale (al bivio verso Pratovecchio) ad opera dell'architetto senese Agenore Socini. Un'iscrizione sul monumento (Inferno XXII, 4-5) ricorda che Dante Alighieri partecipò alla battaglia come "feditore a cavallo" guelfo, cioè nel ruolo di cavaliere schierato nelle prime file incaricato di iniziare lo scontro con il nemico.
Così Dante, sulla battaglia nel V canto del Purgatorio (versi 85-129):
"Poi disse un altro: "Deh, se quel disio
si compia che ti tragge a l’alto monte,
con buona pïetate aiuta il mio!
Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna o altri non ha di me cura;
per ch’io vo tra costor con bassa fronte".
E io a lui: "Qual forza o qual ventura
ti travïò sì fuor di Campaldino,
che non si seppe mai tua sepultura?".
"Oh!", rispuos’elli, "a piè del Casentino
traversa un’acqua c’ha nome l’Archiano,
che sovra l’Ermo nasce in Apennino.
Là ’ve ’l vocabol suo diventa vano,
arriva’ io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.
Quivi perdei la vista e la parola;
nel nome di Maria fini’, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.
Io dirò vero, e tu ’l ridì tra ’ vivi:
l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno
gridava: "O tu del ciel, perché mi privi?
Tu te ne porti di costui l’etterno
per una lagrimetta che ’l mi toglie;
ma io farò de l’altro altro governo!".
Ben sai come ne l’aere si raccoglie
quell’umido vapor che in acqua riede,
tosto che sale dove ’l freddo il coglie.
Giunse quel mal voler che pur mal chiede
con lo ’ntelletto, e mosse il fummo e ’l vento
per la virtù che sua natura diede.
Indi la valle, come ’l dì fu spento,
da Pratomagno al gran giogo coperse
di nebbia; e ’l ciel di sopra fece intento,
sì che ’l pregno aere in acqua si converse;
la pioggia cadde, e a’ fossati venne
di lei ciò che la terra non sofferse;
e come ai rivi grandi si convenne,
ver’ lo fiume real tanto veloce
si ruinò, che nulla la ritenne.
Lo corpo mio gelato in su la foce
trovò l’Archian rubesto; e quel sospinse
ne l’Arno, e sciolse al mio petto la croce
ch’i’ fe’ di me quando ’l dolor mi vinse;
voltòmmi per le ripe e per lo fondo,
poi di sua preda mi coperse e cinse".
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ELENCO EVENTI STORICI DA M2TW 1290-1294

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Anno del Signore 1290
In questo periodo, Omodeo Tasso crea un servizio postale di corrieri fra le città europee. Considerato l'inventore del sistema postale moderno, è il capostipite della famiglia dei Thurn and Taxis, principi del Sacro Romano Impero.
Omodeo Tasso fece rivivere l'antica istituzione dei corrieri a cavallo, anzi si ritiene che a lui si debba il primo vero e proprio servizio regolare di posta. I Tasso erano una famiglia con origini antichissime ed il loro stemma recava un tasso in piena corsa ed un cornetto. Prima l'Imperatore Massimiliano e poi Re Carlo V modificarono questo stemma, via via arricchendolo con un'aquila a due teste e con l'iscrizione Kaiserliche - Post (Posta Imperiale). I corrieri dei Tasso, chiamati bergamaschi, formavano una Compagnia o Società, contanto di regolare statuto che ottenne, già nel 1305, un solenne riconoscimento dal Senato Veneziano; ebbero inoltre privilegi speciali dai pontefici e da moltissimi sovrani di tutti i Paesi d'Europa. La Società era ripartita in tante azioni suddivise fra 32 famiglie ed assicurava un regolare servizio fra l'Italia, la Francia, la Germania e la Spagna.
Dopo Omodeo, si hanno notizie di Ruggero Tasso e del nipote Francesco che alcune fonti indicano come il vero organizzatore, forse perchè questi, audace ed intraprendente, seppe approfittare delle condizioni politiche europee dei suoi tempi per dare un eccezionale sviluppo ad un servizio tanto utile ed importante.
Muore Beatrice, la donna amata da Dante alighieri.
Beatrice Portinari, detta Bice, maritata Bardi (Firenze, 1266 circa – Firenze, 8 giugno 1290), è, secondo alcuni critici letterari, la figura storica dietro il personaggio dantesco di Beatrice.
Sebbene non unanime, la tradizione che identifica Bice di Folco Portinari con la Beatrice amata da Dante è ormai molto radicata. Lo stesso Giovanni Boccaccio, nel commento alla Divina Commedia, fa esplicitamente riferimento alla giovane.
I documenti certi sulla sua vita sono sempre stati molto scarsi, arrivando a far persino dubitare della sua reale esistenza. L'unico che si conoscesse fino a poco tempo fa era il testamento di Folco Portinari datato 1287. Vi si legge: ...item d. Bici filie sue et uxoris d. Simonis del Bardis reliquite [...], lib.50 ad floren, cioè si parla di una lascito in denaro alla figlia Bice maritata a Simone de' Bardi. Folco Portinari era stato un banchiere molto ricco e in vista nella sua città, nato a da Portico di Romagna. Trasferitosi a Firenze, viveva in una casa vicina a Dante ed ebbe sei figlie. Folco ebbe il merito di fondare quello che tutt'oggi è il principale ospedale nel centro cittadino, l'Ospedale di Santa Maria Nuova.
La data di nascita di Beatrice è stata ricavata per analogia con quella presunta di Dante (coetanea o di un anno più piccola del poeta, che si crede nato nel 1265); la data di morte è ricavata dalla Vita Nuova di Dante stesso e forse non è altro che una data simbolica. Anche molte delle notizie biografiche provengono unicamente dalla Vita Nuova, come l'unico incontro con Dante, il saluto, il fatto che i due non si scambiarono mai parola, ecc.
Beatrice, figlia di un banchiere, si era imparentata con un'altra famiglia di grandi banchieri, i Bardi, andando in sposa ancora giovanissima, appena adolescente, a Simone, detto Mone. È recentissimo il ritrovamento di nuovi documenti nell'archivio Bardi su Beatrice e suo marito da parte dello studioso Domenico Savini[1] Tra questi un atto notarile del 1280, dove Mone de' Bardi cede alcuni terreni a suo fratello Cecchino con il beneplacito della moglie Bice, che all'epoca doveva avere circa quindici anni. Un secondo documento del 1313, quando cioè Beatrice doveva essere già morta, cita il matrimonio tra una figlia di Simone, Francesca, e Francesco di Pierozzo Strozzi per intercessione dello zio Cecchino, ma non è specificato se la madre fosse stata Beatrice o la seconda moglie di Simone, Bilia (Sibilla) di Puccio Deciaioli. Altri figli conosciuti di Simone sono Bartolo e Gemma, la quale venne maritata a un Baroncelli.
Un'ipotesi plausibile è che Beatrice sia morta così giovane forse al primo parto.
Il luogo di sepoltura di Beatrice viene tradizionalmente indicato nella chiesa di Santa Margherita de' Cerchi, vicina alle abitazioni degli Alighieri e dei Portinari, dove si troverebbero i sepolcri di Folco e della sua famiglia. Ma questa ipotesi, sebbene segnalata da una lapide moderna che colloca la data di morte di Beatrice al 1291, è incoerente perché Beatrice morì maritata e quindi la sua sepoltura avrebbe dovuto avere luogo nella tomba della famiglia del marito. Infatti Savini indica come possibile luogo il sepolcro dei Bardi situato nella basilica di Santa Croce, sempre a Firenze, tutt'oggi segnalato nel chiostro da una lapide con lo stemma familiare, vicino alla Cappella dei Pazzi.
Beatrice è la prima donna a lasciare una traccia indelebile nella nascente letteratura italiana, nonostante analoghe figure femminili siano presenti anche nei componimenti di Guido Guinizelli e Guido Cavalcanti, anche se non con l'incisività del personaggio dantesco. A Beatrice è dedicata la Vita Nuova, dove il poeta raccoglie entro una struttura in prosa una serie di componimenti poetici scritti negli anni precedenti. Secondo la Vita Nuova Beatrice fu vista da Dante per la prima volta quando aveva 9 anni e i due si conobbero quando lui aveva diciotto anni. Andata in sposa al banchiere Simone dei Bardi nel 1287, si crede anche che si sia spenta nel 1290, a soli ventiquattro anni.
Quando morì, Dante, disperato, studiò la filosofia e si rifugiò nella lettura di testi latini, scritti da uomini che, come lui, avevano perso una persona amata. La fine della sua crisi coincise con la composizione della Vita Nuova (intesa come "rinascita").
Nella Divina Commedia la figura di Beatrice subì un ulteriore processo di divinazione (si parla di "donna angelicata"), quale creatura celestiale che accompagna il pellegrino nel Paradiso.
Così Dante scrive nella Vita Nuova, capitolo III:
"A ciascun'alma presa e gentil core
nel cui cospetto ven lo dir presente,
in ciò che mi rescrivan suo parvente,
salute in lor segnor, cioè Amore.
Già eran quasi che atterzate l'ore
del tempo che onne s tella n'è lucente,
quando m'apparve Amor subitamente,
cui essenza membrar mi dà orrore.
Allegro mi sembrava Amor tenendo
meo core in mano, e ne le braccia avea
madonna involta in un drappo dormendo.
Poi la svegliava, e d'esto core ardendo
lei paventosa umilmente pascea:
appresso gir lo ne vedea piangendo."

Anno del Signore 1291
Nel dicembre del 1271 un ragazzo di 17 anni che da poco ha perso la madre e da poco conosce il padre e lo zio, tornati, dopo lunga assenza dall' Estremo Oriente, lascia San Giovanni d' Acri alla volta di Laiazzo, base di partenza di una pista carovaniera che attraverso la Piccola e Grande Armenia si inoltra nella Anatolia orientale fino a raggiungere il porto di Tabriz. Nell' estate del 1275, dopo più di tre anni di viaggio Marco, Niccolò e Matteo raggiungono Chemenfu, la residenza del Gran Khan, ne passeranno altri 17 in Cina, visitando in lungo e in largo questo paese e l' Est asiatico, dallo Yunnan all' Annan, alla Birmania, con incarichi o missioni speciali affidategli da Cubilai Khan. Nel 1293, al seguito di una spedizione reale di 14 navi e 600 uomini che deve portare a Tabriz la principessa Cocacin, in sposa al re dei tartari occidentali Argon, i Polo compiono il percorso di ritorno attraverso il Mar Cinese meridionale, lo stretto di Malacca, Sumatra, Ceylon e le coste dell' India fino a Hormuz, da cui ripartiranno di nuovo per arrivare a Venezia due anni dopo. Il 7 settembre 1298 al largo dell'isola di Curzola tra i quasi 6.000 prigionieri caduti in mano dei genovesi e incatenati nelle stive ce n'è uno che forse più degli altri medita con distacco sui tanti colpi di scena che può riservare la sorte. Finirà in carcere a Genova e per otto mesi si troverà a dividere la cella con un personaggio singolare, un noveliere, un letterato di professione chiamato Rustichello da Pisa, che già gode di una qualche notorietà come rifacitore di romanzi secondo lo stile tipico delle "chansons de geste". Da questo incontro nasce un libro intitolato Le devisemant du monde, un libro che poi verrà chiamato Il Milione.
Partono da Genova i due fratelli Vivaldi, Ugolino e Vadino, con l'intento di circumnavigare l'Africa, ma la loro impresa finirà tragicamente al largo delle coste africane, presso la foce del fiume Senegal.
Dopo la caduta di San Giovanni d'Acri e delle ultime piazzeforti cristiane in Medioriente le vie terrestri per il commercio delle spezie erano divenute impraticabili e si avvertiva l'esigenza di aprire una via commerciale alternativa. Diversi mercanti e patrizi genovesi, tra cui Tedisio Doria finanziarono dunque una spedizione che avrebbe dovuto giungere "ad partes Indiae per mare oceanum (ossia arrivare in India dopo aver circumnavigato l'Africa).
Nel 1291 i due fratelli salparono da Genova con due galee (l'Allegranza e la Sant'Antonio) e 300 marinai; la spedizione era accompagnata anche da due frati francescani. Tuttavia dopo aver passato lo stretto di Gibilterra e aver iniziato la discesa lungo le coste africane, della spedizione si persero le tracce dopo capo Juby, ai confini meridionali del Marocco e nessuno fece mai ritorno.
Furono formulate diverse ipotesi sulla sorte dei navigatori. Le galee, a remi e con scafo basso e sottile non erano del resto navi adatte per la navigazione sull'oceano; inoltre non era ancora utilizzata la bussola e la navigazione poteva solo avvenire lungo la costa, con frequenti approdi. È possibile che la spedizione toccasse le isole Canarie e forse fece naufragio alla foce del fiume Senegal.
Secondo i racconti leggendari che si svilupparono dopo il fallimento della spedizione, i due fratelli genovesi avrebbero effettivamente circumnavigato l'Africa e sarebbero giunti in Etiopia, dove sarebbero stati catturati dal Prete Gianni, un leggendario re cristiano. Non molti anni dopo Dante Alighieri era forse a conoscenza del fallimento della spedizione quando compose nel XXVI canto del suo Inferno la storia del viaggio di Ulisse oltre le Colonne d'Ercole.

Anno del Signore 1292
Il Livre de Taille di Parigi ricorda l'esistenza di tredici artigiani assoggettati a tributo, si tratta di persone che vivono della fabbricazione di palle per il "Jeu de Paume", un gioco praticato con una palla. Non si crede che tale passatempo possa aver fortuna nel futuro... Il re d'Inghilterra Edoardo I (Westminster, 17 giugno 1239 – Cumberland, 7 luglio 1307) fa da paciere in Scozia e assegna la corona scozzese a Govanni Baliol (~ 1249 – 25 novembre 1314).
Si sa molto poco dei primi anni di vita di John Baliol. Non si sa precisamente quando sia nato e neanche dove sia nato: probabilmente era nato tra il 1248 e il 1250, e riguardo il luogo ci sono diverse possibilità: Galloway, Piccardia o il castello di Barnard, la contea di Durham. Era il figlio di Dervorguilla di Galloway, figlia di Alan, signore di Galloway e pronipote di Davide, conte di Huntingdon, e di John, quinto barone di Balliol, signore del castello di Barnard. Da sua madre aveva ereditato significative terre a Galloway ed il reclamo alla signoria sui Galwegiani, così come le varie proprietà inglesi e scozzesi ereditate dal prozio Davide di Huntingdon; da suo padre aveva ereditato latifondi in Inghilterra ed in Francia, quali Hitchin, nella contea di Hertfordshire. A seguito della morte di Margherita di Scozia nel 1290, John Balliol era in competizione per la corona scozzese nella cosiddetta 'Grande causa', poiché era pronipote di Davide I di Scozia da parte di madre (e quindi una generazione in più rispetto a quella del rivale Robert de Bruce, quinto signore di Annandale, nonno del futuro Robert Bruce), essendo il più grande primogenito genealogicamente, ma non il parente più vicino. Presentò il suo reclamo ai revisori scozzesi nell'elezione del 6 giugno 1291, con il re Edoardo I d'Inghilterra come arbitro, e avvenuta a Berwick-upon-Tweed. I revisori decisero in favore di Balliol, ciò venne annunciato nella sala grande del castello di Berwick il 17 novembre 1292 e John venne incoronato re di Scozia a Scone, il 30 novembre 1292 (giorno di Sant'Andrea).
Edoardo I, che aveva costretto il riconoscimento di Lord Paramount di Scozia, trattava Giovanni come un vassallo e umiliava ripetutamente il nuovo re. Stancandosi del loro re profondamente compromesso, la direzione degli affari presumibilmente è scappata dalle mani del re, che nominò un consiglio di dodici persone a Stirling nel luglio del 1295. Questi uomini erano più probabilmente un gruppo di consiglieri di re Giovanni e conclusero un trattato di assistenza reciproca con la Francia, conosciuto come l'Alleanza di Auld.
Per vendetta Edoardo invase la Scozia, cominciando le Guerre di indipendenza scozzesi. Gli scozzesi furono sconfitti a Dunbar e gli inglesi presero il castello di Dunbar il 27 aprile 1296. Giovanni abdicò con un atto firmato nel castello di Brechin il 10 luglio 1296. Qui l'emblema di Scozia fu formalmente strappato dalla sopraveste di Giovanni, prendendo il nome di "Toom Tabard" (veste vuota). Giovanni venne inizialmente incarcerato nella Torre di Londra, ma venne poi liberato nel luglio del 1299, consentendogli di andare in Francia. Quando il suo bagaglio venne esaminato a Dover furono trovati nelle sue casse la corona reale e il sigillo di Scozia, con molti contenitori d'oro e di argento e una somma considerevole di soldi. Edoardo I ordinò che la corona fosse offerta a San Tommaso martire e che i soldi venissero restituiti a Balliol per le spese del suo viaggio, ma mantenne il sigillo per se stesso. Balliol fu lasciato in custodia al Papa Bonifacio VIII a condizione che rimanesse in una residenza papale. Successivamente fu liberato intorno all'estate del 1301 e visse il resto della sua vita nelle vecchie proprietà della sua famiglia a Hélicourt.
Tuttavia, poiché la sua abdicazione era stata ottenuta sotto costrizione, i suoi sostenitori successivamente sostennero che John era ancora il re legittimo della Scozia. Quando gli scozzesi si ribellarono nel 1297 con William Wallace ed Andrew de Moray, sostenevano che stavano agendo in nome di re Giovanni. Anche se le ribellioni in Scozia continuarono nel corso degli anni, questo reclamo divenne sempre più inconsistente, come anche la posizione di John che, per il fatto di stare in un alloggio papale, non avrebbe potuto iniziare una campagna per il suo rilascio e ritornare in Scozia, malgrado i tentativi diplomatici degli scozzesi a Parigi e Roma. Dopo il 1302, non fece ulteriori tentativi per ottenere il supporto degli scozzesi. La Scozia è stata lasciata senza un monarca fino alla salita al trono di Roberto I di Scozia nel 1306.
Giovanni morì il 25 novembre 1314 nel castello di Hélicourt in Francia.

Anno del Signore 1293
E' deceduto il filosofo Roger Bacon (noto come Bacone in Italia), si dice a causa di una grave polmonite contratta durante un esperimento con un pollo esposto ai rigori del freddo: per dimostrarne le proprietà conservative, ci sarebbe rimasto stecchito.
Torkel (Tyrgils or Torgils) Knutsson, conosciuto anche come Comandante Torkel, (?–1306) di Aranäs, comandante e capo effettivo della Svezia durante la prima parte del regno di Birger Magnusson (1280-1321), guida la terza crociata svedese contro la Finlandia.
Torkel proveniva da un'antica e nobile famiglia del Västra Götaland ed era imparentato con i Folkung, la famiglia reale, e come loro, aveva un leone nel suo stemma. Fu per la prima volta nominato nel 1282, e, in un documento del 1288, è nominato cavaliere e membro del Senato (riksråd).
Quando il re Magnus Ladulas morì, Torkel diventò il Reggente per il piccolo Re Birger, essendo l'ufficiale di Stato più eminente anche perché la vedova - straniera - di Magnus, Helvig di Holstein non era ancora considerata adatta per una carica del genere.
Quando, nel 1292 la regione del Tavastland fu attaccata dalla Repubblica di Novgorod, il comandante Torkel guidò la terza crociata svedese contro la Finlandia, nel 1293 e conquistò parte della Carelia, dove fondò la roccaforte di Vyborg. Nel 1300, guidò un attacco contro Novgorod, e sul fiume Neva, fondò la fortezza di Landskrona.
Egli mostrò lo stesso interesse per la politica interna svedese. Durante la sua reggenza, fu stabilita la legge di Uppland. Si attivò per abolire l'esenzione delle tasse per il clero, che espresse il proprio malcontento 1303.
I vecchi trattati commerciali con Lubecca furono ripristinati, alla condizione che la città teutonica mettesse sotto embargo Novgorod.
Nel conflitto tra il re Birger Magnusson e suo fratello, il duca Eric e Valdemar, Torkel restò fedele al fianco del re. Nel castello di Torkel, Aranäs, nel 1304, i due duchi dovettero siglare una dichiarazione nella quale essi non avrebbero mai più attaccato o minacciato il re, sia all'interno della Svezia che oltreconfine. A dispetto di questa dichiarazione, i due duchi fuggirono e con il supporto del re Norvegese Haakon V di Norvegia, attaccarono il Västergötland. Torkel aiutò il re a conquistare il castello di Nyköping, che appartenva al duca Eric, e nel Kolsäter nel 1305, costrinse i due duchi a firmare un giuramento nel quale si impeganvano a non attaccare lo stesso Torkel.
Quando il potere dei due duchi tornò ad essere una minaccia, il maresciallo dovette riconciliarsi con la chiesa, ed emise un editto per il rinnovo degli antichi diritti ecclesiastici nel 1305. Nonostante ciò, Torkel fu alla fine vinto dalla vendetta dei suoi nemici. I duchi infatti fecero in modo di screditare la sua fedeltà agli occhi del re.
Nel Dicembre 1305, Re Birger ed i duchi giunsero nella residenza di Torkel a Lena (dove in precedenza aveva avuto luogo la Battaglia di Lena) nelVästergötland, ed arrestarono Torkel che venne condotto a Stoccolma in catene. Nel Febbraio 1306, il fedele maresciallo venne decapitato.
Tale era l'odio dei duchi nei suoi confronti che il suo corpo venne sepolto nel luogo dell'esecuzione. Soltanto in seguito esso fu degnamente sepolto in una chiesa Francescana di Stoccolma. Torkel si sposò due volte. La sua prima moglie, le cui origini sono sconosciute, gli diede una figlia di nome Kristina, che fu data in sposa al figlioccio e futuro nemico duca Valdemar. Sembra che alla morte del padre ella sia stata ripudiata dal duca (poiché Valdemar si sposò successivamente con Ingeborg Ericsdotter di Norvegia). La seconda moglie di Torkel era la countessa Hedvig di Ravensberg.
Le Crociate del Nord o Crociate baltiche sono le crociate organizzate tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo contro l'ancora pagana Livonia, provocando l'effettivo ingresso nella storia dei popoli baltici, fino ad allora rimasti complessivamente isolati nei loro territori. L'antica Livonia corrispondeva alla regione baltica che si estende attorno al Golfo di Riga, compresa tra l'Estonia a nord e la Lettonia a sud. Sul finire del XII secolo questa regione comincia a rappresentare un valore religioso importante per il mondo cattolico, prima con Papa Celestino III e poi con Innocenzo III. Quest'ultimo, politico e pontefice di spessore, non elaborava soltanto pie intenzioni su quei territori e sapeva le necessarie strategie per evangelizzarli. Il primo vescovo della Livonia si chiama Meinardo, viene dalla Germania settentrionale, terra allora di monasteri di frontiera, famosi per l'arte della memoria (i monaci sapevano a mente la Scrittura più che le raffinatezze del latino ciceroniano). Nel 1186, Meinardo giunge a Ikskile (Üxküll), costruisce la prima chiesa e una fortificazione, entrambe in pietra. I Livi cercano di distruggere quest'ultima tirandola con le corde, ma si accorgono che è troppo solida per le loro usanze. Nel 1201 la diocesi viene trasferita nella vicina Riga, città di nuova fondazione. Il vescovo Bertoldo verrà ucciso e fatto a pezzi dalla popolazione locale.
Nel 1202 Albrecht von Buxthoeven (Alberto di Buxthoeven), nominato primo vescovo di Livonia da papa Innocenzo III, fondò l'Ordine cavalleresco dei Portaspada (Fratres Militiae Christi) ai fini di cristianizzare la regione. La Livonia, terra di frontiera del cristianesimo, non voleva rinunciare ai propri riti pagani. La situazione degenerò quando i missionari cristiani non armati inviati nella regione furono massacrati. Papa Innocenzo III decise allora di proclamare una crociata ed incaricò l'Ordine dei Portaspada di conquistare e controllare la regione. Nel 1206 Vinne de Rorbach, primo Gran Maestro dell'Ordine, vinse la battaglia di Riga e converti la Livonia al cristianesimo. Venne assunse pertanto il titolo di principe di Livonia (Fürst von Livland). Il successivo ingresso nel Sacro Romano Impero (1225) sancì l'entrata del paese baltico sotto l'orbita tedesca.

Anno del Signore 1294
E' eletto papa Celestino V, al secolo Pietro Angeleri del Morrone, (Isernia, circa 1215 – Fumone, 19 maggio 1296), fu il 192° papa della Chiesa cattolica dal 29 agosto al 13 dicembre 1294.
Di origini contadine, penultimo di dodici figli, nacque nel 1215 (tra 1209 e 1215, la fonte più accreditata è tratta dalla "vita C" che racconta che aveva 87 anni al momento della morte avvenuta il 19 maggio 1296) nel Molise. La sua nascita è rivendicata da due comuni: Isernia e Sant'Angelo Limosano. Recentemente anche Sant'Angelo in Grotte, frazione di Santa Maria del Molise ne ha rivendicato i natali "... in un castello di nome Sancto Angelo". Altre fonti fanno risalire la sua nascita addirittura all'anno 1209.
Da giovane, per un breve periodo, ebbe a soggiornare presso il monastero benedettino di Santa Maria in Faifoli, Chiesa abbaziale che, tra le dodici arcidiocesi di Benevento, era una delle più importanti. Mostrò una straordinaria predisposizione all'ascetismo e alla solitudine, ritirandosi nel 1239 in una caverna isolata sul Monte Morrone, sopra Sulmona, da cui il suo nome.
Qualche anno dopo si trasferì a Roma, presumibilmente presso il Laterano, ove studiò fino a prendere i voti sacerdotali. Lasciata Roma, nel 1241, ritornò sul monte Morrone, in un'altra grotta, presso la piccola chiesa di Santa Maria di Segezzano. Cinque anni dopo abbandonò anche questa grotta per rifugiarsi in un luogo ancora più inaccessibile sui monti della Maiella, negli Abruzzi, dove visse nella maniera più semplice che gli fosse possibile.
Si allontanò temporaneamente dal suo eremitaggio di Morrone nel 1244 per costituire una Congregazione ecclesiastica riconosciuta da papa Gregorio X come ramo dei benedettini, denominata "dei frati di Pietro da Morrone" , che ebbe la sua povera culla nell' Eremo di Sant'Onofrio al Morrone il rifugio preferito di Pietro, e che soltanto in seguito avrebbe preso il nome di Celestini.
Nell'inverno del 1273 si recò a piedi in Francia, a Lione, ove stavano per iniziare i lavori del Concilio di Lione II, per impedire che l'ordine monastico da lui stesso fondato fosse soppresso. La missione ebbe successo poiché grande era la fama di santità che accompagnava il monaco eremita.
I successivi vent'anni videro la radicalizzazione della sua vocazione ascetica e il suo distaccarsi sempre più da tutti i contatti con il mondo esterno, fino a quando non fu convinto che stesse sul punto di lasciare la vita terrena per ritornare a Dio. Ma un fatto del tutto inaspettato stava per accadere.
Papa Niccolò IV morì il 4 aprile 1292; nello stesso mese si riunì il conclave, che in quel momento era composto da soli dodici porporati.
Numerose furono le riunioni e sempre tenute in sedi diverse: a Santa Maria sopra Minerva, a Santa Maria Maggiore e sull'Aventino. Nonostante ciò, il Sacro Collegio non riusciva a far convergere i voti necessari su nessun candidato. Sopravvenne un'epidemia di peste che indusse il Conclave allo scioglimento. Nel corso dell'epidemia il cardinal Cholet, francese, fu colpito dal morbo e ne rimase vittima, per cui il Collegio Cardinalizio si ridusse a 11 componenti.
Passò più di un anno prima che il Conclave potesse nuovamente riunirsi, perché un profondo disaccordo s'era fatto sulla sede (Roma o Rieti). Finalmente si riuscì a trovare una soluzione condivisa stabilendone lo svolgimento nella città di Perugia. Era il 18 ottobre 1293.
I porporati però, nonostante le laboriose trattative, non riuscivano ad eleggere il nuovo Papa, soprattutto per la frattura che si era creata tra i sostenitori dei Colonna e gli altri cardinali. I mesi si susseguivano inutilmente e il permanere della sede vacante aumentava il malcontento popolare che si manifestava attraverso disordini e proteste, anche negli stessi ambienti ecclesiastici.
Si giunse così, alla fine del mese di marzo del 1294, quando i Cardinali dovettero registrare un evento che, probabilmente, contribuì, forse in maniera determinante, ad avviare a conclusione i lavori del Conclave.
Erano in corso, in quel momento, le trattative tra Carlo II d'Angiò, Re di Napoli e Giacomo II, Re d'Aragona, per sistemare le vicende legate all'occupazione aragonese della Sicilia, avvenuta all'indomani dei cosiddetti "vespri siciliani", del 31 marzo 1282.
Poiché si stava per giungere alla stipula di un trattato, Carlo d'Angiò aveva necessità dell'avallo pontificio. La qual cosa era impossibile, stante la situazione di stallo dei lavori del Conclave. Spinto da questa esigenza, il re di Napoli si recò, insieme al figlio Carlo Martello, a Perugia dove era riunito il Conclave, con lo scopo di sollecitare l'elezione del nuovo Pontefice. Il suo ingresso nella sala dove era riunito il Sacro Collegio provocò la riprovazione di tutti i cardinali e il re fu cacciato fuori soprattutto per l'intervento del cardinale Benedetto Caetani. Questa vicenda, con molta probabilità, indusse i cardinali a prendere coscienza del fatto che si rendeva necessario chiudere al più presto la sede vacante.
Nel frattempo, Pietro del Morrone predisse alla chiesa "gravi castighi" se questa non avesse provveduto subito a scegliere subito il proprio pastore. La profezia fu inviata al Cardinale Decano Latino Malabranca, il quale la presentò all'attenzione degli altri cardinali, propose la persona del un monaco come Pontefice; figura ascetica, mistica e religiosissima, del quale si diceva un gran bene da parte di tutti.
Il Cardinale Decano però, dovette adoperarsi molto per rimuovere le numerose resistenze che il Sacro Collegio aveva sulla persona di un non porporato. Alla fine, dopo ben 27 mesi, emerse dal Conclave all'unanimità, il nome di Pietro Angeleri. Era il 5 luglio 1294.
Occorre chiedersi le ragioni che avevano indotto il Sacro Collegio ad eleggere Papa un semplice frate eremita, completamente privo di esperienza e totalmente estraneo alle problematiche della Santa Sede. Per di più, vi è da chiedersi le ragioni di un'elezione avvenuta a voti unanimi.
L'ipotesi più attendibile che si può avanzare è quella di un tacito accordo fra tutti i prelati al fine di rinviare nel tempo la nomina di un Papa vero e nel contempo tacitare l'opinione pubblica e le monarchie più potenti d'Europa, vista l'impossibilità di eleggere un porporato.
Probabilmente, però, i cardinali pervennero a questa soluzione pensando anche di poter gestire, ciascuno a modo suo, la totale inesperienza del frate eremita, al fine di trarne vantaggi più o meno cospicui.

Del resto, la presenza nel Collegio di prelati come il Caetani e il Malabranca, molto scaltri, smaliziati ed esperti di intrighi curiali, autorizza a tanto supporre, e la successiva condotta del Caetani lo conferma.
La notizia dell'elezione gli fu recata da tre vescovi, nella grotta sui monti della Maiella, dove il frate risiedeva. Sorpreso dall'inaspettata notizia, il frate, forse anche intimorito dalla potenza della carica, inizialmente oppose un netto rifiuto che, successivamente, si trasformò in un'accettazione alquanto riluttante, avanzata certamente soltanto per dovere di obbedienza.
Appena diffusa la notizia dell'elezione del nuovo Pontefice, Carlo d'Angiò si mosse immediatamente da Napoli e fu il primo a raggiungere il frate. In sella ad un asino tenuto per le briglie dallo stesso Re, Pietro si recò nella città di Aquila (oggi L'Aquila), dove aveva convocato tutto il Sacro Collegio. Qui, nella chiesa di Santa Maria di Collemaggio, fu incoronato il 29 agosto 1294 con il nome di Celestino V.
Uno dei primi atti ufficiali fu l'emissione della cosiddetta Bolla del Perdono, bolla che elargisce l'indulgenza plenaria a tutti coloro che confessati e pentiti dei propri peccati si rechino nella basilica di Santa Maria di Collemaggio della città di L'Aquila dai vespri del 28 agosto al tramonto del 29. Fu così istituita la Perdonanza, celebrazione religiosa ancora oggi tenuta nel capoluogo abruzzese. In pratica Celestino V istituì a Collemaggio un prototipo del Giubileo, successivamente copiato dal successore.
Il nuovo Pontefice si affidò, incondizionatamente, nelle mani di Carlo d'Angiò, nominandolo "maresciallo" del futuro Conclave. Ratificò immediatamente il trattato tra Carlo d'Angiò e Giacomo d'Aragona, mediante il quale fu stabilito che, alla morte di quest'ultimo, la Sicilia sarebbe ritornata agli angioini. Il 18 settembre 1294 indisse il suo primo e unico Concistoro, nel quale nominò ben 13 nuovi cardinali, di cui nessuno romano.
Dietro consiglio di Carlo d'Angiò, trasferì la sede della Curia da Aquila a Napoli fissando la sua residenza in Castel Nuovo, dove fu allestita una piccola stanza, arredata in modo molto semplice e dove egli si ritirava spesso a pregare e a meditare.
Probabilmente, nel corso delle sue frequenti meditazioni, dovette pervenire, poco a poco, alla decisione di abbandonare il suo incarico. In ciò sostenuto forse anche dal parere del cardinal Caetani, esperto di diritto canonico, il quale riteneva pienamente legittima una rinuncia al pontificato.
Circa quattro mesi dopo la sua incoronazione, nonostante i numerosi tentativi per dissuaderlo, avanzati da Carlo d'Angiò, il 13 dicembre 1294, Celestino V, nel corso di un Concistoro, diede lettura di una bolla, appositamente preparata per l'occasione, nella quale si contemplava la possibilità di una abdicazione del Pontefice per gravi motivi. Dopo di che recitò la formula della rinuncia al Soglio Pontificio:
« Ego Caelestinus Papa Quintus motus ex legittimis causis, idest causa humilitatis, et melioris vitae, et coscientiae illesae, debilitate corporis, defectu scientiae, et malignitate Plebis, infirmitate personae, et ut praeteritae consolationis possim reparare quietem; sponte, ac libere cedo Papatui, et expresse renuncio loco, et Dignitati, oneri, et honori, et do plenam, et liberam ex nunc sacro caetui Cardinalium facultatem eligendi, et providendi duntaxat Canonice universali Ecclesiae de Pastore. »
« Io Papa Celestino V, spinto da legittime ragioni, per umiltà e debolezza del mio corpo e la malignità della plebe [di questa plebe], al fine di recuperare con la consolazione della vita di prima, la tranquillità perduta, abbandono liberamente e spontaneamente il Pontificato e rinuncio espressamente al trono, alla dignità, all'onere e all'onore che esso comporta, dando sin da questo momento al sacro Collegio dei Cardinali la facoltà di scegliere e provvedere, secondo le leggi canoniche, di un pastore, la Chiesa Universale. »
La storia ha chiarito poi, che la bolla pontificia contenente tutte le giustificazioni per una abdicazione del Papa, era stata compilata "ad hoc" proprio dal cardinal Caetani, il quale intravedeva in questa vicenda la possibilità di ascendere egli stesso al soglio pontificio con notevole anticipo sui tempi che egli aveva preventivato al momento in cui aveva aderito all'elezione di Pietro da Morrone.
Undici giorni dopo le sue dimissioni, il Conclave, riunito a Napoli in Castel Nuovo, elesse il nuovo Papa nella persona del cardinal Benedetto Caetani, laziale di Anagni. Aveva 59 anni, circa, e assunse il nome di Bonifacio VIII.
Caetani, che era stato l'artefice delle dimissioni di Celestino V, temendo uno scisma da parte dei cardinali filo-francesi a lui contrari mediante la rimessa in trono di Celestino V, diede disposizioni affinché l'anziano frate fosse messo sotto controllo temendone un rapimento da parte dei suoi nemici. Questi, venuto a conoscenza della decisione del nuovo Papa, tentò una fuga verso oriente, ma il 16 maggio 1295 fu catturato presso Santa Maria di Merino da Guglielmo l'Estendard, Connestabile del Regno di Napoli.
Pietro Angelari da Morrone fu rinchiuso nella rocca di Fumone, in Ciociaria, dove morì il 19 maggio 1296: la versione ufficiale sostiene che l'anziano uomo sia morto dopo aver recitato, stanchissimo, l'ultima messa. La teoria secondo la quale Bonifacio ne avrebbe ordinato l'assassinio è priva di fondamento. Pochi anni dopo, il 5 maggio 1313 fu canonizzato da papa Clemente V, a seguito di sollecitazione da parte del re di Francia Filippo IV Capeto, detto "il bello".
Nel 1327 le sue spoglie furono traslate nella basilica di Santa Maria di Collemaggio, presso L'Aquila; nella chiesa, cioè, dove era stato incoronato Papa. Il 18 aprile 1988 la salma di Celestino V fu rubata. Due giorni dopo, venne ritrovata nel cimitero di Rocca Passa, nel comune di Amatrice. Non si sono mai scoperti i mandanti, gli esecutori o i motivi.
Così scrive Dante Alighieri nel terzo canto dell'Inferno:
"E io, che riguardai, vidi una 'nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d'ogne posa mi parea indegna;
e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch'i' non averei creduto
che morte tanta n'avesse disfatta.
Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l'ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto."
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Anno del Signore 1295
Scarpetta Ordelaffi (... – 1317) figlio di Teobaldo Ordelaffi, ghibellino, diventa signore di Forlì, inaugurando così il dominio del suo casato su quella città, fino al 1504.
Nel 1296, come capitano generale dei ghibellini della Romagna contro le truppe pontificie, prese parte all'assedio di Imola, atto che gli valse la scomunica, insieme a tutta la sua famiglia ed a Maghinardo Pagani. Fu anche a capo della fazione dei Bianchi ghibellini. In questa veste tentò di ottenere il ritorno degli esuli cacciati da Firenze dai Neri, organizzando, in qualità di capo dei ghibellini, la spedizione che si concluse con la seconda sconfitta del Mugello nel 1302. Tra i fuoriusciti vi era anche Dante, che Scarpetta ospitò nel 1303, dandogli anche un lavoro come segretario.
Nello stesso 1303, ci fu la battaglia presso Castel Puliciano, che vide i due fronti opposti guidati entrambi da un forlivese: per i fuoriusciti fiorentini ed i ghibellini, appunto, Scarpetta; per la città di Firenze, il podestà Fulcieri da Calboli. Ecco come introduce l'episodio Dino Compagni: "La terza disaventura ebbono i Bianchi e Ghibellini (la quale gli accomunò, e i due nomi si ridussono in uno) per questa cagione: che essendo Folcieri da Calvoli podestà di Firenze, i Bianchi chiamorono Scarpetta degli Ordalaffi loro capitano, uomo giovane e temperato, nimico di Folcieri". I due, in effetti, erano già avversari in patria, a Forlì, dove prevalse il partito degli Ordelaffi. Ma, nella battaglia in questione, il vincitore fu Fulcieri.
Nel 1306, Scarpetta prese il castello di Bertinoro insieme al fratello Pino. Alla sua morte gli successe il fratello Cecco (Francesco) e dopo di lui i figli del fratello Sinibaldo Ordelaffi.
La famiglia Ordelaffi è di probabile origine germanica o veneta. Nelle cronache cittadine un Ordelaffi viene citato per la prima volta alla metà del XII secolo, essendosi trasferito in città, nella contrada Santa Croce, dai propri possedimenti nel contado.
Come signori di Forlì sono citati nella Divina Commedia di Dante, (Inf.XXVII, 45: La terra che fé già la lunga prova / e di Franceschi sanguinoso mucchio, / sotto le branche verdi si ritrova).
Nella citazione le "branche verdi" sono gli artigli del leone rampante dello stemma familiare degli Ordelaffi.
"E io, ch'avea già pronta la risposta,
sanza indugio a parlare incominciai:
"O anima che se' là giù nascosta, 36
Romagna tua non è, e non fu mai,
sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni;
ma 'n palese nessuna or vi lasciai. 39
Ravenna sta come stata è molt'anni:
l'aguglia da Polenta la si cova,
sì che Cervia ricuopre co' suoi vanni. 42
La terra che fé già la lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi si ritrova. 45
E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,
là dove soglion fan d'i denti succhio. 48
Le città di Lamone e di Santerno
conduce il lïoncel dal nido bianco,
che muta parte da la state al verno."

Anno del Signore 1296
Con la bolla Clericis laicos di papa Bonifacio VIII (Anagni, 1230 circa – Roma, 11 ottobre 1303), si assiste al il primo dissidio tra il re di Francia Filippo IV il Bello (Fontainebleau, 1268 – Fontainebleau, 29 novembre 1314) ed il papa.
La Clericis laicos vietava a tutti gli ecclesiastici di pagare qualsiasi imposta ai poteri secolari senza l’approvazione pontificia, e a questi di imporre tasse sul clero senza la medesima approvazione. Si trattava di una vicenda finanziaria, ma anche e sopratutto di una questione di sovranità. I re di Francia e d’Inghilterra erano in guerra e il pressante bisogno di denaro aveva spinto sia l’uno che l’altro a cercare nuovi modi per tassare il clero.
Filippo il Bello aveva ottenuto nel gennaio 1296 da un’assemblea di baroni e di prelati una contribuzione eccezionale di un cinquantesimo di tutti i patrimoni mobili e immobili, inclusi quegli ecclesiastici. Con questo nuovo tipo di tassa, giustificata dagli imperativi della difesa del regno, si poteva aggirare il principio dell’autorizzazione papale, la quale era riconosciuta necessaria per l’imposta tradizionale sul reddito del clero, cioè sulla decima (che teoricamente era destinata alla Crociata).
In risposta, la Clericis laicos colmava in modo assolutamente radicale il vuoto legislativo creato dalla nuova tassa: la bolla prevedeva la scomunica automatica non solo per chiunque avesse tassato i chierici senza l’accordo del papa, ma anche per chiunque avesse accettato di pagare. Bonifacio, con la Clericis laicos, si arrogava il diritto di sindacare la legittimità e anche la necessità della tassazione stessa, e con ciò veniva a ledere i diritti sovrani in campo fiscale, anche se bisogna sottolineare che tali “diritti sovrani” non erano ereditati dal passato, bensì in corso di costituzione.
I provvedimenti della Clericis laicos valevano per tutti i poteri secolari d’Occidente. Tra l’altro colpivano pure il re d’Inghilterra, il quale poco prima aveva imposto una nuova decima senza riferirne al papa. Tuttavia la reazione più viva fu quella del re di Francia che emanò nell’agosto 1296 un’ordinanza con cui proibiva l’esportazione di certi prodotti e valori fuori dal regno, paralizzando l’intero sistema dei trasferimenti di denaro dalle chiese di Francia alla Sede apostolica. Dapprima, Bonifacio VIII rispose con durezza, con la bolla Ineffabilis amoris (20 settembre 1296), ma presto seguì un periodo di distensione. Per ragioni legate al contesto internazionale, Bonifacio giudicò poco opportuno di inasprire il contrasto e decise di fare marcia indietro.
Il riavvicinamento fra il papa e Filippo venne coronato dalla canonizzazione di Luigi IX, avvenuta l’11 agosto 1297. Questa distensione si interruppe nel settembre 1301, quando Filippo il Bello fece arrestare il vescovo di Pamiers Bernard Saisset, a dispetto della giurisdizione ecclesiastica.

Anno del Signore 1297
A Venezia viene emanato un provvedimento chiamato "Serrata del Maggior Consiglio", con il quale si stabilisce che possono partecipare al Consiglio solo esponenti delle famiglie che già vi appartenevano. La legge, creata per escludere dal governo di Venezia le famiglie di più recente ricchezza, divenne in seguito permanente (anche se vi furono parziali aperture alle famiglie di recente nobiltà durante le più gravi crisi, come ad esempio dopo la guerra contro la Lega di Cambrai.
Con la costituzione del Comune di Venezia a fianco del Doge era stato posto un Consilium Sapientium nominato dall'assemblea popolare, la Concio. Nel 1172 tale organo era stato trasformato in un'assemblea sovrana, il Maggior Consiglio, in pratica funzionante come estensione permanente dell'assemblea popolare, di durata annuale e rinnovo il 29 settembre, giorno di San Michele Arcangelo.
Nel 1207 si era stabilito di affidare la nomina annuale dei consiglieri a tre elettori, scelti dalla concio. Nel 1230 questi erano stati elevati a sette, ma tale numero non fu mai fisso. L'assemblea, per ovvie ragioni, presentava un tratto molto più marcatamente patrizio rispetto all'assemblea popolare e in breve nel corpo della nobiltà si formarono due partiti: uno popolare, favorevole al mantenimento dello status quo, ed uno aristocratico, intenzionato ad escludere l'accesso di nuove famiglie al potere.
La volontà delle famiglie aristocratiche e di assicurarsi con maggiore stabilità e continuità la partecipazione al governo della Repubblica, era divenuta nel tempo sempre pià forte.
Il 5 ottobre 1286, doge Giovanni Dandolo, il partito aristocratico aveva proposto una legge per riformare l'elezione del Maggior Consiglio e circoscrivere alle famiglie già il potere l'accesso all'assemblea: si chiedeva di sottoporre all'approvazione del Doge, del Minor Consiglio e della Quarantia, l'elezione di nuovi membri che non vantassero ascendenti paterni tra i membri del Maggior Consiglio. La proposta era stata clamorosamente respinta. Il 17 ottobre si era quindi avanzata una soluzione meno radicale, chiedendo che l'elezione dei nuovi membri fosse sottoposta all'approvazione della maggioranza uscente, ma nemmeno questa aveva trovato accoglimento.
Il 25 novembre 1289 era stato eletto nuovo doge Pietro Gradenigo, capo del partito aristocratico.
Gli ci vollero sei anni prima di sentirsi in condizione di ripresentare la proposta di chiusura del Consiglio, ma alla fine, il 6 marzo 1296, la legge venne messa ai voti. Seppure con un margine risicato, la proposta venne ancora una volta respinta.
Il 29 settembre di quell'anno, il Maggior Consiglio venne dunque rinnovato come da tradizione, con la nomina di quattro elettori incaricati di scegliere i nuovi membri dell'assemblea: si trattava però dell'ultima volta. Il nuovo consiglio si mostrò infatti propendere con maggior decisione per la parte aristocratica.
Presentata per la terza volta il 28 febbraio 1296 more veneto, la legge di chiusura venne infine approvata.
Questo provvedimento apriva di diritto il Maggior Consiglio a tutti coloro che già ne avessero fatto parte nei quattro anni precedenti e, ogni anno, a quaranta sorteggiati tra i loro discendenti.
La legge prescriveva quanto segue:
-si ordinava alla Quarantia di stilare un elenco di quanti fossero appartenuti al Maggior Consiglio nei quattro anni precedenti, tra i quali nominare i nuovi membri dell'assemblea;
-si affidava altresì alla medesima Quarantia l'elezione dei nuovi membri del Maggior Consiglio, considerando sufficienti dodici voti per l'approvazione della nomina e la presenza di almeno trenta membri della Quarantia, assieme ad un preavviso di almeno tre giorni sulla votazione;
-i membri eletti sarebbero rimasti in carica sino al seguente giorno di San Michele (29 settembre 1297), quando sarebbero stati sottoposti a nuova votazione per la proroga annuale, e così di anno in anno;
quanti avessero dovuto, trovandosi fuori dal Dogado, rinunciare per un certo periodo a sedere nel Maggior Consiglio, vi sarebbero stati riammessi dopo nuova votazione della Quarantia;
-la scelta di nuovi candidati al Maggior Consiglio veniva affidata ad una commissione di tre elettori, nominati dal Maggior Consiglio con incarico annuale, e all'approvazione della Quarantia;
-la presente legge sarebbe stata revocabile solo con l'approvazione di almeno cinque Consiglieri Ducali, venticinque membri della Quarantia e di due terzi del Maggior Consiglio;
-la legge sarebbe stata sottoposta a verifica tramite votazione venticinque giorni prima del giorno di San Michele dell'anno seguente (4 settembre 1298), pena, per i consiglieri, il pagamento di una multa da esigersi da parte degli Avogadori de Comùn.
Come richiesto, la legge venne confermata nel settembre 1298 e nuovamente il 30 settembre 1299. Tuttavia essa non rimase priva di conseguenze nei rapporti politici tra il partito aristocratico e il parito popolare.
Nel 1300 Marin Bocconio ordì una congiura, fallita, contro il Doge e il governo. Il 22 marzo dello stesso anno, quindi, da parte sua, il partito aristocratico pose nuove limitazioni all'ingresso di uomini nuovi in seno al Maggior Consiglio, richiedendo per loro almeno venti voti favorevoli da parte della Quarantia.
Tali limitazioni furono poi ulterirmente rafforzate poi, nel 1307. Ma in risposta, tre anni dopo, nel 1310, il nobile Bajamonte Tiepolo ordì una nuova e pericolosissima congiura contro il governo aristocratico, sventata d'un soffio dal Doge, il sempreverde Pietro Gradenigo.
Il governo reagì creando una nuova magistratura speciale per la repressione delle minacce contro l'ordine costiuzionale: il Consiglio dei Dieci.
Nel 1315 si ordinò quindi la creazione di un Libro d'Oro in cui iscrivere, al compimento dei diciotto anni, i nomi di quanti avrebbero avuto diritto di accedere al Maggior Consiglio. Seguito, nel 1316, da norme ancora più restrittive riguardanti gli homini novi.
Nel 1319 si ebbe la stretta finale. Si procedette ad un'attento veglio della validità dei titoli degli iscritti nel Libro d'Oro, dopodiché si procedette ad abolire la possibilità di eleggere nuovi membri del Consiglio, stabilendo che l'automatico accesso al Maggior Consiglio per tutti i patrizi maschi al compimento dei 25 anni d'età, con l'eccezione per trenta di loro, sorteggiati ogni anno nel giorno di Santa Barbara, di accedervi già al compimento dei vent'anni: il Maggior Consiglio diveniva definitivamente un'assemblea chiusa ed ereditaria.
Nel 1423 il Maggior Consiglio aboliva anche formalmente l'ormai inutile Concio popolare, rimanendo così assoluto padrone dello Stato.
In Scozia ha luogo la battaglia di Stirling Brigde, tra gli scozzesi in rivolta guidati da Sir William Wallace (Elderslie, 1270 – 23 agosto 1305) e gli inglesi occupanti di Edoardo I Plantageneto (Westminster, 17 giugno 1239 – Cumberland, 7 luglio 1307).
Gli scozzesi arrivarono nella piana di Stirling Bridge diverse ore prima dell'esercito inglese e quindi ebbero il tempo necessario per preparare una strategia. Nonostante l'esercito inglese, formato da arcieri (longbowman), migliaia di fanti e un gran numero di cavalieri pesanti fosse il triplo del loro, gli scozzesi, guidati da William Wallace, non si persero d'animo, ma rimasero fermi ai loro posti e, dopo aver atteso la salva degli arcieri, diedero l'ordine alla cavalleria di ritirarsi dietro lo schieramento per attaccare i nemici dai lati.
Il comandante inglese John de Warenne, conte del Surrey, convinto che la cavalleria scozzese si stesse ritirando, diede l'ordine alla propria cavalleria pesante di sfondare le linee nemiche, ma i picchieri scozzesi riuscirono a bloccare efficacemente l'attacco, caricandoli a loro volta. Warenne, deciso a dare il tutto per tutto, fece avanzare la fanteria, che però in questo modo si espose totalmente al tiro delle frecce degli arcieri scozzesi, che erano usciti da dietro lo schieramento, alla fanteria e alla cavalleria che era tornata di nascosto e aveva fatto strage degli arcieri inglesi.
Hugh de Cressingham, il secondo di Warenne, tentò di ritirarsi e fuggire, ma fu raggiunto e ucciso da William Wallace insieme a migliaia di inglesi.

Anno del Signore 1298
La flotta genovese, guidata da Lamba Doria (Genova, 1245 – 1323), sconfigge quella veneziana di Andrea Dandolo nei pressi dell'isola di Curzola, di fronte alle coste della Croazia centrale. A seguito di numerose azioni diplomatiche che avevano coinvolto Genova e Costantinopoli da un lato, e Venezia e Carlo d'Angiò dall'altro, l'ostilità tra le due repubbliche era massima. Volendo accaparrarsi alcune colonie sul Mar Nero, i veneziani iniziarono una trattativa con il Khan dei Tartari, in Crimea. Gli scontri con Genova non si fecero attendere: i veneziani distrussero alcuni fondaci genovesi a Limassol e a Famagosta, mentre Nicolò Spinola portò la flotta genovese a catturare venticinque galee veneziane nel porto di Alessandretta. Una prima spedizione genovese nel 1295 di 160 galee guidate da Oberto Doria, decisa a distruggere definitivamente la flotta veneziana, fu costretta a tornare in patria a causa di una delle tante lotte intestine che tormentavano la Genova medievale. Venezia ne approfittò per attaccare i possedimenti liguri di Petra, Focea, Cipro e Caffa. Infine la Repubblica ligure diede al suo nuovo Capitano del Popolo Lamba Doria il comando di 78 galee per attaccare la flotta veneziana, anche "a costo di stanarla nella sua stessa laguna". L'8 settembre 1298, vicino a Zara, 95 galee veneziane decisero di attaccare i genovesi.
La formazione ligure era a favore di vento e a "voga arrancata" (ovvero la massima velocità raggiungibile da una galea); piombò in formazione serrata sullo schieramento di Venezia, rompendone i ranghi. Memore del successo alla Battaglia della Meloria, Doria lasciò in disparte 15 delle 78 galee come rinforzo, nonostante l'alto rischio: i genovesi infatti erano in netta inferiorità numerica. La battaglia fu particolarmente sanguinosa, più ancora del precedente scontro del 1284 contro i pisani, dove i genovesi erano invece in vantaggio. Abbordare o affondare i legni veneziani costò caro in termini di perdite umane, alla flotta della "Superba".
I veneziani si videro affondate 65 galee, catturate 18; i morti tra i veneti furono settemila, altrettanti i prigionieri, tra cui Marco Polo, che tornato dal suo viaggio nel Catai era stato insignito dell'onore del comando di una delle galee. Ironia della sorte, dividerà la cella con Rustichello da Pisa, prigionerio della Meloria, al quale Polo dettò il suo "Milione". L'ammiraglio veneziano (Si dice che fosse il Doge in persona, anche se esistono versioni contrastanti di questo fatto) cadde altresì prigioniero, e pare si sia tolto la vita prima di essere portato a Genova "rompendosì il cranio contro il banco cui era stato incatenato", anche se l'ipotesi pare poco credibile, e viene indicata come una leggenda. L'ammiraglio ligure Lamba Doria invece, perse un figlio nella battaglia, e lo fece seppellire in quel tratto di mare, affermando che non avrebbe potuto avere tomba migliore di quella.
Come si è detto, le perdite per Genova erano state elevate, e la flotta decise di tornare in patria, rinunciando ad attaccare Venezia stessa, fatto che secondo alcuni storici avrebbe potuto determinare il declino completo della "Serenissima". Non andò così e le due repubbliche stremate, vennero alla soluzione diplomatica.
Nel 1299 infine fu firmata la pace tra Genova e Venezia, senza vincitori né vinti. Dopo Curzola, sia Genova che Venezia sono esauste e per loro inizia la fase di una lunga decadenza; nuove forze si affacciano sul Mediterraneo, in particolare i Catalani.
Un secondo conflitto tra la "Superba" e la "Serenissima" passato alla storia come guerra di Chioggia si svolse tra il 1379 ed il 1381 durante il quale i Genovesi riuscirono in un primo tempo a conquistare vaste zone della laguna veneziana ed in seguito la ripresa da parte di Venezia di Chioggia e delle citta' istriane, a cui seguì, nel 1381, la Pace di Torino. L'esito della guerra costrinse Genova a rinunciare ai possedimenti terrestri conquistati a scapito dei veneziani. Ciò contribuì a rinfocolare ulteriormente le lotte intestine che accompagnarono la Superba lungo tutta la sua storia. Venezia, alleggerita dall'incessante pressione della Superba, poté riprendere i suoi commerci con l'Oriente ed espandersi sulla terraferma intorno a Venezia verso Ovest, mentre Genova si dedicò, oltre a governare le proprie colonie e le rotte commerciali nel Mediterraneo, anche ai mercati finanziari, effettuando prestiti ingenti tra gli altri al Regno di Spagna e all'Impero Asburgico. Le due Repubbliche avevano trovato nuovi campi da conquistare, scelte sempre più forzate soprattutto dopo la caduta di Bisanzio ad opera degli Ottomani. Genovesi e Veneziani si trovarono infatti a combattere assieme nella battaglia di Lepanto, contro l'aggressivo Impero Turco. Con la Guerra di Chioggia infine, si concluse l'epoca dei grandi scontri tra le due potenze marinare.
In Inghilterra re Edoardo I Plantageneto con la vittoria di Falkirk, riconquista la Scozia in rivolta.
Sebbene vittorioso in questo che fu lo scontro più importante delle Guerre di indipendenza scozzese, Edoardo non riuscì a portare a termine la sottomissione della Scozia, perché il suo esercito fu indebolito dalla tattica della terra bruciata messa in atto da Wallace prima della battaglia.
Mentre era impegnato a combattere in Francia, re Edoardo apprese che la sua armata del nord era stata pesantemente sconfitta dai ribelli scozzesi nella battaglia di Stirling Bridge. Conclusa una tregua con re Filippo il Bello di Francia, nel marzo 1298 veleggiò subito in patria per organizzare un esercito con cui invadere di nuovo la Scozia. Come prima mossa, il sovrano inglese spostò il centro di governo a York (funzione che mantenne poi per sei anni). In aprile, nella città fu tenuto un consiglio di guerra per mettere a punto gli ultimi dettagli dell'invasione. Edoardo convocò tutti i nobili scozzesi, dichiarando poi come traditori quelli che non si erano presentati. Le truppe furono riunite a Roxburgh il 25 giugno. Si trattava di un'armata imponente: 2.000 cavalieri e 12.000 fanti, tra cui gallesi armati con arco lungo.
In giugno l'esercito marciò verso il nord, ma le cose non andarono come previsto. Wallace, che era stato nominato Guardiano di Scozia, ordinò di fare terra bruciata davanti agli inglesi, così da togliere agli invasori ogni possibilità di approvvigionamento. La situazione andò precipitando e l'esercito inglese si trovò stretto dai morsi della fame, al punto che andava serpeggiando il germe della ribellione, soprattutto tra i gallesi. Mentre si trovava nei pressi di Edimburgo e stava per decidere l'ignominiosa ritirata, ricevette la notizia che Wallace si era attestato nel bosco di Callendar vicino a Falkirk, a sole tredici miglia di distanza, pronto a inseguire il nemico in ritirata.
L'esercito scozzese, di nuovo composto soprattutto da lancieri, come a Stirling, fu organizzato in quattro grandi formazioni a porcospino, conosciute come schiltron. Lo spazio tra queste quattro formazioni fu occupato dagli arcieri, armati con l'arco corto scozzese. Dietro, una piccola truppa di cavalleria leggera, composta da uomini del clan Comyn e da altri nobili.
Martedì 22 luglio, la cavalleria inglese, divisa in tre battaglioni, giunse in vista dell'esercito scozzese. L'ala sinistra era comandata da Roger Bigod, conte di Norfolk e dai conti di Hereford e Lincoln. Quella destra era agli ordini di Anthony Bek, vescovo di Durham, mentre il re comandava. Lo scontro fu durissimo: la cavalleria inglese, che era andata all'attacco in maniera frettolosa, fu respinta. Intanto, però quella scozzese si diede alla fuga. Edoardo riuscì a riportare ordine tra le sue truppe, mentre gli schiltron, trovandosi senza alcuna copertura, furono dapprima un facile bersaglio per gli arcieri nemici e vennero poi di nuovo caricati dalla cavalleria inglese, che questa volta eseguì alla lettera gli ordini del re. Gli scozzesi furono decimati. Wallace riuscì a sopravvivere e a scappare.
Questa sanguinosa battaglia segnò la fine del carisma e della credibilità di Wallace, anche se gli inglesi non riuscirono a portare avanti la campagna, perché indeboliti dalla tattica della terra bruciata che lo scozzese aveva messo in atto. Edoardo ordinò all'esercito di ritirarsi a Carlisle nella speranza di dare respiro alla truppe. Ma molti disertarono e ciò costrinse il sovrano inglese a far smobilitare la maggior parte del suo esercito, anche se lui restò sul confine scozzese fino alla fine dell'anno. Quindi se ne ritornò a sud senza essere riuscito a chiudere definitivamente la partita con gli scozzesi.

Anno del Signore 1299
Arnolfo di Cambio (Colle di Val d'Elsa, circa 1240 – 1302) inizia la costruzione di Palazzo Vecchio a Firenze.
Alla fine del XIII secolo la città di Firenze decise di costruire un palazzo in modo da assicurare ai magistrati un'efficace protezione in quei tempi turbolenti, ed al contempo celebrarne l'importanza. Il palazzo è attribuito a Arnolfo di Cambio, architetto del Duomo e della chiesa di Santa Croce, che iniziò a costruirlo nel 1299. Il palazzo al tempo chiamato Palazzo dei Priori fu costruito sulle rovine del Palazzo dei Fanti e del Palazzo dell'Esecutore di Giustizia, già posseduto dalla famiglia ghibellina degli Uberti, cacciata nel 1266. Incorporò l'antica torre della Vacca utilizzandola come parte bassa della torre nella facciata. Questa è la ragione per cui la torre rettangolare (94 m) non è nel centro dell'edificio. Dopo la morte di Arnolfo nel 1302, il palazzo fu portato a termine da altri due maestri, nel 1314. Inoltre nei sotterranei venivano usate come prigioni le antiche cavità sotto le arcate del teatro romano di Florentia.
Dal 26 marzo 1302 (a inizio dell'anno secondo il calendario fiorentino) il palazzo fu la sede della Signoria, ovvero del consiglio cittadino con a capo i Priori, e del gonfaloniere di giustizia, una via di mezzo tra un sindaco e un capo di governo con una carica che però durava per un periodo molto breve. La prima fase costruttiva si concluse nel 1315.
Il palazzo attuale è però frutto di altre costruzioni e ampliamenti successivi, portati a termine fra il XIII ed il XVI secolo. Il Duca di Atene, Gualtieri VI di Brienne iniziò le prime modifiche nel periodo (1342-1343), ingrandendolo verso via della Ninna e dandogli l'aspetto di una fortezza. Altre modifiche importanti avvennero nel periodo 1440-60 sotto Cosimo de' Medici, con l'introduzione di decorazioni in stile rinascimentale nella Sala dei Dugento ed il primo cortile di Michelozzo. Il Salone dei Cinquecento fu costruito invece dal 1494 durante la repubblica di Savonarola.

Anno del Signore 1300
Si sta svolgendo un grandioso Giubileo a Roma, dove si vanno raccolgiendo pellegrini da ogni dove; discendono dalla via francigena molte genti da abbisognare di tutto, un ottima occasione per procurare denari al tesoriere del Papa...
L'eretico Gerardo Segalello, fondatore della setta religiosa degli Apostolici è condannato al rogo.
Il movimento apostolico di Gherardino Segalello (arso al rogo il 18 luglio 1300 a Parma), come altri movimenti pauperistici della prima riforma (XII-XIV secolo) fu caratterizzato dalla volontà di adeguare l’apostolicità (cioè “il vivere come gli Apostoli”) dalla teoria alla prassi. Rifiuto, quindi, della Chiesa di potere, ricca, gerarchica, qual era la Cattolica Romana, e il ritorno al messaggio evangelico teso all’avvento del Regno, e cioè all’impegno per la costruzione di una società giusta, di liberi ed eguali.
La parola d’ordine era “penitentiàgite”, intesa non in senso devozionale, ma di azione liberatoria dalle servitù del mondo, perché l’età dello Spirito, preconizzata da Gioachino da Fiore, è prossima. Dove soffia lo Spirito Divino, lì è libertà.
E’ questa un’intuizione teologica, del tutto moderna, nella differenziazione tra “fede” che libera, e “religione” di potere che con le sue gerarchie, con l’obbligo di obbedire agli uomini anziché a Dio, sequestra Dio a pro della casta sacerdotale, e “lega” il credente. Gli Apostolici “liberano” Dio dai recinti del sacro, e lo restituiscono al popolo, come amico e compagno di viaggio dei poveri e dei perseguitati.
Papa Bonifacio VIII (Anagni, 1230 circa – Roma, 11 ottobre 1303) bandisce il primo Giubileo.
Ispirandosi alla Perdonanza istituita dal suo predecessore istituì l'Anno Santo, nel quale assicurava indulgenza plenaria per tutti quelli che avessero fatto visita alle Basiliche di San Pietro e San Paolo fuori le mura. L'Anno Santo fu indetto il 22 febbraio 1300, con la bolla Antiquorum habet fidem, nella quale era anche stabilito che l'Anno Santo si sarebbe ripetuto, in futuro, ogni cento anni.
A parte la diffusa e sentita necessità di indulgenza di quel periodo (esempio le stesse crociate offrivano questo beneficio) l'afflusso dei pellegrini a Roma, da tutto il mondo, significava un notevole apporto di denaro, esaltava la magnificenza di Roma e consolidava il primato ed il prestigio del Pontefice. Alcuni commentatori ritengono che, terminato il conflitto con i Colonna, e non avendo ancora concluso la pace con Filippo IV, il Papa temeva il blocco delle "decime", ed istituì il Giubileo proprio per motivi finanziari.
Senz'altro notevole fu l'afflusso di danaro ma non ricevette l'omaggio dei Sovrani d'Europa (fu per lui una grossa delusione). Queste assenze stavano a significare che la sua aspirazione di riunire nelle sue mani sia il potere spirituale che quello temporale era soltanto una illusione.
Muore il poeta fiorentino Guido Cavalcanti (Firenze, 1255c. – Firenze, 29 agosto 1300).
Guido Cavalcanti nacque a Firenze intorno all'anno 1255 in una nobile famiglia guelfa di parte bianca che nel 1260 fu travolta dalla sconfitta guelfa di Montaperti. Sei anni dopo, in seguito alla disfatta dei ghibellini nella battaglia di Benevento, i Cavalcanti riacquistano la preminente posizione sociale e politica a Firenze. Nel 1267 Guido si sposa con Bice, figlia di Farinata degli Uberti, capo della fazione ghibellina. Da Bice Guido avrà i figli Tancia e Andrea. Nel 1280 Guido è tra i firmatari della pace tra guelfi e ghibellini e quattro anni dopo siede nel Consiglio generale al Comune di Firenze insieme a Brunetto Latini e Dino Compagni. Il 24 giugno 1300 Dante Alighieri, priore di Firenze, è costretto a mandare in esilio l'amico Guido con i capi delle fazioni bianca e nera in seguito a nuovi scontri. Cavalcanti si reca allora a Sarzana e si pensa che fu allora che scrisse la celebre ballata Perch'i' no spero di tornar giammai. Il 19 agosto gli è revocata la condanna per l'aggravarsi delle sue condizioni di salute (ha forse contratto la malaria). Il 29 agosto muore, pochi giorni dopo essere tornato a Firenze.
È ricordato - oltre che per i suoi componimenti - per essere stato citato da Dante (del quale fu amico assieme a Lapo Gianni) nel celebre nono sonetto delle Rime "Guido, i'vorrei che tu, Lapo ed io". Dante lo ricorda anche nella Divina Commedia (Inferno, canto X e Purgatorio, canto XI) e nel De vulgari eloquentia, mentre Boccaccio lo cita nel Commento alla Divina Commedia e in una novella del Decameron.
I componimenti pervenuteci di Cavalcanti sono 52, tra cui 36 sonetti, 11 ballate e 2 canzoni. I temi delle sue opere sono quelli cari agli stilnovisti; in particolare la sua canzone "manifesto" Donna me prega è incentrata sugli effetti prodotti dall'amore, che si impossessa dell'anima generando paura e sconforto; la [donna], avvolta come da un alone mistico, rimane così irraggiungibile e il dramma si consuma nell'animo dell'amante.
Il poetare di Cavalcanti, dal ritmo soave e leggero che può sembrare banale, nasconde in realtà una grande retorica.
Tu m'hai s' piena di dolor la mente
"Tu m'hai s' piena di dolor la mente,
che l'anima si briga di partire,
e li sospir' che manda 'l cor dolente
mostrano agli occhi che non può soffrire.
Amor, che lo tuo grande valor sente,
dice: - E' mi duol che ti convien morire
per questa fiera donna, che nïente
par che piatate di te voglia udire - .
I' vo come colui ch'è fuor di vita,
che pare, a chi lo sguarda, ch'omo sia
fatto di rame o di pietra o di legno,
che si conduca sol per maestria
e porti ne lo core una ferita
che sia, com' egli è morto, aperto segno."
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UNIONE CRISTIANI E ORTODOSSI

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Quasi sicuramente inserirò nelle carte EVENTI la possibilità per i Regni di religione ortodossa di riunirsi ai cristiani di Roma ... more info qui:

https://www.medioevouniversalis.org/phpB ... 5097#p5096

Il 6 luglio 1274 si svolse la quarta sessione del Concilio di Lione II, dedicata all’unione con i greci. Gregorio X, dove aver riassunto tutti i negoziati precedenti, affermava che i greci « venivano liberamente all’obbedienza della Romana ecclesia ». I delegati greci ripeterono l’atto di obbedienza e professione di fede, già formulato dall’imperatore a Costantinopoli nel mese di febbraio precedente.

Con questo EVENTO, darò la possibilità ai bizantini (SET BASE) e ai russi di Novgorod (SET ESPANSIONE) di ricongiungersi sotto la fede cristiana di Roma...

... adesso devo pensare ai PRO e i CONTRO accettando quest'evento

E magari dare la possibilità anche al Khanato dell'Orda d'Oro di cambiare religione: cristiani o musulmani...
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GILDE e MERCANTI

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Devo ricordarmi che le carte EVENTI dovranno colpire tutta la componentistica del gioco.

Possibile carta evento: se non hai GILDE, perdi tutti i MERCANTI.
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EVENTI per Ordini Religiosi Cavallereschi da M2TW

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TEMPLARI

Da questo momento, tutte le sedi dell'Ordine dei Templari, dichiarati eretici dal Papa, saranno smantellate e i ricavi verranno incamerati da ciascun regno che le ospitava. Tutte le unità templari verranno immediatamente congedate. Sua Santità si compiace della vostra scelta di appoggiare la sua decisione, e vi ricompensa con un ricco dono di 5.000 bisanti ai quali si aggiunge un netto miglioramento dei rapporti diplomatici con lo Stato della Chiesa.
Viene arso sul rogo il Gran Maestro dei Templari Jacques de Molay (Molay, 1243 – Parigi, 18 marzo 1314).
Nacque fra il 1240 e il 1250, figlio del nobile burgundo Jean der Longwy e della figlia del Sire di Rahon. Dato che più luoghi recano il nome Molay, è soltanto per tradizione che si designa come città natale di Giacomo una Molay presso Besançon. Degli anni d'infanzia di Giacomo non si hanno notizie certe.
Nel 1265 Giacomo venne accolto nell'ordine dei Templari a Beaune. A condurre le cerimonie di iniziazione furono Ymbert de Peraudo e Amalric de Ruppe. Soltanto a partire dal 1270 il nome di Giacomo di Molay riaffiora negli annali. Lo si vuole in Outremer, nome con cui in quei tempi veniva chiamata la Terra Santa. Nel 1285 Giacomo di Molay venne nominato Conte di San Giovanni d'Acri, ma nel 1290 si stabilì a Cipro e pertanto non poté partecipare alla difesa di Akkon nel 1291. Ancora nel 1291, in occasione di un Concilio dell'Ordine, Giacomo manifestò la sua insoddisfazione riguardo alla situazione interna all'Ordine e dichiarò il proposito di introdurre cambiamenti. A partire dal 1294 ricoprì la carica di capo dell'Ordine.
Nel corso del processo ai Templari del 1307 fu assoggettato alla tortura avallando le tesi dell'accusa ed in seguito venne condannato alla prigionia a vita. Il sacerdote e studioso di simbolismo cristiano Louis Charbonneau Lassay ipotizzò che i graffiti nella torre del Castello di Chinon fossero opera di Jacques de Molay ed eventualmente di Geoffroy de Charney durante la loro prigionia.
In seguito Jacques de Molay ritrattò le sue dichiarazioni. Ciò lo condannò al rogo assieme al compagno di prigionia Goeffrey de Charney. Il rogo fu consumato a Parigi sull'isola della Senna detta dei giudei, nei pressi di Notre Dame, il 18 marzo dell'Anno Domini 1314. L'aneddotica vuole che prima dell'esecuzione Jacques de Molay abbia invitato Filippo il Bello e papa Clemente V a comparire di fronte al tribunale di Dio. La morte entro l'anno di entrambi i personaggi non fece altro che rafforzare l'idea comune che egli fosse caduto vittima di un'ingiustizia.
Sul luogo della sua esecuzione lo ricorda ancor oggi una piccola lapide. Essa si trova sul lato occidentale del Pont Neuf sulla Île de la Cité di Parigi. La lapide si trova ai piedi del ponte, su muro opposto all'ingresso al parco dell'isola.

L'Ordine dei Templari, dopo le ripetute sconfitte in Terra Santa, si avvia al tramonto: la ragione fondamentale per la quale era nato, due secoli fa, è ormai venuta meno. Il suo scioglimento, tuttavia, non è mosso per via ordinaria dalla Santa Chiesa, ma attraverso una serie di accuse infamanti esposte da Filippo IV il Bello, desideroso di azzerare i propri debiti e impossessarsi del patrimonio templare, riducendo nel contempo il potere della Chiesa.
Le accuse che stanno investendo il Tempio sono infamanti: sodomia, eresia, idolatria. Vengono in particolare accusati di adorare una misteriosa divinità pagana, il "Bafometto" o "Banfometto", che in lingua occitana significa Maometto. Nelle carceri, molti degli arrestati sono già stati torturati e costretti ad ammettere l'eresia. Il 22 novembre 1307 il papa Clemente V, di fronte alle confessioni, con la bolla "Pastoralis præminentiæ" ha ordinato a sua volta l'arresto dei templari in tutta la cristianità.
Il 12 agosto 1308 con la bolla "Faciens misericordam" sono state definite le accuse portate contro il Tempio. Sono stati avviati diversi processi tesi a dimostrare le colpe dei cavalieri rosso-crociati di Parigi, Brindisi, Penne, Chieti e Cipro. Nel generale clima di condanna c'è l'eccezione rappresentata da Rinaldo da Concorezzo, arcivescovo di Ravenna e responsabile del processo per l'Italia settentrionale: egli ha assolto i cavalieri e condannato l'uso della tortura per estorcere confessioni, nel concilio provinciale di Ravenna del 1311.
Il Papa ha parlato: con la bolla "Vox in excelso" l'Ordine Templare è stato ufficialmente soppresso ed i suoi beni saranno passati ad altri ordini, o più probabilmente saranno incamerati da ciascun regno, per la gioia di Filippo il Bello e di molti altri sovrani invidiosi del tesoro del Tempio. A voi la decisione: potrete adeguarvi alla disposizione papale, condannando i Templari come eretici e ottenendo un grande profitto dalla soppressione dell'ordine (oltre che un miglioramento dei rapporti con lo Stato della Chiesa), oppure opporvi ad essa, continuando ad usufruire delle forze armate messe a disposizione dall'ordine. Appoggiate dunque la bolla papale per condannare i Templari?

ORDINE DI MONTESA
Da questo momento, nei territori catalano-aragonesi, è possibile per il sovrano d'Aragona edificare le sedi dell'Ordine di Montesa.Scorrere la pergamena per saperne di più.Il nome Montesa deriva da un piccolo ordine militare territorialmente basato sul Regno d'Aragona.
E' stato fondato dallo scioglimento dell'Ordine Templare nel 1312, quando c'erano considerevoli contrasti tra il Re di Aragona e il Portogallo. Il Re Giacomo II persuase il Papa a permettergli il raggruppamento delle proprietà Templari in Aragona e Valencia e conferirle nel nuovo ordine, dedicato "Nostra Signora" e la base venne chiamata Montesa. Il nuovo Ordine ricevette l'approvazione di Papa Giovanni XXII il 10 Giugno 1317. Il 22 Luglio 1319 è stato dato al maestro di Calatrava il diritto di regolare le dispute interne e così i primi Cavalieri a formare l'Ordine di Montesa furono dei volontari dell'Ordine di Calatrava. Il primo maestro è stato Guillermo D'Eril e l'ordine avrà in totale 15 Maestri la cui importanza militare non sarà comunque tale da creare problemi alla corona nel conflitto che la oppose agli ordini cavalleresco - militari.

ORDINE DI SANTIAGO
Da questo momento, nei territori castigliano-leonesi, è possibile per il sovrano di Castiglia-Leòn edificare le sedi dell'Ordine di Santiago.Scorrere la pergamena per saperne di più.Correva l'anno 1170 quando il re Ferdinando II di León incaricò un gruppo di cavalieri, conosciuti come i frati de Caceres, di difendere la città di Caceres dalle scorrerie arabe, ma che dovettero poi abbandonare una volta conquistata dai Musulmani. La fondazione religiosa vera e propria la si attribuisce invece al re Alfonso VIII di Castiglia, con l'approvazione di Papa Alessandro III mediante una bolla del 5 luglio 1175. Per questi cavalieri si scelse il nome di Ordine di Santiago o Ordine di San Giacomo di Compostela, in quanto devono il proprio nome al santo patrono di Spagna, Giacomo il Maggiore, sotto la cui egida i Cristiani della Galizia e delle Asturie iniziarono nel IX secolo a combattere i Musulmani di Spagna. I cavalieri dell'Ordine di Santiago accettarono i voti di povertà e obbedienza. Tuttavia, all'organizzarsi scelsero la regola degli Agostiniani invece che quella Cistercense e che i propri membri non fossero obbligati a fare voto di castità e potessero contrarre matrimonio (alcuni dei fondatori erano sposati). La bolla di Alessandro III raccomandava il celibato, ma lo statuto precisava: "In coniugale castità, vivendo senza peccato, imitano ai primi padri, perché è meglio sposarsi che bruciare". I cavalieri di Santiago parteciparono alla riconquista dei marchesati di Teruel e Castellon. I monarchi Castellanoleonesi concederanno all'Ordine privilegi che permetteranno ad esso di ripopolare estese regioni dell'Andalusia e della Murcia.

ORDINE TEUTONICO
Da questo momento, nelle regioni lituane e livoniane, per l'Impero è possibile edificare le sedi dell'Ordine Teutonico.Scorrere la pergamena per saperne di più.
Nel 1226, il Gran Maestro dell'Ordine Hermann von Salza ottenne dall'Imperatore Federico II, che considerava i territori baltici come naturale appendice dell'Impero, un documento, chiamato “Bolla d’Oro di Rimini” che concedeva all’Ordine Teutonico i privilegi e lo status di Principe dell’Impero, con facoltà di creare uno stato sovrano nei territori che l’Ordine avesse conquistato strappandoli ai Pruzzi, cosicché nessuno avrebbe potuto mettere in questione la legittimità del governo teutonico sui territori conquistati. Inoltre anche il Papa Onorio III, lo spronò ad intervenire, accettando l'offerta del Duca polacco.
Le trattative col duca di Mazovia durarono a lungo anche perché Hermann von Salza nel frattempo era coinvolto anche nella crociata in Terrasanta dell’imperatore Federico II, che aveva molto a cuore. Il trattato che stabiliva gli impegni e i compensi per l’Ordine fu fatto confermare a più riprese dal papa Onorio III, dallo stesso duca di Masovia e dal figlio di questi, il duca Casimiro I di Cuiavia.
Il trattato definitivo tra il Gran Maestro e il Duca di Masovia, con cui erano confermate le promesse precedenti, è siglato il 30 giugno 1230. Ottenute tutte le garanzie del caso, a partire dal 1230 cominciano a giungere in Prussia i primi cavalieri, guidati da Hermann Balk, gran maestro dei Cavalieri Portaspada, che viene nominato Landmeister di Prussia. Balk è accompagnato da 5 Cavalieri Portaspada e da un centinaio di uomini d'arme, che saranno ben presto raggiunti da altri rinforzi provenienti dalla Germania del Nord. Essi si sistemeranno nel piccolo insediamento di Vogelsang-Warsin, sulla riva sinistra della Vistola, in un fortino di legno. L’insediamento sarà rapido ed efficace, e saranno subito consolidate le fortezze che costituiranno la prima linea di difesa della regione.
Una volta consolidate le basi, i cavalieri cominceranno ad attaccare le installazioni dei prussiani, costruendo via via nuove fortezze e villaggi, man mano che stringevano l’accerchiamento. Come si era fatto in Ungheria qualche anno prima, per consolidare il territorio e renderlo pacifico e produttivo verranno fatti affluire dalla Germania coloni, che riceveranno terre e maggiori libertà rispetto alla consuetudine.
Contro i Pruzzi si susseguiranno numerose campagne, che consentiranno all’Ordine di edificare fortezze e consolidare le proprie posizioni nei territori prussiani della Pomesania e Pogesania. Il metodo di conquista è ripetuto secondo uno schema ben sperimentato: i gruppi prussiani vengono accerchiati e impegnati in una dura battaglia; dopo la loro sconfitta, viene accettata la conversione del capo prussiano, che implica quella dei suoi sottoposti. Quindi, nel territorio conquistato viene costruito un castello che origina una città, e le terre vengono distribuite ai crociati, che chiameranno i coloni per farle fruttare; una volta consolidato il territorio e radunate le truppe, si passa alla regione più vicina.

ORDINE DI CALATRAVA
Da questo momento, nei territori castigliani, è possibile, per il sovrano di Castiglia-Leòn e per il sovrano d'Aragona, edificare le sedi dell'Ordine di Calatrava.Scorrere la pergamena per saperne di più.L'ordine militare di Calatrava è un antico ordine monastico-militare spagnolo, fondato nel 1158 dall'abate cistercense san Raimondo de Fitero, a cui il re di Castiglia Sancio III aveva affidato la difesa della città di Calatrava contro i Mori. Papa Alessandro III approvò l'ordine nel 1164. Era diviso in due classi (una di religiosi, l'altra di militari) e diretto da un gran maestro. Nel 1147, Alfonso il Guerriero, dopo aver conquistato la città fortezza di Calatrava, la consegnò all'Ordine dei templari, affinché rimanesse protetta e difesa dai Mori. Nel successivo 1155, i templari, data l'esiguità delle loro forze e disperando di poterla difendere, la restituirono al re di Castiglia, Sancio III, figlio di Alfonso il Guerriero. Diego Velasquez, monaco cistercense, implorò quindi il proprio abate a richiedere la città con l'impegno di difenderla dagli assalti dei Mori. I due monaci, ottenuto l'assenso, raccolsero in Navarra circa 20.000 uomini, tra i quali molti castigliani e francesi ed entrarono in Calatrava. Nel 1158 il re Sancio III di Castiglia, per rimeritare tale eroismo, istituì, per i monaci ed i gentiluomini presenti in Calatrava, un Ordine religioso-cavalleresco, sotto la regola cistercense. I cavalieri di Calatrava dovevano pronunciare i voti di castità, povertà ed obbedienza, dormivano vestiti e portavano uno scapolare. Dopo aver riportato numerose vittorie sui Mori, i cavalieri di Calatrava vennero sconfitti, nel 1193, presso Alarcos dall'emiro Yacoub ben Yousef. L'Ordine quindi, avendo perduto la fortezza di Calatrava, trasferì il proprio convento a Ciruelos e poi a Salviaterra. Agli inizi del duecento i cavalieri portoghesi dell'Ordine militare di Avis si unirono ai cavalieri di Calatrava; parimenti i cavalieri di San Giuliano del Pereiro, preso il nome di cavalieri d'Alcantara, si sottoposero alle riforme del Gran Maestro dell'Ordine di Calatrava. Ma, nel tempo, sia i cavalieri di Avis e sia quelli di Alcantara si staccarono dall'Ordine di Calatrava, ricostituendo Ordini autonomi. Per tale motivo l'Ordine di Calatrava perdette d'importanza, divenendo un semplice Ordine nobiliare. Nel 1485, il papa Innocenzo VIII, alla morte del Gran Maestro, riservò alla sua persona la nomina dei Gran Maestri, nominando, nel contempo, amministratore dell'Ordine il re Ferdinando il Cattolico. Il papa Adriano VI conferì poi il Gran Magistero dell'Ordine alla corona di Spagna. L'Ordine, soprannominato Valoroso, in guerra alzava uno stendardo di seta bianca caricato dalla croce gigliata di rosso, accantonata in punta da due ceppi azzurro e dall'immagine della Immacolata Vergine Maria. L'Ordine, che si compone di una sola classe, porta per decorazione una losanga d'oro, caricata da una croce gigliata di rosso; il tutto sormontato da un trofeo di guerra, con nastro di rosso.

ORDINE DI ALCANTARA
Da questo momento, nei territori castigliani, è possibile per il sovrano di Castiglia-Leòn edificare le sedi dell'Ordine di Alcantara.Scorrere la pergamena per saperne di più.L'Ordine Militare di Alcántara è un antico ordine monastico-militare spagnolo, inizialmente noto col nome di "ordine di San Julián del Pereiro", fondato nel 1156 dai fratelli Suero e Gómez Fernández Barrientosa: a imitazione dei templari, adottò la regola cisterciense; papa Alessandro III approvò i suoi statuti nel 1177. Assunse l'attuale nome solo nel 1217, quando il re di León Ferdinando II affidò ai cavalieri dell'ordine la difesa della città di Alcántara contro i Mori. Insegne dell'ordine sono la croce gigliata verde e il nastro verde. Ferdinando II, re di Leon, nel 1176, istituì un Ordine equestre religioso e militare con lo scopo di respingere i numerosi assalti dei Mori. L'Ordine, approvato dal papa Alessandro III, sotto il titolo di San Giuliano di Pereiro, ebbe per primo Gran Maestro, Gomez Fernandez, mentre il sovrano manteneva il protettorato. L'Ordine partecipò, con le proprie milizie, a tutte le grandi battaglie contro i Mori. I cavalieri indossavano l'abito dei cistercensi, ma con lo scapolare ridotto, abito sostituito nel tempo da un saio di lana bianca con grandi fasce di rosso, per cui vennero chiamati los caballeros de las bandas ed infine, portarono un mantello bianco con la croce dell'Ordine. Con la rinuncia al Gran Magistero dell'Ordine di don Juan de Zuniga, creato cardinale nel 1495, l'Ordine passo sotto l'amministrazione del re Ferdinando il Cattolico, e nel tempo il Gran magistero rimase sempre alla corona di Spagna. L'Ordine, composto da una sola classe di cavalieri, porta per decorazione una losanga d'oro, caricata da una croce gigliata di verde; il tutto sormontato da un trofeo di guerra, con nastro di verde.

ORDINE PORTASPADA
Da questo momento, nei territori livoniani, per l'Impero è possibile edificare le sedi dell'Ordine Portaspada.Scorrere la pergamena per saperne di più.
Alberto, vescovo di Riga, fonda l'ordine con lo scopo di spalleggiare il vescovato di Riga nella conversione delle popolazioni pagane dei Curi, dei Livoni, dei Semgalli e dei Latgalli insediate nei territori intorno al golfo di Riga. La sede dell'ordine si trova nella città estone di Viljandi (Fellin) dove le mura del castello sono tuttora visibili, altre roccaforti sono a Cesis (Wenden), Sigulda (Segewold) e Aizkraukle (Ascheraden). I comandanti di Viljandi, Kuldega (Goldingen), Aleksne (Marienburg), Tallinn (Reval), e il balivo di Paide (Weissenstein) costituiscono l'entourage più stretto del maestro dell'ordine. La regola dei Portaspada è fondata sulla base di quella dei cavalieri templari. Essi si considerano a ragione i Crociati del Nord e sono i pionieri della cristianizzazione dei remoti territori che si affacciano sul Baltico orientale: sono regioni aspre e selvagge, popolate da feroci tribù pagane che mettono a dura prova la tempra dei cavalieri.

ORDINE DI AVIZ
Da questo momento, nei territori lusitani meridionali, è possibile per il sovrano portoghese edificare le sedi dell'Ordine di Aviz.Scorrere la pergamena per saperne di più.L'Ordine Militare di San Benedetto d'Avis è un ordine monastico-militare portoghese. Trae origine da un gruppo di cavalieri riunitisi nel 1147 per combattere i Mori in Portogallo: nel 1166 il re Alfonso I affidò loro la difesa della città di Évora e impose loro l'osservanza della regola cistercense: questo fu l'anno della fondazione dell'ordine, noto con il nome di "Ordine dei Fratelli di Santa Maria di Évora". Nel 1211 i cavalieri presero Aviz agli Arabi, trasferirono nella città la loro sede e l'ordine assunse l'attuale nome, con il quale fu confermato da papa Innocenzo III nel 1214.
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Richiesta d'aiuto
Salute a voi, magnifico sovrano, sono un umile suddito di Scozia. Il mio Sire, che mi autorizza a parlare in sua vece, richiede la vostra assistenza contro il comune nemico inglese. Vi chiediamo un contributo di 10000 bisanti per allestire una potente armata e riconquistare la nostra capitale, Edimburgo, finita disgraziatamente in possesso dell'Inghilterra.Se riusciremo nell'impresa, vi restituiremo 3000 bisanti ogni sei mesi, dal momento in cui la città sarà conquistata fino a 5 anni da ora; se la missione fallisse, non vi potremo assicurare che il nemico non verrà a conoscenza del vostro coinvolgimento, cosa che potrebbe causare un peggioramento dei vostri rapporti diplomatici con gli Inglesi.Accetti di offrire aiuto economico alla Scozia?

La rivolta dei baroni!
Una nuova minaccia al vostro trono è sorta dall'interno. Alcuni baroni hanno formato una potente lega per spodestare il capofazione ed instaurare un nuovo sistema di governo. Mentre alcuni di questi baroni agiscono nell'interesse del popolo, molti altri vedono l'opportunità di ottenere la ricchezza e il potere che credono di meritare!

La Lega dei Baroni si riorganizza!
La mancanza di autorità da parte del capofazione verso i propri sudditi ha fatto sì che la Lega dei Baroni si riformasse! Ora il sovrano dovrà agire in fretta e con decisione per impedire ai baroni sediziosi di espandere il loro dominio nelle sue terre e, allo stesso momento, assicurarsi che le proprie terre siano ben difese dalle fazioni rivali che tenteranno di sfruttare questo momento di tumulti interni.

Guerra civile!!!
Il malcontento generato tra i nobili dal vostro pessimo governo non ha tardato a manifestarsi concretamente. Molti dei vostri stessi familiari si stanno ribellando all'autorità regia, rifiutando di obbedire agli ordini e, in qualche caso, asseragliandosi dentro gli insediamenti, istigando il popolo alla rivolta!Fortunatamente la Guerra Civile è portata avanti indipendentemente da ogni singolo generale ribelle, senza coesione. E' venuto il momento di riunire tutti i vassalli a voi rimasti fedeli e spazzare via una volta per tutte la minaccia separatista, prima che si organizzi in una vera e propria Lega dei Baroni...

L'inizio della guerra civile?
Il vostro malgoverno ha generato molto risentimento all'interno della potente cerchia nobiliare. Molti dei membri della famiglia reale stanno considerando la possibilità di disconoscere la vostra autorità, e questa situazione potrebbe degenerare in fretta, portando a una vera e propria Guerra Civile...

La rivolta dei Nizariti!
Una nuova minaccia al vostro trono è sorta dall'interno. Alcuni emiri hanno appoggiato una potente confraternita sciita, la Setta dei Nizariti, per spodestare il capofazione ed instaurare un nuovo sistema di governo. Mentre alcuni di questi emiri agiscono nell'interesse del popolo, molti altri vedono l'opportunità di ottenere la ricchezza e il potere che credono di meritare!

I Nizariti si riorganizzano!
La mancanza di autorità da parte del capofazione verso i propri sudditi ha fatto sì che la Setta dei Nizariti si riformasse! Ora il sovrano dovrà agire in fretta e con decisione per impedire ai sediziosi di espandere il loro dominio nelle sue terre e, allo stesso momento, assicurarsi che le proprie terre siano ben difese dalle fazioni rivali che tenteranno di sfruttare questo momento di tumulti interni.

L'ascesa degli Almohadi
Il regno degli Almoravidi è di nuovo caduto in preda all'anarchia, ma una nuova dinastia di berberi fanatici, originaria di Tlemcen conquista il Magreb occidentale, poi la Spagna musulmana, costringendo gli ultimi Almoravidi a ritirarsi nelle Baleari, e riprendono Cordova ad Alfonso VII.Dopo la morte di Ali ben Youssef (1143), l'ultimo della dinastia degli Almoravidi, al loro posto si insediano gli Almohadi con Abd el Moumen. La potenza degli Almohadi si spiegò durante un secolo, dallla metà del XII alla metà del XIII, e vide l'apogeo della preponderanza marocchina.

La pallacorda
Arriva a Parigi dall'Hainaut una certa Margot che fà parlare di sè schiacciando tutti gli uomini che gli si oppongono, in un gioco denominato "pallacorda" (jeu de paume). Si dice che perfino Giovanna d'Arco partecipasse ad alcune partite.

Gioco di gran numero di giochi
Sono oltre 300 i cartai attivi nella regione di Avignone, i cartoncini sono confezionati secondo una tecnica che sembra ormai stabilita solo in questa epoca e che non cambierà almeno fino alla metà del XIX secolo.

Morte di Massimo Planude
Si spegne a Bisanzio il teologo ed erudito Massimo Planude. Istituì a Costantinopoli un'università di tipo occidentale, introdusse, attraverso la Scuola di Baghdad, vari metodi di calcolo, curò edizioni dei classici greci, tradusse Boezio, le "Metamorfosi" e "l'Arte d'amare" di Ovidio, raccolse tutto quanto ci rimane di Plutarco e creò una silloge di epigrammi nota come "Antologia Planudea".

Il gioco scomparso
L'alquerquet risale addirittura al XIV secolo a.C. di Ramsete I; introdotto in Spagna dagli arabi che lo chiamavano " el-quirkat", è un gioco di strategia caratterizzato da mosse delle pedine simili a quelle del "Fierges", antenato della dama.

Gioco della dama
La dama fu inventata verso l'anno mille probabilmente nella Francia meridionale, viene chiamato "fierges" e più tardi, quando le regine degli scacchi saranno chiamate dames, il gioco verrà detto "jeu de dames".

Esclusi dalla festa
Dove si tengono le fiere si svolge il grande torneo, che si riduce a poco a poco a una giostra, e la semplice parata sostituisce la fiera. Vengono esclusi dalla festa i "cavalieri di rango" che portano solo il titolo subalterno di scudieri: con loro scompare anche lo spirito del profitto, che ne sminuisce la nobiltà, mescolato al piacere di fare "della cavalleria", trovare nei fatti d'arme l'occasione di arricchirsi e farsi onore, come nelle crociate.

Cattiva fama
Luigi d' Orlèans, fratello del re di Francia Carlo VII, nel marzo del corrente anno in casa di uno scudiero reale, ha perso quattrocento franchi contro Bonnacorso Pitti avventuriero, diplomatico e... giocatore professionale di dadi!

Dannati tarocchi
La chiesa elenca i giochi di carte nella lista dei giochi severamente proibiti ai chierici: i grandi cartoncini ornati di segnum saranno particolarmente condannati dagli ordini mendicanti per tutto il XV secolo.

Un gioco al massacro
Tra l'XI e il XV secolo il gioco degli scacchi ha sicuramente il suo statuto di "re dei giochi" non meno di quello di "gioco di re", statuto che verrà rafforzato nei secoli posteriori, mantenendo sempre qualcosa della fascinazione del medioevo.

I vescovi contro i tornei
I vescovi francesi, riuniti in un recente concilio, hanno decretato: "Noi proibiamo queste detestabili fiere in cui cavalieri vengono a esibire la loro forza, si radunano con audacia temeraria e spesso sopravviene la morte e pericolo per le anime. A coloro che vi trovano la morte rifiuteremo sepoltura cristiana".

Lo stile gotico
E' stata realizzata la prima costruzione in stile gotico; da questa data si comincerà ad innalzare ardite cattedrali a maggior gloria della fede, chissà che i villici abbiano a meravigliarsene a sufficienza e seguano retto cammino...

Attrazione verso Nord
Nel XII secolo viene introdotto lo strumento che utilizza l'attrazione verso nord dell'ago magnetico; la chiamano bussola, uno strumento ancora da perfezionare, con apposito contenitore, che si prevede di installare nei prossimi decenni.

I Nibelunghi
E' stata ultimata la stesura del "Canto dei Nibelunghi". Si tratta di un poema epico scritto in alto tedesco medio nella prima metà del XIII secolo, Narrante le vicende dell'eroe Sigfrido alla corte dei Burgundi, e della vendetta di sua moglie Crimilde, che porta a una conclusione catastrofica e alla morte di tutti i protagonisti.

Una strana lettera
Comincia a circolare una strana lettera giunta al Basileus Manuele Comneno, il mittente: presbyter Iohannes, che signoreggia su mari di sabbia, deserti di pietre preziose, foreste di alberi di pepe e sui popoli apocalittici di Gog e Magog. Il cronista Ottone di Frisinga, zio dell'imperatore Federico Barbarossa sostiene sia un discendente dei re magi, chissà che non sia un aiuto contro i musulmani,da quanto scrive nella lettera parrebbe di sì.

Il sacro e il profano
Non si può indire una crociata tutti gli anni: con queste parole Baldovino V di Hainaut, proveniente dalle terre di confine dell'Impero Germanico, ha portato i suoi cavalieri in Francia, per fare la stagione dei tornei!

Sproporzioni cartografiche
La cartografia nautica non è affatto proporzionata! Non costruite secondo proiezioni, le mappe sono caratteristiche per le reti di rombi e l'accurata descrizione delle coste, oltre che per l'errore dell'eccessiva inclinazione verso oriente della penisola italiana.

L'Algebra
Dai sapienti dell'oriente è giunta una nuova diavoleria per distrarre insuperbite genti nei vaniloqui di papiri scritti con zampe di formica: è giunta a termine la stesura dell'Algebra di Leonardo Pisano.

Una guida per marinai
Compaiono i primi portolani con indicazioni sui porti, sui rilievi che facilitano la navigazione a vista, su scogli, secche e sui peleggi: si tratta di rotte frequentate e consigliate, che vengono consultate da capitani che solcano mari resi misteriosi anche da potenze gelose di condividere segreti e bènefici delle rotte.

I Domenicani
Domenico di Guzmán ha fondato l'ordine dei Domenicani, a Tolosa, nella Francia del sud, a causa della crescente espansione dell'eresia catara. Domenico fondò inizialmente il ramo femminile, raggruppando una piccola schiera di ragazze convertite dall'eresia e fondando con esse il monastero di Prouille.

La Falconeria
Lo svago si fà Arte venatoria nella Falconeria, che si onora nel ricevere un nobilissimo trattato scritto dalla stessa mano dell'imperatore del Sacro Romano Impero.

Le galee nel Mediterraneo
Si diffondono con sempre maggior rapidità nel mediterraneo le galee. Queste navi vengono generalmente fabbricate in spazi coperti all'uopo edificati "Quale nell'Arzana dè Viniziani, o nella grande darsena di Pisa, oppure fra le grandi campate gotiche degli Ataracanas di Barcellona".

La giostra
Il classico Torneo si evolve, divenendo sempre piu spettacolare, e ricorrendo ad armi sempre meno pericolose; la giostra disputata con armi cortesi comincia a fare concorrenza al Torneo vero e proprio.

Le Taride e le Buci dell'Adriatico
Nel corso degli anni, si costruiscono navi tonde sempre piu grandi, le Taride (velieri da carico usati per merci economiche con discreto tonnellaggio), ma anche piccole imbarcazioni, chiamate Buci dell'Adriatico, che si vanno diffondendo per ogni dove.

I Dadi di Satana
Fin dal XIII secolo è presente a Parigi una categoria di artigiani specializzati nella fabbricazione di dadi; tali artigiani sono divenuti così numerosi da ottenere uno statuto dal prevosto del re, Etienne Boileau.

La "Summa Teologica".
Tommaso d'Aquino ha da poco iniziato la stesura della "Summa Theologica". L'opera sarà completata in sette anni, e sarà composta di ben 512 questioni. Essa è destinata ad istruire chi inizia gli studi teologici, chi non sa ancora orientarsi tra le cose scritte dai vari maestri, a volte diverse o apparentemente contrastanti.

Gioco di re, re dei giochi
Giacomo di Cesole ha pubblicato il "Liber de moribus hominimum vel officiis nobilium". Un ampio trattato di successo immediato, la cui maggiore originalità risiede nell'interpretazione del gioco degli scacchi come immagine della lotta per la vita.

Non seguite la stella polare!
Nel famoso trattato "De Magnete" pubblicato a Lucera, Pierre de Maricourt rileva, fra le cose notevoli, lo scarto tra la stella polare e il polo celeste, fenomeno curioso che di certo sconcerterebbe chi si trovasse in aperto oceano. Solo chiacchere fra dotti e tèoreti?

Il Milione
Nel dicembre del 1271 un ragazzo di 17 anni che da poco ha perso la madre e da poco conesce il padre e lo zio, tornati, dopo lunga assenza dall' Estremo Oriente, lascia San Giovanni d' Acri alla volta di Laiazzo, base di partenza di una pista carovaniera che attraverso la Piccola e Grande Armenia si inoltra nella Anatolia orientale fino a raggiungere il porto di Tabriz. Nell' estate del 1275, dopo più di tre anni di viaggio Marco, Niccolò e Matteo raggiungono Chemenfu, la residenza del Gran Khan, ne passeranno altri 17 in Cina, visitando in lungo e in largo questo paese e l' Est asiatico, dallo Yunnan all' Annan, alla Birmania, con incarichi o missioni speciali affidategli da Cubilai Khan. Nel 1293, al seguito di una spedizione reale di 14 navi e 600 uomini che deve portare a Tabriz la principessa Cocacin, in sposa al re dei tartari occidentali Argon, i Polo compiono il percorso di ritorno attraverso il Mar Cinese meridionale, lo stretto di Malacca, Sumatra, Ceylon e le coste dell' India fino a Hormuz, da cui ripartiranno di nuovo per arrivare a Venezia due anni dopo. Il 7 settembre 1298 al largo dell'isola di Curzola tra i quasi 6.000 prigionieri caduti in mano dei genovesi e incatenati nelle stive ce n'è uno che forse più degli altri medita con distacco sui tanti colpi di scena che può riservare la sorte. Finirà in carcere a Genova e per otto mesi si troverà a dividere la cella con un personaggio singolare, un noveliere, un letterato di professione chiamato Rustichello da Pisa, che già gode di una qualche notorietà come rifacitore di romanzi secondo lo stile tipico delle "chansons de geste". Da questo incontro nasce un libro intitolato Le devisemant du monde, un libro che poi verrà chiamato Il Milione.

Le carte da gioco
Una novità assoluta si sta rapidamente diffondendo in ambito ludico: le carte, destinate a un brillante successo, rappresentano nel settore l'unica vera innovazione del secolo. Si tratta di una serie di cartoncini ornati di segnum, impiegabili in vari giochi.

Un viaggio senza ritorno
Intraprendendo un'ardita impresa di esplorazione, i due fratelli genovesi Vivaldi sono partiti con galee inadatte alla navigazione atlantica, forse seguendo le coste occidentali dell'Africa oppure avventurandosi ad ovest delle isole Canarie. Di loro non si sa piu nulla.

Palle da gioco
Il Livre de Taille di Parigi ricorda l'esistenza di tredici artigiani assoggettati a tributo, si tratta di persone che vivono della fabbricazione di palle per il "Jeu de Paume", un gioco praticato con una palla. Non si crede che tale passatempo possa aver fortuna nel futuro...

Giubileo a Roma
Si sta svolgendo un grandioso Giubileo a Roma, dove si vanno raccolgiendo pellegrini da ogni dove; discendono dalla via francigena molte genti da abbisognare di tutto, un ottima occasione per procurare denari al tesoriere del Papa...

La crisi demografica
Dopo l'esplosione demografica del Duecento, la popolazione europea ha smesso di crescere: la riduzione del numero di matrimoni (o almeno la loro posticipazione ad un età più adulta) e il più frequente ricorso a tecniche abortive hanno portato ad una drastica riduzione del tasso di natalità.

La "piccola glaciazione"
Nei primi anni di questo secolo il clima del mondo è fortemente mutato. Le temperature sono molto diminuite: questo fenomeno ha causato gravi danni all'agricoltura. Le colture marciscono nel nord Europa, dove la piovosità è eccessiva, mentre le terre sul Mediterraneo soffrono lunghi periodi di siccità.

La scoperta delle Canarie
Dopo la sfortunata spedizione dei fratelli Vivaldi, molti altri navigatori italiani hanno tentato l'esplorazione delle coste atlantiche dell'Africa, per buona sorte con esiti diversi. Tra questi il genovese Lancelotto Malocello, che ha recentemente fatto ritorno da alcune isole prima ignote; una di esse (Lanzarote) verrà battezzata col suo nome.

Il manuale dell'inquisitore
Bernard Gui ha completato la sua "Practica inquisitionis heretice pravitatis". Si tratta di uno strumento a uso dei giudici dei tribunali della Santa Inquisizione: include un elenco di tesi e gruppi eretici, regole e consigli sul modo di condurre le interrogazioni, formule per far comparire testimoni e decretare sentenze.

Un conio più leggero
Le monete d'oro, a furia di essere maneggiate, usurate, persino grattate per recuperare qualche pagliuzza preziosa, col tempo sono andate diminuendo in peso. Accortosi che le monete dei tributi risultavano pen più leggere di quelle messe in circolazione, il Doge di Venezia ha stabilito allora di ridurre il peso delle monete coniate!

Condannata l'alchimia
Condannata dalla "Summa Theologica" di Tommaso d'Aquino, la pratica dell'alchimia per la trasmutazione dei metalli in oro è stata bandita anche da Papa Giovanni XXII con la decretale "Spondent quas non exhibent".

Rivolte in Francia!
Una rivolta di grandi dimensioni è scoppiata nella regione francese dell'Ile-de-France. L'insurrezione contadina degli "Jacques" (soprannome irrisorio dato dai signori francesi ai contadini) è diretta contro i nobili, responsabili delle recenti sconfitte militari contro gli Inglesi ed incapaci di assolvere all'unico compito che ne giustifichi i diritti, quello cioè di proteggere la popolazione.

Il tumulto dei Ciompi
I salariati fiorentini nel settore della produzione laniera sono insorti contro i proprietari e hanno costituito le tre nuove Arti dei Sarti, dei Tintori e dei Ciompi. In questo modo i rappresentanti del movimento hanno avuto accesso a molte importanti cariche politiche. Ma la corruzione di molti dei capi della rivolta ha permesso ai proprietari di reprimere facilmente gli insorti e di riportare la situazione al "naturale ordine delle cose"...

Rivolte in Inghilterra!
A seguito della decisione del Parlamento di introdurre una nuova tassa di tre scellini su ogni suddito di età maggiore di 14 anni, è scoppiata una rivolta in Inghilterra, nelle campagne dell'Essex. I Lollardi, seguaci di John Wycliffe (teologo aspro contestatore delle cerimonie e del lusso ecclesiastico), rivestono un ruolo fondamentale nella rivolta, almeno finchè essa non verrà spietatamente stroncata nel sangue...

La processione dei Flagellanti
La flagellazione come forma di penitenza era già prevista nella Regola di S. Benedetto per i monaci che si fossero macchiati di qualche colpa; questa pratica ascetica di mortificazione individuale divenne abbastanza diffusa nell'Alto Medioevo.E' partita ora una grande processione, dalla cittadina di Chieri in Piemonte, e al grido di "Pace e Misericordia" folle intere di persone marciano di contrada in contrada, trovando ovunque proseliti; detti "Bianchi" per le loro nivee vesti di lino segnate da una croce rossa, si fustigano a sangue mentre avanzano, incappucciati, reggendo grandi ceri.

Un disastro colpisce Aleppo!
La popolazione di Aleppo ha dovuto affrontare indicibili sofferenze dopo che la terra sulla quale poggiava quella città si è aperta con una potenza e un fragore tali da far immaginare soltanto una punizione divina! Le potenti scosse si sono propagate in tutte le direzioni. Dopo un tale cataclisma, Aleppo potrà ritornare quella di prima solo tra molto tempo.

Il fuoco dell'inferno in terra!
Un nuovo metodo per la lavorazione dei metalli è stato inaugurato nel villaggio di Lapphyttan, in Svezia, e subito adottato in Europa occidentale. Alloggiato in un enorme edificio, un mantice mosso dalla potenza dell'acqua soffia un getto d'aria all'interno di una fornace. Il calore prodotto è talmente forte che il ferro grezzo fonde e scorre come un fiume di metallo liquido!Sebbene il ferro puro che cola da questa fornace sia molto fragile, ne può essere prodotta una quantità impressionante, che un buon fabbro può lavorare con facilità per produrre armi e armature straordinariamente resistenti.

Chiare visioni
Dall'Italia settentrionale giungono notizie di studiosi capaci di inserire lenti di vetro all'interno di una montatura metallica da appoggiare al naso. Pare che queste lenti siano sagomate in modo tale da correggere la vista di chi non riesce a vedere come gli altri. Gli esteti già dibattono se indossare tali oggetti sia un motivo di vanto o di derisione.

Un progresso scientifico
È stato scoperto nella regione di Magnesia, in Asia Minore, un metallo che attrae il ferro e che si orienta verso nord con la stessa solerzia con cui un seguace di Maometto si inginocchia in direzione della Mecca per pregare.Questo strano fenomeno è stato sfruttato per la creazione di uno strumento noto con il nome di "bussola", che i cartografi e i naviganti hanno da subito adottato, contenti di non essere più costretti a mille congetture nel tracciare le mappe e le rotte per le esplorazioni.

La macchina del tempo
Comincia a diffondersi, in varie parti d'Europa, un complesso strumento di misurazione del tempo che non si affida né al sole né all'acqua o alla sabbia. I dotti hanno spiegato che per far funzionare i meccanismi dell'"orologio" è necessario soltanto un oggetto che dondoli con regolarità.Qualcuno che ha già avuto occasione di osservare uno di questi nuovi orologi meccanici ha suggerito di costruirne uno abbastanza grande da poter essere collocato in un punto in cui possa essere visto da tutti i comuni cittadini.

Un'innovazione per i naviganti
Alcuni naviganti arabi hanno adottato un vecchio trucco utilizzato dai loro colleghi dell'Estremo Oriente, ovvero l'uso di una placca di legno chiamata "timone" che, collocata in fondo a una nave e usata con maestria, ne cambia facilmente la direzione.Alcuni tra i più eccentrici strateghi militari stanno proponendo idee davvero bizzarre, come quella di una guerra combattuta soprattutto in mare, proprio grazie a invenzioni come il timone.

La foresta è stata conquistata!
Alcune grandi menti hanno trovato nuovi modi per facilitare i lavori più duri. Abbattere gli alberi è sempre stato un lavoro lento e impegnativo anche per i più validi tagliaboschi, ma astuti carpentieri hanno trovato il modo di utilizzare una gigantesca sega in grado di radere al suolo un intero bosco con l'aiuto dell'acqua!

Un dono per i costruttori
Le storie delle astute invenzioni provenienti dall'Oriente hanno di recente ispirato i contadini europei a sviluppare una semplice forma d'aiuto per i lavoranti, chiamata "carriola".Collocando una ruota davanti a una pedana di legno, hanno scoperto che un solo lavorante può trasportare un pesantissimo carico di pietre tutto da solo e senza farsi male. Sarebbe un dono prezioso per i signori vogliosi di erigere castelli a destra e a manca, ma anche per gli innumerevoli servi che li dovranno effettivamente costruire.

Imbrigliare il vento
In tutto l'Occidente si sta diffondendo la notizia che alcuni maestri di meccanica hanno creato un mulino miracoloso che funziona senza sfruttare la forza di un corso d'acqua. Pare che sia stato trovato il modo di muovere i grossi meccanismi dei mulini utilizzando l'energia del vento, imbrigliandolo in vele issate su aste di legno disposte a raggiera. Se è vero che l'efficacia di un mulino del genere dipende esclusivamente dalla potenza del vento, per coloro che vivono lontano da corsi d'acqua questa non è un'invenzione, è una benedizione.

Il gioco del pallone
Il signore di Londra ha emesso un proclama con cui si sanziona il comportamento violento di alcuni gruppi di facinorosi appassionati di qualche attività ludica..."E quando vi fosse gran clamore in città dovuto a siffatti tumulti causati dal percuotere con calci una palla in un pubblico campo - da cui di certo può sorgere più di un male, che il Signore Iddio ce ne scampi - proibiamo con un'ordinanza in nome di sua maestà il re, pena l'incarcerazione, che tali giochi vengano praticati d'ora in avanti all'interno della città."Con la promulgazione di questa legge, il governo ritiene a buon diritto che questo "gioco del calcio" non diventerà mai un'ossessione di vaste proporzioni, come forse sarebbe accaduto.

La grande marea
Una perturbazione spaventosa come non ne erano mai state viste, giungendo da sudovest dell'Atlantico, ha colpito l'Europa nordoccidentale, spazzando l'Inghilterra e raggiungendo la Danimarca. Enormi onde hanno devastato la terraferma, mietendo innumerevoli vittime; inoltre le condizioni del mare sono così instabili da rendere la navigazione un atto assolutamente temerario.

Il martello delle streghe
In questi tempi oscuri che vedono il gregge del Signore insidiato dai lupi dell'eresia e, nei casi peggiori, della stregoneria, è giunta dalla Germania la risposta della Chiesa per armare gli inquisitori, affinché essi respingano e sconfiggano le forze dell'oscurità: il Malleus maleficarum.Questo tomo è stato immediatamente accolto come il manuale d'istruzioni più autorevole per i processi contro eretici e streghe, poiché in esso si trovano tutte le indicazioni in merito al riconoscimento dei segni di stregoneria, all'estorsione delle confessioni e alle punizioni di coloro che venissero trovati colpevoli.

Liber de Compositione Alchemiae
Robert di Chester, un dotto inglese, ha completato la sua trascrizione del Liber de Compositione Alchemiae nella sua lingua, il Libro sulla composizione dell'alchimia. In origine un testo arabo, questo straordinario compendio di scoperte e meditazioni alchemiche e scientifiche si è meritato l'accusa di affronto al sacro mandato da parte dell'ordine costituito. In realtà si dice che molti studiosi rischierebbero volentieri di essere scambiati per eretici per carpire il sapere occulto di queste pagine...

L'eroe dello zero
Il matematico pisano Leonardo Fibonacci ha pubblicato la sua opera, chiamata "Liber abaci". In essa ha esposto teorie indo-arabiche su un numero privo di valore, affermando che la sua adozione risulterà fondamentale per facilitare i calcoli più complicati.Oltre ad aver messo in subbuglio il mondo accademico occidentale, le rivelazioni del Liber abaci risultano suggestive anche per l'uomo comune... che di solito passa la maggior parte della sua vita rincorrendo cose "prive di valore".

Fine di una dinastia?
Con la morte dell'ultimo regnante Aragonese, un sovrintendente è stato scelto per amministrare il reame. La nobiltà del reame, a questa notizia, non sa ancora se reagire con sollievo o timore...

Ereditato il trono di Portogallo!
La vostra saggia politica matrimoniale ha dato i suoi frutti. Morto senza eredi maschi, il re di Portogallo non aveva indicato alcun reggente per il trono, così la situazione è degenerata in una sanguinosa lotta interna per la successione. Alla fine i nobili portoghesi si sono accordati e hanno offerto la corona reale alla vostra gloriosa dinastia, che ora può fregiarsi con onore anche del titolo di Re dei Portoghesi!

Prestigio costante: 100%
La vostra recente condotta governativa ha portato la stima della nobiltà nei confronti della dinastia regnante a toccare i massimi storici! In queste condizioni, non avete nulla da temere dagli influenti ma fedelissimi personaggi che frequentano la vostra corte, e neppure dal popolo, i cui rappresentanti possono avanzare ben poche pretese senza lo straccio di un alleato nella ristretta cerchia nobiliare.

Prestigio costante: 90%
La vostra recente condotta governativa non ha causato particolari movimenti all'interno del Concilio dei nobili, la cui stima nei confronti della dinastia regnante permane ad ottimi livelli! In queste condizioni, non avete nulla da temere dagli influenti ma fedelissimi personaggi che frequentano la vostra corte, e neppure dal popolo, i cui rappresentanti possono avanzare ben poche pretese senza lo straccio di un alleato nella ristretta cerchia nobiliare.

Prestigio in calo: 80%
La vostra recente condotta governativa ha fatto insorgere alcune perplessità nel Concilio dei nobili: il vostro Prestigio è leggermente in calo, ma si mantiene in ogni caso ancora a buoni livelli. In queste condizioni, non avete nulla da temere dagli influenti ma fedeli personaggi che frequentano la vostra corte, e neppure dal popolo, i cui rappresentanti possono avanzare ben poche pretese senza lo straccio di un alleato nella ristretta cerchia nobiliare.

Prestigio in calo: 70%
La vostra recente condotta governativa ha fatto insorgere diverse obiezioni nel Concilio dei nobili: il vostro Prestigio è in calo, ma si mantiene in ogni caso ancora a livelli accettabili. In queste condizioni, non avete nulla da temere dagli influenti personaggi che frequentano la vostra corte, e neppure dal popolo, i cui rappresentanti possono avanzare ben poche pretese senza lo straccio di un alleato nella ristretta cerchia nobiliare.

Prestigio in calo: 60%
La vostra recente condotta governativa ha fatto insorgere molte controversie nel Concilio dei nobili: il vostro Prestigio è in calo, ma si mantiene in ogni caso ancora a livelli accettabili. In queste condizioni, tuttavia, fareste bene a modificare il metodo di governo per non avere a trattare con i rappresentanti del popolo, appoggiati da una nobiltà sempre meno fedele, che ben presto potrebbero avanzare richieste sempre più pretenziose...

Prestigio in calo: 50%
La vostra recente condotta governativa sta generando parecchia confusione nel Concilio dei nobili: il vostro Prestigio è decisamente in calo, raggiungendo livelli ormai insufficienti a garantirvi un governo di libero assolutismo. In queste condizioni fareste bene a modificare il metodo di governo per non avere a trattare con i rappresentanti del popolo, appoggiati da una nobiltà sempre meno fedele, che ben presto potrebbero avanzare richieste sempre più pretenziose...

Prestigio in calo: 40%
La vostra recente condotta governativa ha causato un evidente malcontento nei membri del Concilio dei nobili: il vostro Prestigio è decisamente in calo, raggiungendo livelli ormai insufficienti a garantirvi un governo di libero assolutismo. In queste condizioni i rappresentanti del popolo, appoggiati dal Concilio a voi sempre meno fedele, potrebbero avanzare pretenziose richieste, mirando alla concessione di maggiori diritti da parte della vostra dinastia regnante. Qualora insoddisfatte, tali richieste potrebbero facilmente provocare rivolte e ribellioni!

Prestigio in calo: 30%
La vostra recente condotta governativa sta seriamente deludendo il Concilio dei nobili: il vostro Prestigio è pericolosamente scesa sotto livelli da molti giudicati pericolosi. In queste condizioni i rappresentanti del popolo, appoggiati dal Concilio a voi sempre meno fedele, potrebbero avanzare pretenziose richieste, mirando alla concessione di maggiori diritti da parte della vostra dinastia regnante. Qualora insoddisfatte, tali richieste potrebbero facilmente provocare rivolte e ribellioni!

Prestigio in calo: 20%
La vostra recente condotta governativa sta generando un gravissimo malcontento tra membri del Concilio dei nobili: il vostro Prestigio è decisamente in calo, raggiungendo livelli talmente bassi da rendere tremendamente concreto il rischio di una Guerra Civile o di un Esilio. In queste condizioni, infatti, il Concilio si sta convincendo della vostra inadeguatezza nel governare il loro glorioso regno, e tale consapevolezza potrebbe concretizzarsi presto in un vero e proprio tradimento, sotto forma di una sanguinosa Guerra Civile! Non solo: anche i rappresentanti del popolo, appoggiati dal Concilio a voi ormai nemico, potrebbero avanzare pretenziose richieste, mirando alla concessione di maggiori diritti da parte della vostra dinastia regnante. Qualora insoddisfatte, tali richieste potrebbero facilmente provocare rivolte e ribellioni o, peggio ancora, condurre all'emanazione di un decreto ufficiale che esilierà la vostra dinastia regnante!

Prestigio in calo: 10%
La vostra recente condotta governativa sta generando un gravissimo malcontento tra membri del Concilio dei nobili: il vostro Prestigio è decisamente in calo, raggiungendo livelli talmente bassi da rendere tremendamente concreto il rischio di una Guerra Civile o di un Esilio. In queste condizioni, infatti, il Concilio si sta convincendo della vostra inadeguatezza nel governare il loro glorioso regno, e tale consapevolezza potrebbe concretizzarsi presto in un vero e proprio tradimento, sotto forma di una sanguinosa Guerra Civile! Non solo: anche i rappresentanti del popolo, appoggiati dal Concilio a voi ormai nemico, potrebbero avanzare pretenziose richieste, mirando alla concessione di maggiori diritti da parte della vostra dinastia regnante. Qualora insoddisfatte, tali richieste potrebbero facilmente provocare rivolte e ribellioni o, peggio ancora, condurre all'emanazione di un decreto ufficiale che esilierà la vostra dinastia regnante!

Prestigio in calo: 0%
La vostra recente condotta governativa continua a irritare fortemente il Concilio dei nobili: il vostro Prestigio è decisamente in calo, raggiungendo il livello minimo, che rende estremamente probabile una Guerra Civile o un Esilio. In queste condizioni, infatti, il Concilio si sta convincendo della vostra inadeguatezza nel governare il loro glorioso regno, e tale consapevolezza potrebbe concretizzarsi presto in un vero e proprio tradimento, sotto forma di una sanguinosa Guerra Civile! Non solo: anche i rappresentanti del popolo, appoggiati dal Concilio a voi ormai nemico, potrebbero avanzare pretenziose richieste, mirando alla concessione di maggiori diritti da parte della vostra dinastia regnante. Qualora insoddisfatte, tali richieste potrebbero facilmente provocare rivolte e ribellioni o, peggio ancora, condurre all'emanazione di un decreto ufficiale che esilierà la vostra dinastia regnante!

Concilio dei Nobili
Seggi a favore:- Erede di fazione- Cancelliere- Conestabile- Tesoriere- Siniscalco- Ciambellano- Sacerdote Supremo- Grande Ammiraglio- Banchiere Reale- Maestro delle Spie- Maestro degli Assassini- Prima Dama di Corte- Burocrate di CorteSeggi neutrali:- NessunoSeggi contrari:- Delegato Funzionario- Primo Vassallo- Rappresentante dei Piccoli Mercanti- Delegato dei Capitani- Eletto del Basso Clero- Gran Capitano delle Corporazioni Minori- Podestà
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