I mongoli in guerra

Armi, armature, tattiche, formazioni, logistica e altro ancora...
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I mongoli in guerra

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Tratto da "Le grandi battaglie del Medioevo" di Andrea Fedriani.

Pochi popoli, nella Storia, hanno manifestato un’efficacia bellica pari a quella dei mongoli inquadrati da Gengis Khan, proficuamente utilizzati, peraltro, anche dai suoi immediati successori su tutti i fronti possibili. Tutto, dalla struttura dell’esercito alle strategie e alle tattiche, fino all’armamento, era basato sulla semplicità e sulla necessità, per permettere ai guerrieri di sprigionare tutta la loro forza combattiva e seguire senza distrazioni gli ordini dei capi.
L’ordinamento era decimale, come quello degli eserciti persiani. La divisione era definita tumen, e ammontava a 10.000 uomini, a loro volta suddivisi in dieci mingham, reggimenti da 1000 effettivi ciascuno; la suddivisione proseguiva con gli jagun, gli squadroni da 100 uomini, per finire con gli arban, compagnie da 10. Tra tutte le unità spiccava il keshik, la guardia imperiale, ampia quanto un tumen, e i suoi erano i soli guerrieri obbligati a servire sotto le armi anche in tempo di pace; ciascuno di essi aveva un’autorità superiore a quella di un qualsiasi comandante di un’unità ordinaria. Il sistema, come si può osservare, era concepito in modo tale che ciascun comandante non dovesse dare ordini a più di dieci subalterni, assicurando così una rapida trasmissione degli ordini stessi e la loro pronta attuazione, in pieno accordo con l’impareggiabile dinamismo delle armate mongole.
Molti erano gli elementi che garantivano velocità e concretezza agli eserciti dei khan, a cominciare dalla netta prevalenza di effettivi di cavalleria rispetto alla fanteria. Il resto, aveva a che fare soprattutto con la straordinaria capacità di resistenza dei guerrieri, in grado di stare giorni e giorni senza mangiare, di trovare commestibile qualunque animale e perfino l’uomo – si disse che in una circostanza drammatica essi si obbligarono a uccidere uno di loro ogni dieci pur di nutrirsi – e di bere, oltre al latte di giumenta fermentato, detto kumis, se necessario il sangue dei loro cavalli, che si procuravano aprendogli una vena sul collo.

Altrettanto determinante era la ferrea disciplina, in base alla quale molte mancanze erano punite con la morte; e funzionava egregiamente, tanto da indurre Giovanni dal Pian del Carmine ad affermare che i mongoli erano «più obbedienti ai loro padroni di qualunque altro uomo sulla terra, fosse esso religioso o secolare».
In fase di avanzata, le comunicazioni venivano assicurate da rapidi corrieri, da esploratori i cui movimenti precedevano l’armata principale anche di cento chilometri e oltre, e da segnali di fumo. I segnali nell’imminenza di una battaglia, invece, venivano dati dai movimento dello stendardo, lo yuk, e dal suono di un grande tamburo detto naccara. In marcia, le operazioni di allestimento e smontaggio del campo erano snellite dall’estrema semplicità del ricovero, lo yurt, o più correttamente ger, una tenda rotonda pieghevole con intelaiatura in vimini e rivestimento in feltro, capace di contenere dieci uomini. Seguivano le colonne dei guerrieri in cammino carri enormi a quattro ruote, dotati di una copertura in feltro, trainati da 33 buoi e guidati da donne, e del convoglio facevano parte anche i cammelli, proficuamente utilizzati come bestie da soma.
Caratteristiche peculiari della conduzione della guerra, cui raramente i mongoli vennero meno, erano l’accurata preparazione strategica di una campagna, la marcia in più tronconi – solitamente tre – che si ricongiungevano solo in vista dell’obiettivo e, a livello tattico, la ritirata simulata, che attirava l’avversario nella morsa di una manovra detta tulughma; grazie ad essa le ali di cavalleria leggera, partendo dalle retrovie, avvolgevano i fianchi dell’avversario mentre questi era impegnato contro il centro. In battaglia, i mongoli schieravano solitamente l’armata con due ali, un corpo centrale e una riserva. Ciascuna sezione era disposta su cinque file, di cui le prime due di cavalleria pesante o addirittura corazzata, le altre di cavalleria leggera; queste ultime potevano avanzare sia sui fianchi, sia passando attraverso i varchi lasciati appositamente tra uno jagun e un altro.
Un mongolo imparava a cavalcare all’età di tre anni – quando lo legavano sulla sella – e a tirare con l’arco solo due anni dopo. In campagna, la sua estrema mobilità era assicurata dalla presenza di ben quattro cavalli di ricambio, su ciascuno dei quali era capace di stare in sella anche per ventiquattr’ore consecutive. La sella era protetta dal grasso di pecora e le staffe erano solitamente appese corte.
L’arco composito mongolo, una delle armi più micidiali della Storia, era capace di una gittata fino a 300 metri, grazie anche al fatto di essere teso contro la sua curva naturale. Esso era fatto di corno di yak, nervo e bambù, incollati e tenuti insieme finché non si fondevano in un unico pezzo. A dir la verità i mongoli, di archi, ne avevano due: uno corto e uno lungo, accompagnati da più faretre contenenti ciascuna una trentina di frecce, sia a punta larga per il tiro corto, sia a punta affusolata per i lanci più lontani; entrambi i tipi presentavano piume d’aquila all’estremità. La capacità di penetrazione di un dardo mongolo era assicurata dal trattamento del metallo, che veniva indurito rendendolo dapprima incandescente e poi raffreddandolo nell’acqua salata.
Le altre armi offensive erano una lunga lancia, ornata con coda di yak e dotata di un uncino in corrispondenza della punta per disarcionare l’avversario, una scimitarra, una mazza e un lazo; tra le armi difensive, lo scudo compariva solitamente quando un guerriero combatteva a piedi, mentre l’elmo, conico e a più sezioni, era caratterizzato talvolta da un crine, quasi sempre da un ampio paranuca a ventaglio.
L’alternativa all’elmo era il tipico copricapo conico di pelle o pelliccia di volpe, lince o lupo, con orli frontali e laterali che si alzavano o si abbassavano. a seconda delle necessità climatiche. Caratteristica somatica del guerriero mongolo era, oltre ai lunghi e sottili baffi, la tosatura quadrata sulla sommità della testa, che lasciava un ciuffo pronunciato sulla fronte, una cintura intermittente di capelli sulle tempie e, sulla nuca, capelli lunghi avvolti in due trecce vicino alle orecchie.
L’armatura, indossata forse solo dai cavalieri più importanti o da una ridotta percentuale di guerrieri, poteva essere di cuoio bollito ricoperto di una pellicola impermeabile a base di pece, o lamellare in ferro, con piastre rettangolari allacciate le une alle altre mediante laccetti di cuoio; secondo il modello mutuato dai cinesi, la corazza vantava protezioni molto consistenti per le spalle. Una giacca a maniche corte sopra una maglia di seta a maniche lunghe, ampi pantaloni e stivali privi di tacco completavano l’equipaggiamento. In alcuni casi anche il cavallo era corazzato, con un’armatura lamellare di cuoio che ricopriva completamente l’animale fino alle ginocchia e oltre, grazie alla giunzione di cinque pannelli, oltre a quello per il muso.
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I CONQUISTATORI DEL MONDO, L'ESERCITO MONGOLO (1206 - 1294)

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ESERCITI MEDIEVALI (2): I CONQUISTATORI DEL MONDO, L'ESERCITO MONGOLO (1206 - 1294)
di Regogolo Boemetto (Illustrazione di Wayne Reynolds)
https://m.facebook.com/story.php?story_ ... 2659379706

Per comprendere come quella che appariva come un'orda di selvaggi a cavallo poté schiacciare civiltà sofisticate e avanzate come quella cinese e persiana, e creare il più grande impero della storia, vi invitiamo a fare un piccolo esperimento. Lasciate lo smartphone a casa e fate a piedi un tragitto che di solito percorrete in auto o coi mezzi. Per l'uomo pre-industriale, che si muove prevalentemente a piedi e non può fare affidamento sui moderni sistemi elettronici per spostarsi, comunicare e accedere alle informazioni, il tempo e lo spazio avevano un significato molto diverso dal nostro. Infatti, se ci immedesimiamo in un uomo del XIII secolo, che conosce quello che vede di persona e quello che gli viene riferito, con una conoscenza geografica dello spazio sommaria e per il quale miglia e chilometri sono molto più lunghi che per noi, potremo comprendere meglio perché l'arma segreta dei Mongoli era la mobilità. Nell'anno 1206 il kurultai, l'assemblea dei più importanti leaders della steppa, scelse Timujin quale capo supremo, conferendogli il titolo di Gengis Khan (sovrano universale). Alla morte di Kubilai Khan, nel 1296, gran parte dell'Eurasia era finita a far parte dell'impero più vasto della storia umana. Se andiamo ad analizzare la loro organizzazione, lasciandoci alle spalle lo stereotipo delle orde indisciplinate di barbari a cavallo, potremo osservare i singoli meccanismi che fecero di questa macchina bellica una forza inarrestabile.

ORGANIZZAZIONE E LEADERSHIP
Gengis Khan riorganizzó non solo l'esercito, ma anche la società mongola, due sfere quasi identiche in una società tribale e guerriera. Il censimento divenne uno strumento fondamentale per tutti i Khan successivo, non solo per riscuotere le tasse, ma anche per reclutare soldati. L'intera popolazione venne divisa in unità note come aurug, equivalenti circa a un nucleo familiare esteso. Questi aurug dovevano fornire soldati e il loro equipaggiamento, così che la società veniva a essere plasmata in funzione del mantenimento dell'esercito. Quest'ultimo passò ad essere organizzato secondo il sistema decimale, in unità da 10 (arbat), 100 (jaghut), 1.000 (minqat) e 10.000 (tumet). Questo schema, già utilizzato da altri popoli (Persiani, Jurchen, Khitan), permise di rompere i tradizionali vincoli di fedeltà tribali, incrementare il controllo centrale del Khan sulle riottosi tribù e razionalizzare l'esercito, diviso a sua volta in tre parti, l'ala destra, l'ala sinistra e il centro. Questa catena di comando flessibile ed efficiente era mantenuta funzionante da dei comandanti abili e competenti, dei veri e propri professionisti addestrati e selezionati per il merito. Oltre a essere tremendamente abile a scovare i più talentuosi fra i propri sottoposti, Gengis Khan istituì il keshik, un corpo scelto che passò dall'essere la guardia del corpo del Khan a un reparto d'élite di oltre 10.000 uomini. I membri di questo tumen erano scelti fra i più abili, oppure erano nobili ostaggi di tribù o popoli di recente conquista. Servendo in questa unità, essi si legavano personalmente al Khan, assorbivano la cultura mongola e imparavano a comandare. Un altro sistema consisteva nel mandare come "apprendisti" giovani principi e ufficiali presso un comandante di vasta esperienza. La preminenza del merito sulle nobile origini era tale che persino un principe di sangue reale poteva essere punito e rimandato dal Khan se disobbediva al generale cui era stato affidato. Ogni comandante inoltre era tenuto a saper subentrare al suo diretto superiore in caso di necessità, dando quindi ai Mongoli un vantaggio enorme su nemici meno flessibili e organizzati, un po' come i soldati della Wehrmacht secoli dopo.
Oltre all'esercito propriamente mongolo, in cui venivano integrati molti nomadi e popoli affini come le varie tribù di stirpe turche, vi erano i tamma e i cerik. I tamma erano forze militari composte da nomadi che venivano dislocate in zone strategiche dell'impero con la funzione esercitata dai castelli medievali: fornire una base d'appoggio per le operazioni e mantenere il controllo del territorio. Ma a differenza delle difese statiche (aborrite dai Mongoli), i tamma potevano venire spostati in base all'esigenza per sorvegliare le frontiere ed intimidire i nemici. Quando servivano guarnigioni fisse invece si ricorreva ai cerik, forze composte da soldati arruolati presso i popoli sedentari. In questo modo i dominatori potevano usare ausiliari per eseguire mansioni a loro poco congeniali, come il combattimento corpo a corpo e guarnire luoghi fortificati.

IL GUERRIERO MONGOLO
Un addestramento all'uso delle armi era praticamente inutile per il tipico guerriero mongolo. Infatti la dura vita della steppa faceva si che praticamente ogni maschio adulto sapesse cavalcare, tirare con l'arco, combattere con lancia e spada, ma anche seguire tracce, esplorare e riparare il proprio equipaggiamento. L'addestramento era invece necessario per instillare nei guerrieri la disciplina, la grande innovazione portata da Gengis Khan. Infatti le tattiche dei guerrieri della steppa erano usate e conosciute da millenni (pensiamo solamente a Sciti e Unni), così come era nota la tendenza di questi feroci guerrieri a disperdersi invece di raggrupparsi in caso di sconfitta e abbandonare l'inseguimento dello sconfitto per saccheggiare in caso di vittoria. Temujin vietò ai propri uomini di iniziare il saccheggio prima che la vittoria fosse completata con l'annientamento del nemico, predispose punti di ritrovo in caso di ritirata e instillò un forte spirito di corpo nei propri uomini. Per attuare con successo le varie tattiche quali il caracollo o le finte ritirate (ne parleremo fra poco) serviva un rigoroso addestramento alle manovre e una grande disciplina. Durante l'inverno era tradizione tenere delle grandi cacce, in cui venivano "provate" le manovre a cavallo poi usate in battaglia.
La lealtà e l'efficienza dei guerrieri erano garantiti in parte da una disciplina severissima che poteva colpire sia gli umili militi che i più alti comandanti, sia dall'abilità degli ufficiali che erano responsabili delle condizioni dei propri uomini. Dovevano assicurarsi che ogni guerriero avesse a disposizione l'armatura, una sella, vestiti, gli strumenti per badare ai cavalli, vari archi (ognuno con una funzione), frecce, armi bianche, strumenti da campo e razioni. Per quanto riguarda la corazza, i Mongoli preferivano le armatura lamellare per diversi motivi: innanzitutto era più facile da costruire e riparare rispetto alla cotta di maglia, e aveva il vantaggio di fornire una protezione migliore contro le frecce, sebbene molti Mongoli non indossassero proprio armature. L'arco era l'arma principale dei Mongoli e il loro fiore all'occhiello. Realizzato con legno, tendini, corno e colla, questo arco composito era in grado di scagliare una freccia con forza letale fino a 300 m, con una gittata estrema di 500 m. Vi erano un gran numero di punte diverse, da quelle barbute per bersagli senza armatura a quelle più lunghe e dritte da usare contro nemici corazzati. Superiore alla balestra e all'arco lungo inglese, il principale difetto di quest'arma era la vulnerabilità al clima umido e alla pioggia. Le armi bianche invece, usate malvolentieri e spesso solo per finire un nemico in fuga o demoralizzato, comprendevano mazze, lance lunghe e corte, spade e asce. Ogni guerriero aveva poi a disposizione il necessario a provvedere a sé stesso sia dal punto di vista dei viveri che dell'equipaggiamento, potendo ricavare carne, latte, cuoio, ossa e tendini dagli animali che portava con sé.

IL CAVALLO
Il grande protagonista delle conquiste mongole, ancora più importante dell'arco composito, fu il cavallo. Questo animale della steppa risulta più piccolo e lento dei suoi cugini, ma possiede alcune caratteristiche uniche. La sua stamina elevatissima permise ai cavalieri della steppa di viaggiare per lunghissime distanze, mentre la robustezza naturale al clima rigido permise ai Mongoli di riuscire nell'impresa apparentemente impossibile di invadere la Russia d'inverno. Grazie alla sua abitudine di accontentarsi di erba da pascolo come nutrimento, il cavaliere mongolo poteva evitare di portare con sé risorse di avena e granaglie per nutrire i suoi animali. Infatti ogni guerriero aveva a disposizione 3-5 cavalcature, che gli permettevano di far riposare l'arcione esausto semplicemente cavalcandone un altro e gli fornivano anche parte del nutrimento necessario. Infatti si preferiva usare castroni (cavalli maschi adulti castrati) o giumente, sia per il loro temperamento docile, sia perché quest'ultime potevano fornire un ottimo contributo al mantenimento del padrone attraverso il latte. Marco Polo riferisce che in casi estremi il cavaliere poteva sfamarsi forando una vena sul collo del cavallo e bevendo direttamente dall'animale il sangue caldo. Nonostante la minore velocità dei propri animali, spesso i Mongoli potevano superare in velocità gli avversari che avevano a disposizione bestie più possenti e veloci ma che dovevano portare più peso. La sapiente economia nella gestione delle forze dei propri animali era anche alla base dello yam, il servizio postale che grazie a una rete di stazioni di cambio permetteva agli emissari del Khan di percorrere tragitti lunghissimi in tempi da record, garantendo ai Mongoli un sistema eccellente per acquisire informazioni e mantenere collegato un impero enorme.

STRATEGIA
Dal regno di Ogodei (Il figlio di Temujin) in poi, i mongoli si convinsero che il Cielo li avesse scelti per conquistare il mondo. Dimentichiamo l'immagine di orde che vagano a caso distruggendo tutto. I Mongoli, forse più di ogni altro popolo, trattarono la conquista quasi come una scienza, assumendo un approccio pragmatico e flessibile. I capi riuniti decidevano insieme quali campagne intraprendere, e sebbene la parola del Khan avesse più peso, i consigli dei generali erano tenuti in grande considerazione. Una volta stabilito il bersaglio dell'invasione iniziava un lavoro di intelligence che prevedeva l'invio di spie e ricognitori per raccogliere più informazioni sul nemico. A queste si aggiungevano quelle che venivano raccolte dagli eserciti sul campo, che spesso inviavano soldati in missioni avanzate per studiare i futuri nemici. Nello studio del territorio nemico un elemento importantissimo era rappresentato dai grandi terreni da pascolo, fondamentali per mantenere operative le decine di migliaia di cavalli delle steppe.
Sebbene i piani fossero molto dettagliati nell'illustrare i modi e i tempi con cui dovevano essere raggiunti i vari obbiettivi, sul campo i comandanti avevano ampia autonomia per raggiungere tali obbiettivi nel modo che ritenessero più consono, tale era la fiducia nella loro lealtà e competenza che li caratterizzava.
Dichiarata guerra, reclutati gli uomini, assegnati i comandanti e preparati i piani, le armate mongole potevano sfruttare la loro immensa mobilità per attaccare il nemico sorpreso in più punti contemporaneamente. Così facendo potevano distruggere o sottrarre risorse al nemico, costringerlo a tenere le proprie forze disunite per proteggere più punti e andare a creare un cerchio che mano a mano andava stringendosi sulle più importanti città e fortezze nemiche. Prendendo prima obiettivi minori infatti si eliminavano potenziali minacce nelle retrovie, si creavano orde di rifugiati che andavano a consumare le provviste delle città e si tentava di attirare in una battaglia campale gli eserciti nemici. L'obbiettivo principale infatti era la distruzione delle forze nemiche e l'eliminazione dei leader, in modo da impedire eventuali contrattacchi. Sebbene i Mongoli prediligessero gli scontri in campo aperto dove potevano sfruttare al massimo tutti i vantaggi a loro disposizione, a partire dalla guerra contro il regno di Xi Xia riconobbero la necessità di apprendere le tecniche d'assedio. L'apporto di ingegneri cinesi e persiani fu fondamentale e permise loro di schierare trabucchi a trazione (anche a contrappeso dal 1273), arieti e torri d'assedio, sebbene la tattica preferita rimanesse l'affamare la città per costringere i difensori a cercare un accordo. Un'idea della spietata efficienza dei mongoli ci viene data dall'abitudine ad usare civili del posto come carne da freccia, costringendoli a erigere contro-muraglie, riempire i fossati e manovrare gli arieti. In questo modo i Mongoli dovevano intervenire solo al momento del vero e proprio combattimento, risparmiando così i propri uomini e infliggendo un duro colpo ai difensori, costretti ad uccidere amici e conoscenti. I Mongoli conoscevano la polvere da sparo, usata con efficacia dai Cinesi contro di loro, ma pare che non la usassero molto. Probabilmente ciò è dovuto alle difficoltà logistiche che la conservazione e il trasporto di questa sostanza comporta, oltre alla lontananza dai centri di produzione in Cina, sebbene pare che usassero sostanze simili al fuoco greco.

GUERRA PSICOLOGICA
Se molta cura era riservata al mantenimento della disciplina e di un morale alto, altrettanta era dedicata ad intaccare quello del nemico, confondendolo e scoraggiandolo con un vasto assortimento di trucchi. Nonostante quello che spesso si crede, la maggior parte delle volte i Mongoli si trovarono in inferiorità numerica rispetto agli avversari. Ma stratagemmi quali manichini montati sui cavalli di riserva, fuochi da campo multipli per ogni soldato, fascine trascinate dai cavalli per creare più polvere e abili dicerie fatte circolare, contribuivano a far credere al nemico di dover affrontare forze immense. Se a questo aggiungiamo la mobilità che permetteva ai Mongoli di spostarsi più rapidamente di quanto facessero le notizie su di loro, possiamo capire perché per i loro avversari fosse quasi impossibile capire quanti fossero veramente e predirne i movimenti. Nei pragmatici disegni di conquista dei Khan gli eccidi avevano un ruolo importante e programmato. Dove I popoli sedentari miravano a conquistare popolazioni produttive, i Mongoli erano consapevoli di non avere abbastanza forze per prevenire eventuali ribellioni. La soluzione erano eccidi spaventosi, che stupirono e terrorizzarono i contemporanei. Ma questi massacri non erano ciechi sfoghi di violenza, ma avevano due scopi: innanzitutto ci si liberava una volta per tutte dei sudditi più riottosi, e in secondo luogo si spargeva un terrore tale che ben pochi avrebbero osato ribellarsi. La tremenda reputazione che i Mongoli curavano di ingigantire e diffondere fece si che molte città e popoli si arresero senza combattere, per timore di fare una fine orrenda. Infine, in battaglia i Mongoli cavalcavano in completo silenzio, lanciando una salva di frecce dopo l'altra fino al momento della carica finale, quando ogni guerriero lanciava un altissimo urlo che terrorizzava i nemici già scossi.

TATTICA
Ogni battaglia era preceduta da un'intensa opera di spionaggio, pianificazione e manovra. Avendo il vantaggio della mobilità, spesso i Mongoli ricorrevano a strategie fabiane per logorare il nemico, attirarlo in trappola, combattere solo nel luogo e al tempo a loro più favorevole. Usando piccole forze come esche erano in grado di attirare forze nemiche considerevoli in trappola, come accadde nel 1223 sul fiume Kalka, quando i Russi vennero massacrati dopo più di una settimana di inseguimento. Sfruttando la potenza di fuoco e l'agilità dei propri arcieri a cavallo, i Mongoli ricorrevano al caracollo, una complessa manovra in cui la prima fila scoccava e si ritirava per far posto alla seconda che poi faceva lo stesso per lasciare spazio alla terza, e così via. Attraverso frecce fischianti, segnali di fumo e bandiere, i comandanti, che a differenza di molti "colleghi" contemporanei evitavano di partecipare direttamente allo scontro, potevano dare ordini e indirizzare il tiro contro specifici bersagli. Infatti i Mongoli furono fra i primi a comprendere le potenzialità del tiro concentrato, sia che fosse quello delle armi d'assedio contro una sezione delle mura di una fortezza, sia che fosse una serie di salve di frecce tirate contro un nemico importante. La pioggia di strali provocava confusione, panico, morti e feriti, e costringeva i nemici ad aprire la formazione per non offrire un bersaglio facile. Solo quando le formazioni avversarie sembravano abbastanza indebolite e demoralizzate avveniva la carica finale dei lancieri, che spesso era sufficiente per mettere in rotta definitiva un nemico. Consapevoli che un animale con le spalle al muro combatte disperatamente per la propria vita, i Mongoli erano anche soliti lasciare finte via di fuga aprendo volontariamente il loro schieramento, per poi inseguire e massacrare i nemici in rotta, come avvenne contro gli Ungheresi a Mohi nel 1241.

Concludendo, i Mongoli furono in grado di forgiare una macchina bellica dalla straordinaria efficacia e adattabilità, in grado di sfruttare appieno la propria immensa mobilità per impiegare un tipo di warfare che non si sarebbe praticamente più rivisto fino ai tempi della Blitzkrieg germanica. Sebbene apparissero come inarrestabili, anch'essi subirono diverse sconfitte (dalle quali seppero sempre riprendersi) e avevano delle debolezze. Innanzitutto non avevano un'élite propriamente detta e altamente addestrata, come potevano essere i Mamelucchi o i Samurai giapponesi. Inoltre, la loro dipendenza dai terreni di pascolo per i loro animali li rendeva vulnerabili alle tattiche di terra bruciata. Nonostante questi punti deboli, i Mongoli travolsero ogni resistenza, creando un impero che andava dalla Corea all'Ungheria, un impero creato sulle ossa di milioni di vittime.
Per citare una frase di Gengis Khan, meglio conosciuta per essere stata pronunciata da un personaggio assai meno vigoroso e prestante:
"La più grande felicità è sconfiggere i nemici, dar loro la caccia, spogliarli di ogni ricchezza, vedere i loro cari inondati di lacrime, stringersi al petto le loro mogli e figlie."

Fonti:

- The Mongols, SR Turnbull
- The Mongol Art of War, Timothy May
- La Storia Segreta dei Mongoli
- Mongol Warfare: Strategy, Tactics, Logistics, and More!, Cam Rea

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