L’esercito fiorentino

Armi, armature, tattiche, formazioni, logistica e altro ancora...
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Veldriss
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L’esercito fiorentino

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Tratto da "Le grandi battaglie del Medioevo" di Andrea Fedriani.

Dopo la battaglia di Montaperti, i ghibellini senesi, vincitori dello scontro, rinvennero sul campo guelfo una serie di pergamene, redatte dai notai fiorentini incaricati di annotare tutto ciò che concerneva le campagne militari della città, dagli eventi alle nomine degli ufficiali, dal reclutamento ai movimenti dell’esercito. I documenti, che comprendono l’attività bellica di Firenze dal febbraio 1260 fino alla battaglia di Montaperti, ritornarono in mano fiorentina nel Cinquecento, quando Siena entrò a far parte della signoria medicea, e furono poi ordinati e riuniti in un unico volume, detto Libro di Montaperti, nel XIX secolo; esso ci permette di conoscere a fondo l’apparato militare fiorentino del periodo in cui più intense furono le lotte in Toscana tra guelfi e ghibellini.
La Firenze del XIII secolo era suddivisa in sei regioni urbane, dette sestieri (Oltrarno, Borgo, San Pancrazio, Porta del Duomo, Porta San Piero, San Pier Scheraggio), ognuna delle quali forniva un contingente di cavalleria, proveniente dalle classi benestanti e dagli aristocratici, e uno di fanteria, prelevato dal popolo minuto, nonché contingenti di arcieri e balestrieri; tutti i combattenti, a Firenze, facevano parte di Compagnie, o Società, solitamente diretta espressione delle corporazioni. Ciascun sestiere era diviso in parrocchie, presso le quali quattro commissari censivano la popolazione maschile tra i 15 e i 70 anni atta alle armi, dividendola in gruppi da 50, a loro volta divisi in due metà, la seconda delle quali considerata alla stregua di una riserva. Per non lasciare la città sguarnita, assicurare il normale svolgimento della vita cittadina e garantire un avvicendamento di forze sempre fresche nelle varie fasi di una campagna annuale, la mobilitazione per una guerra riguardava solo una parte dei sestieri, fino a cinque in circostanze straordinarie, come per Montaperti o Campaldino.
In tali ambiti si inserivano anche gli esponenti dell’aristocrazia, con le loro insegne e il loro seguito. Non erano i soli a potersi permettere un cavallo e un equipaggiamento pesante, cui erano obbligati tutti i cittadini sufficientemente benestanti, sebbene, all’occorrenza, in comproprietà con altri. Questi ultimi erano definiti milites pro comune, e con i nobili condividevano i colori del sestiere di appartenenza nel gonfalone. Per il resto, gli esponenti dell’aristocrazia si distinguevano soprattutto per l’araldica del casato che caratterizzava le insegne, la cotta d’armi e lo scudo, ma anche per la doratura presente nell’impugnatura della spada e negli speroni, il mantello foderato di pelliccia di vaio, la veste di stoffa pregiata usualmente verde, e i cimieri sull’elmo, applicabili sulla calotta a ventaglio o con figure zoomorfe in cuoio, metallo o legno e gesso.

Almeno dall’epoca di Montaperti, comunque, il comune fiorentino dispose l’adozione di un equipaggiamento comune a tutti i combattenti, comminando multe pesanti per ciascun elemento mancante: si andava dai 20 soldi per la mancanza della sella o delle scarpe ferrate, ai 100 per chi si presentava privo di corazza, una somma equivalente a una settimana di paga di un soldato. Per i cavalieri, le disposizioni riguardavano anche l’animale, per il quale si pretendeva, oltre alla sella, una forma di protezione, la coverta, di cuoio, di tessuto imbottito o di maglia di ferro. In generale, il combattente doveva disporre di un usbergo in maglia di ferro, di corazza, casco di ferro (cappellina o cervelliera, oppure, se con le falde, elmetto a tesa, crestuta, cappello in ferro) e calzature di ferro, lancia e scudo.
I cavalieri equipaggiati più pesantemente vestivano la maglia di ferro su pressoché tutto il corpo, grazie alle maniche lunghe e alle brache dello stesso materiale, nonché a un’ampia gorgiera. Le gambe erano ulteriormente rivestite da gambali in cuoio cotto con eventuali ginocchiere di metallo, mentre le calzature erano o di maglia di ferro con suola in cuoio, o in cuoio ma ferrate. Petto e schiena erano protetti dalla vera e propria corazza, fatta di piastre di ferro innestate su un rivestimento di cuoio che si allacciava sui fianchi; sopra di essa la cotta d’armi, ovvero la sopravveste, solitamente lunga oltre le ginocchia e riccamente ornata.
La spada, lunga e a doppio taglio, era riposta nel fodero appeso alla vita mediante una doppia cintura, il cingolo cavalleresco, ed evidenziava un ampio pomo metallico al termine dell’impugnatura, per favorirne il bilanciamento. L’elmo dei cavalieri pesanti dell’aristocrazia era costituito da una scatola cilindrica con due lunghe e sottili fessure per gli occhi; occasionalmente, quando era di forma circolare, era dotato di visiere mobili. Era richiesta la presenza di un cavallo di riserva, né mancavano servitori addetti alla manutenzione delle armi e alla cura dei cavalli stessi.
Gli effettivi a cavallo di ciascun sestiere erano divisi in più unità tattiche, ciascuna di 25 uomini oltre a un capitano, ulteriormente suddivise in squadre da cinque, dette poste. Gli effettivi comunali erano incrementati, tra gli altri, anche dalla cavalleria leggera reclutata altrove, ovvero i berrovieri, divisi in squadre da 50 condotte da un gonfaloniere e da due capitani, ciascuno tenuto a presentarsi con tre cavalli. Le squadre da cinquanta miste, nelle quali erano inquadrati anche i cavalieri pesanti, venivano definite conestabilerie, ed erano fornite anche di musici che suonavano la cennamella, strumento simile alla zampogna utilizzato per diramare gli ordini.
Esistevano poi ulteriori contingenti forniti dal contado e reparti di specialisti, come gli arcieri, i balestrieri, i pavesai e i picchieri; anche costoro, si badi bene, quando non erano in guerra svolgevano normali attività artigiane. Al fante si richiedeva solitamente un’armatura imbottita, il gambeson, in Italia definito anche zuppone o bambagione, di cuoio o di tessuto imbottito di fibra vegetale o bambagia, con maniche in ferro e gorgiera, e un cappello di ferro o una semplice cervelliera, nonché lancia e scudo, quest’ultimo usualmente a mandorla. Sovente, tuttavia, il capo era ricoperto semplicemente di cuffie di lino, anche imbottite, e di cappucci.
Ulteriori armamenti erano affidati all’iniziativa personale, e non di rado i combattenti si dotavano anche di attrezzi agricoli, come coltellacci e roncole. Due ufficiali nominati per l’occasione erano addetti al reclutamento di zappatori e guastatori, che dovevano essere armati di zappe e scuri e aggregati per sestieri accoppiati; in occasione della battaglia di Montaperti, si dispose la presenza totale di 600 guastatori e altrettanti zappatori.
Per quanto riguarda invece i tratti distintivi di ciascun miles specializzato, il balestriere era tenuto a disporre di una balestra, di una faretra con almeno una dozzina di dardi – definiti quadrelli e verrettoni, con le tipiche alette di penna, di legno o di cuoio –, e del crocco, il gancio in ferro necessario al caricamento dell’arma, che si appendeva alla cintola. Lo strumento era entrato in uso nel corso del secolo per facilitare il compito del soldato, che tirava a sé la corda spingendo entrambi i bracci dell’arco con i piedi; agganciando la corda alla cintura, invece, il balestriere evitava l’uso delle mani, ottenendo la tensione dell’attrezzo mediante la spinta verso il basso con i piedi; l’introduzione di una staffa, posta in cima al teniere, gli consentì inoltre di guadagnare in stabilità introducendovi la punta del piede in fase di caricamento. In alternativa, si usava anche una cintura col gancio a carrucola, con una cordicella che il soldato agganciava all’arresto del teniere mentre era accovacciato, per poi ottenere la tensione semplicemente alzandosi in piedi. Nel secolo successivo, altri sistemi sarebbero stati introdotti per potenziare la tensione, come argani, verricelli e martinetti (balestra de torno) o una leva (balestra de leva), detta “piede di capra”.
La balestra duecentesca era costituita da un fusto di legno, detto teniere, usato come impugnatura, e da un arco a più strati incollati di legno; un meccanismo a leva garantiva la potenza del tiro. Arma conosciuta fin dall’Antichità ma riscoperta solo nel corso dell’XI secolo, era considerata talmente micidiale che, per lungo tempo, il papato ne proibì l’uso nelle guerre tra cristiani.
Al pavesaio il comune dava il pavese, l’ampio scudo che copriva il corpo da terra fino al petto, costituito da tavole di legno con un rivestimento in cuoio d’asino lungo il bordo. Ciascun sestiere vi apponeva il proprio simbolo, ovvero un becco per Borgo, un ponte per Oltrarno, le chiavi per San Piero, un battistero per Porta del Duomo, una ruota per San Pier Scheraggio, una branca di leone per San Pancrazio; i colori erano il rosso e il bianco. Durante la marcia, i pavesi erano trasportati su carri vicino ai quali erano sempre tenuti a stare i soldati che li avrebbero imbracciati durante la battaglia; costoro, a loro volta, dovevano procedere a breve distanza dai balestrieri, i quali agivano proprio al riparo dei grossi scudi. Il picchiere – termine peraltro più correttamente ascrivibile a epoche posteriori – era invece dotato della caratteristica gialda, la lancia con asta di frassino lunga oltre tre metri.
In campagna, le salmerie erano trasportate, oltre che da muli, dalle tregge, slitte di legno e traliccio vegetale più adatte dei carri a percorrere i tortuosi scacchieri della Toscana. Il numero dei fuochi che gli esploratori erano tenuti ad accendere segnalava la consistenza dell’esercito nemico; si andava da un falò, che attestava semplicemente l’avvicinamento di un’armata avversaria, a tre fuochi accesi contemporaneamente, a significare un attacco in forze.
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