STRATEGIA E TATTICA

Armi, armature, tattiche, formazioni, logistica e altro ancora...
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STRATEGIA E TATTICA

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Appunti...

TATTICHE DIFENSIVE

Terreno difensivo: Questa tattica si evolse addestrando le unità a sfruttare il terreno difensivo e a utilizzarlo efficacemente. Comprendeva anche l'uso di attrezzature particolari e l'esplorazione.
Postazione difensiva: Questa tattica facilitava la difesa di una piccola area proteggendo una serie di posizioni con terrapieni e pali.

Sbarramento di proiettili: Questa tattica consentiva agli arcieri sufficientemente addestrati e disciplinati di effettuare sbarramenti di frecce o dardi contro i nemici in avanzata rapida. L'effetto poteva essere devastante e molto più efficace della tattica "fuoco a volontà".

Picchieri addestrati: Questa tattica si evolse addestrando unità di picchieri che potevano facilmente fermarsi durante la marcia e, dopo essersi arrestati, disporsi in formazioni simili a piccole fortezze nel bel mezzo della battaglia. Utilizzavano una formazione a quadrato ed erano molto efficaci per fermare sia la fanteria che la cavalleria.

Organizzazione di unità: Era l'organizzazione delle masse di fanti in unità militari compatte. Invece di agire come una massa disordinata, iniziarono a muoversi all'unisono con efficienza notevolmente maggiore.

TATTICHE OFFENSIVE

Postazione offensiva: Questa tattica si evolse addestrando le unità a sfruttare le postazioni offensive e a utilizzarle efficacemente. Comprendeva anche l'esplorazione e l'uso di attrezzature particolari.

Carica frontale: Questa tattica sfruttava al massimo la potenza d'urto di una compatta formazione di cavalleria. Consentiva alle unità di caricare in attacchi frontali e non influiva negativamente sul morale, il che faceva sì che queste unità non si arrendessero facilmente.

Riserve: Questa tattica prevedeva il mantenimento di una piccola riserva nelle vicinanze, che poteva essere utilizzata per modificare la situazione nei momenti chiave di una battaglia.

Cavalieri a piedi: Questa tattica si evolse addestrando i cavalieri come fanti. Ciò li rendeva molto più adattabili durante il combattimento; inoltre il morale e l'abilità superiori ne facevano eccellenti unità multiuso.

Comando gerarchico: Si evolse per soddisfare la necessità di una chiara catena di comando sul campo di battaglia. Spesso, in precedenza, le complicate e conflittuali gerarchie feudali decidevano se, quando e perché un ordine diretto sul campo di battaglia sarebbe stato eseguito o meno. Fu quindi adottato un sistema gerarchico di comando, in cui ognuno sapeva qual era il suo posto e in cui disubbidire a un ordine significava una morte rapida e disonorevole.
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l'imboscata

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IL PIANO DI BATTAGLIA PIU' ANTICO
l'imboscata
di Nicola Zotti http://www.warfare.it

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L'imboscata è probabilmente il primo piano di battaglia adottato dall'uomo.

L'immagine che vedete qui sopra è tratta dagli affreschi rupestri preistorici di Morella La Vella, la più antica testimonianza di combattimento mai lasciata dal genere umano e ne rappresenta molto probabilmente una.

Tecnicamente, con l'imboscata l'attaccante massimizza l'effetto sorpresa assalendo l'avversario da una posizione nascosta mentre questi è in movimento o temporaneamente fermo: ovvero non è schierato in battaglia, né in condizione di farlo agevolmente.

Caratteristica saliente dell'imboscata è che il luogo è scelto dall'aggressore, mentre il tempo è stabilito dai movimenti del difensore: fattori che influenzano tutta la sua preparazione.

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L'organizzazione di un'imboscata comincia con l'assunzione di informazioni sul nemico, in particolare inviduando ovviamente le sue linee di comunicazione, abitudini ed entità delle forze, le precauzioni che usa negli spostamenti e le modalità dei suoi convogli, la possibilità dell'arrivo di rinforzi, l'eventualità che sia capace a sua volta di tendere una trappola.

Sulla base di queste informazioni, l'attaccante individuerà il luogo più adatto per l'imboscata, le cui caratteristiche ideali devono permettere l'attacco da posizione occultata, vie di accesso e di fuga nascoste e ottime capacità di osservare l'arrivo dell'avversario.

A questo punto l'aggressore può determinare l'entità delle forze di cui ha bisogno per effettuare l'imboscata e le dividerà in tre elementi:

gli elementi di avvistamento
gli elementi di sicurezza
gli elementi di attacco
I primi saranno disposti in posizioni con la migliore visibilità possibile lungo le vie di accesso del nemico e ne segnaleranno l'arrivo; il loro compito è anche quello di protezione più esterna di tutto il dispositivo. Si schiereranno per primi.

I secondi sono responsabili di isolare il sito dell'imboscata e di proteggere gli elementi d'attacco da possibili sorprese: effettueranno blocchi stradali, altre imboscate minori, pattuglie esplorative. Si schiereranno per secondi.

Infine l'elemento d'attacco attenderà in una posizione protetta il momento migliore per schierarsi lungo le posizioni predisposte in precedenza per l'attacco, alle quali accederà lungo vie sicure. Saranno gli ultimi a prendere posizione.

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Le modalità dell'attacco possono variare a seconda dei casi, ma una tipica imboscata seguirà più o meno queste fasi:

gli avvistatori segnalano l'arrivo della colonna nemica con tutte le informazioni possibili sulla consistenza, i tempi previsti di passaggio per il sito dell'imboscata, ecc.
Il comandante, ricevute le informazioni, decide se effettuare o meno l'azione e se del caso muove l'elemento di attacco dall'area di radunata alle posizioni scelte per l'attacco.
La prima ad essere attaccata sarà di norma la retroguardia nemica, che si fermerà distanziandosi dal resto della colonna e provocando così un varco nel quale gli avversari potranno infiltrarsi.
Coi tempi decisi dal comandante in capo, in genere abbastanza rapidi, segue l'attacco alla colonna principale: anch'essa, fermandosi, si distanzierà dall'avanguardia.
Questa sarà l'ultima ad essere attaccata e l'intera forza nemica sarà divisa in tre troconi incapaci di assistersi vicendevolmente.
Alla conclusione del combattimento, i primi a lasciare il luogo dello scontro saranno gli elementi di attacco, portando con sé prigionieri, materiali, ecc.
Quindi sarà la volta degli elementi di sicurezza e per ultimi degli avvistatori.
L'attacco farà in modo di massimizzare la confusione nel nemico per paralizzarne la capacità di reazione e impedirgli di organizzare una difesa efficace.

In preparazione di un' imboscata particolarmente importante o per effettuare azioni di disturbo, l'aggressore potrà adottare modalità di attacco diverse da quelle descritte, ad esempio iniziando l'assalto al convogli nemici dall'avanguardia: questa azione ripetuta costantemente, provocherà un aumento sproporzionato delle forze destinate all'avanguardia rispetto alle altre componenti.
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L'incursione

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IL PIANO DI BATTAGLIA PIU' ANTICO: n. 2
L'incursione
di Nicola Zotti http://www.warfare.it

Nel giugno del 2008 ho definito l'imboscata "il primo piano di battaglia adottato dall'uomo": avendo anteposto a questa frase "probabilmente", tutto sommato mi sento meno colpevole nel rivedere questo giudizio, assegnando all'incursione almeno pari diritti di primogenitura.

Si potrebbe infatti avviare con questo tema una potente discussione astratta sulla filosofia dei conflitti, nonché sulla natura dei processi economici: l'istinto predatorio dell'uomo, la sua tendenza ad "arrotondare" con la rapina le proprie risorse economiche, precedono o seguono altri impulsi?

Essendo la guerra un atto collettivo, e politico, che cosa determinò per la prima volta il consenso comunitario indispensabile a portarlo a compimento? L'invidia per i possessi altrui o la difesa dei propri?

La questione che pongo, essendo collegata ad un piano di battaglia, ha una valenza che la emancipa dalla sua primitività cronologica, perché presuppone -- immaginatevele -- tutte le premesse della guerra, così come la conosciamo: un esercito organizzato, un comando autorevole, degli ordini da eseguire disciplinatamente.

L'incursione è un attacco di sorpresa contro una forza o una posizione nemica (una città, una caserma, un caposaldo, ecc.), finalizzato alla distruzione di una minaccia o alla conquista di risorse. È caratterizzata dal movimento occultato sull'obiettivo, da un combattimento breve e violento, da un rapido sganciamento dall'azione e infine dalla ritirata sulle posizioni di partenza, eventualmente con il bottino depredato.

Un'incursione presuppone una buona conoscenza del territorio e delle risorse nemiche. Vi è quindi connaturata una fase di intelligence volta a individuare l'obiettivo dell'azione militare.

Acquisite le necessarie informazioni, l'incursione procederà in un modo simile all'imboscata.

Innanzitutto le forze verranno divise in tre elementi:
gli elementi di avvistamento
gli elementi di sicurezza
gli elementi di attacco

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I primi si schiereranno attorno all'obiettivo per controllare il territorio e verificare le condizioni in cui si potrà svolgere l'azione.

È essenziale possano comuncare tempestivamente al comando ogni possibile cambio nelle condizioni previste per l'attacco od eventuali imprevisti.

Non devono affrontare forze nemiche se non in casi estremi, ma rimanere occultati in osservazione.

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Gli elementi di sicurezza interverranno su posizioni predisposte per isolare l'obiettivo dal possibile intervento di forze nemiche in soccorso e per proteggere la forza principale.

Blocchi stradali, imboscate e altre forme di arresto vengono effettuate in località conosciute e con modalità stabilite in precedenza.

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Infine la forza principale condurrà l'attacco all'obiettivo, rapidamente e senza diversioni che rallentino il conseguimento dello scopo dell'incursione.

Terminato l'attacco, particolare cura dovrà essere posta al ripiegamento, che sarebbe in ogni caso difficoltoso e potrebbe essere reso particolarmente lento da un eventuale bottino.

In previsione di questo, verranno preventivamente schierati lungo la via di ritirata altri elementi di avvistamento e sicurezza, che proteggeranno la testa e i fianchi della colonna principale, mentre durante il movimento retrogrado gli avvistatori e gli elementi di sicurezza che avevano circoscritto l'area di attacco costituiranno la retroguardia: a questo scopo i primi a ritirarsi saranno gli elementi più lontani, seguiti via via dagli altri.
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Classificazione delle 12 battaglie offensive

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DAL PRÈCIS DE L'ART DE LA GUERRE
Le 12 battaglie offensive nella classificazione di Antoine-Henri de Jomini
di Nicola Zotti http://www.warfare.it

Nel capitolo IV, art. XXXI del Précis del l'art de la Guerre, Jomini affronta un'interessante opera classificatoria sugli ordini di battaglia interpretati secondo la chiave di lettura dell'armata attaccante.

Per von Clausewitz la battaglia (ma anche la guerra) è lo scontro dinamico tra forze morali che si influenzano reciprocamente, mentre per Jomini più semplicemente e più direttamente è una specie di rompicapo topologico schematizzabile geometricamente, uno scontro, se mi consentite l'ossimoro, tra astratti ma concreti battaglioni.

Il punto di vista di Jomini, quindi, ci appare ovviamente più superficiale, ma non per questo dobbiamo sottovalutarlo perché comunque si sofferma con lucidità su un aspetto assai reale della guerra.

Jomini premette che in ogni battaglia esiste sempre un'armata attaccante e una che tiene la posizione e riceve l'attacco: la prima non solo si carica di entusiasmo (mentre l'avversario è sotto lo stress dell'attesa) ma soprattutto assume l'iniziativa, pagandola con la negoziazione del terreno che la separa dall'avversario. La seconda, lucra su questo fattore con la prospettiva, che non deve mai mancare, di operare un contrattacco al momento più propizio, riprendendo l'iniziativa nelle proprie mani. E un difensore passivo che non contende l'iniziativa al suo avversario, se non destinato alla sconfitta, è per lo meno destinato a non cogliere il frutto della vittoria.

L'iniziativa è quindi così preziosa da valere un prezzo: la misura di questo prezzo è anche la differenza tra la vittoria e la sconfitta e quindi l'obiettivo al quale l'attaccante deve puntare è sempre quello di massimizziare a proprio favore il rapporto di forze con il nemico sul punto decisivo.

Per Jomini

«Lo scopo di un battaglia offensiva non può essere che far sloggiare il nemico o penetrare [la linea nemica], a meno che con delle manovre strategiche non si abbia preparato la rovina della sua intera armata».

Si tratta di una visione essenziale e ridotta all'osso di una battaglia, ma perfettamente coerente al suo interno e funzionale ai teoremi che Jomini cerca di delineare.

«1) La chiave topografica di un campo di battaglia non è sempre la sua chiave tattica:
2) il punto decisivo di un campo di battaglia è incontestabilmente quello che unisce il vantaggio strategico con i luoghi più favorevoli;
3) nel caso non vi siano delle difficoltà del terreno troppo formidabili sul punto strategico del campo di battaglia, quel punto è di norma il più importante;
4) tuttavia accade anche che la determinazione di questo punto dipenda soprattutto dallo schieramento delle rispettive forze».

Come vedremo successivamente, è quest'ultimo aspetto quello su cui Jomini concentra la sua attenzione.

«In ogni battaglia vi è un punto decisivo che procura la vittoria meglio degli altri, nel rispetto dell'applicazione dei principi della guerra, e ci si deve mettere in condizione di portare i propri sforzi su quel punto.
Il punto decisivo di un campo di battaglia è determinato [...] dalla configurazione del terreno, dalla combinazione delle località con l'obiettivo strategico che un'armata si propone ed infine dalla disposizione delle rispettive forze».

Gli schemi proposti da Jomini non vanno letti tanto come punti di partenza, ovvero come schieramenti iniziali, ma quasi sempre interpretati come punti di arrivo o fotografie della situazione "aerea" del campo di battaglia immediatamente prima dello scontro tra le linee. Inoltre non necessariamente devono essere visti come rappresentazioni dell'intero campo di battaglia, ma piuttosto come le porzioni di esso dove aviene lo scontro sul punto decisivo: come anticipato nella precisazione effettuata al punto 4) indicato sopra.

Una seconda avvertenza che ritengo necessaria è che questi schemi possono sembrare semplicistici, ma sarebbe un grave errore ritenerli tali. Sono delle astrazioni e come tali vanno considerate: dovete lavorare d'intelligenza e di interpretazione, come farebbe un chirurgo che disegna su un foglio con pochi tratti l'operazione su un corpo vivo che si accinge a compiere.

Qui di seguito la classificazione schematica di Jomini nella quale in rosso vedete il difensore e in blu l'attaccante.
jomini_1_ops.png
1. Ordine parallelo semplice.
Secondo Jomini si tratta dell'ordine di battaglia peggiore, perché non ha alcuna consistenza tattica, riducendosi ad uno scontro battaglione contro battaglione. Tuttavia sottolinea anche il caso in cui sia un tipo di battaglia conveniente quando è il frutto di una manovra strategica, come ad esempio il taglio delle linee di comuncazione.

In questo caso uno dei due eserciti potrebbe avere urgenza di sopraffare l'altro: o per riprendere le comunicazioni o per impedire che accada.

Devo dire che Jomini, in questo caso, non sembra afferrare il punto della questione, ovvero il tempo, che può obbligare alla rinuncia di ordini di battaglia più sofisticati e a manovre più complesse. E ci rimane la convinzione che Jomini non considerasse l'elemento tempo, che pure Napoleone non cessava mai di enfatizzare, con la dovuta preoccupazione:

«La strategia è l'arte di fare uso del tempo e dello spazio. Io sono meno avaro di quest'ultimo che del primo: lo spazio posso riprenderlo, il tempo mai». (dalla "Correspondance de Napoleon Ier, publiée par ordre de l'Empereur Napoleon III", Vol XVIII, n. 140707, 1858-1870, pag. 218).

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2. Ordine parallelo con un gancio difensivo o offensivo
Quest'ordine è un caso particolare del precedente e spesso una sua evoluzione che si realizza quando l'attaccante effettua un aggiramento del fianco del difensore, al quale questi reagisce nel modo più spontaneo, ovvero adeguando il proprio fronte fronteggiando la minaccia con un suo arretramento, o impegnando le riserve.

Anche in questo caso Jomini in realtà non approfondisce a sufficienza l'argomento: non segnala, nella fattispecie, che la debolezza che si crea in questo modo nella linea del difensore è all'angolo formato dalla L.

In realtà, per quanto sia una dimenticanza importante, lo si può scusare in quanto di norma l'attaccante non crea questo punto di debolezza "d'angolo" intenzionalmente, per poi sfruttarlo, ma solo come effetto "secondario" di una manovra di superamento del fianco.

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3. Ordine rinforzato su una o due ali
Questo ordine di battaglia è da preferire, secondo Jomini, ai precedenti e molto più in linea con i principi dell'arte della guerra che egli sostiene: cerca in effetti di concentrare le forze su un punto preciso dell'avversario, ovvero un fianco.

Lasciando tuttavia indebolito e soggetto ad aggiramento il fianco opposto e il centro, non può essere impiegata contro un avversario lesto nel riprendersi l'iniziativa.

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4. Ordine rinforzato sul centro
Come il precedente, anche in questo ordine di battaglia Jomini rinviene il riconoscimento dei principi della guerra da lui sostenuti, seppure solo parzialmente, perché ci si espone ad un contrattacco nemico.

Recuperando concetti sparsi in altre pagine, posso aggiungere che Jomini ritiene l'attacco in forze al centro particolarmente consigliabile in un caso: quando l'avversario è disposto a cordone su una lunga linea sottile e non è in grado di dislocare con tempismo le sue riserve.

Anche qui, tuttavia, Jomini dovrebbe aggiungere che l'effetto sorpresa e la rapidità di esecuzione sono le condizioni necessarie per provare un simile attacco.

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5. Ordine obliquo semplice o rinforzato sull'ala attaccante
Jomini definisce questo ordine di battaglia il migliore per chi si trova in inferiorità numerica perché consente di attaccare con la propria forza principale un singolo punto dello schieramento nemico e al contempo tiene bloccata la linea nemica non ingaggiata, e distante quella propria più debole, che così, in caso di bisogno, può fungere da riserva.

I "battaglioni" di colore celeste rappresentano un eventuale rafforzamento dell'ala attaccante ottenuto indebolendo l'ala arretrata o "rifiutata".

Anche qui Jomini dovrebbe aggiungere qualche spiegazione: la linea nemica rimane infatti bloccata da una minaccia solo potenziale e molto del successo dell'ordine obliquo dipende proprio dalla rapidità della sua reazione: il difensore può riprendere l'iniziativa con un rapido spostamento di forze per linee interne, che troverà la linea attaccante esposta ad un aggiramento proprio sul fianco avanzante.

La manovra difensiva corrispondente all'ordine obliquo è il cosiddetto "rifiuto del paralellismo".

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6. Ordine perpendicolare su un'ala
Jomini inserisce questo ordine solo come astrazione dell'astrazione (come per altro il successivo).

Ovvero indica la funzione ideale dell'attacco sul fianco, quello di battere d'infilata la linea nemica, che sarà contemporaneamente incapace di rispondere.

In quanto tale, rappresenta lo scopo ideale dell'ordine di battaglia obliquo.

Quando si presenta come attacco reale, tuttavia, Jomini precisa che non può mai essere disgiunto da una qualche forma di "disturbo" frontale, o altrimenti al difensore è sufficiente cambiare il fronte (come al punto 2) per stornare la minaccia.

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7. Ordine perpendicolare sulle due ali
Vale quanto detto al punto 6, con la precisazione che questo ordine è ingannevolmente più forte del precedente, in particolare se l'attaccante è inferiore all'avversario, che potrebbe avere buon gioco nel sconfiggere due attacchi entrambi deboli.

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8. Ordine concavo (errato)
Di questo ordine di battaglia Jomini precisa che va letto solo in prospettiva, come punto di arrivo di una manovra tesa ad avvolgere il nemico come Annibale fece a Cannae.

Al contrario, se questo ordine di battaglia viene adottato come schieramento iniziale, si rivela controproducente, perché espone le due estremità della propria linea, le più vicine all'avversario, ad un attacco dalle conseguenze facilmente prevedibili.

L'ordine concavo diviene una specie di ordine parallelo quando il difensore è schierato su una linea convessa.

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8 bis. Ordine concavo (esatto)
Più realistica è, secondo Jomini, questa formulazione dell'ordine concavo: le estremità della linea in parallellismo col nemico offrono resistenza, e quindi un eventuale avvolgimento ha più probabilità di riuscita.

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9. Ordine convesso
Dopo l'attraversamento di un fiume, o di un altro ostacolo naturale, un esercito può spontaneamente trovarsi in questa posizione, così come probabilmente l'avversario sarà schierato parallelamente a lui lungo una linea concava.

Le ali e il centro dell'attaccante, disposti a protezione dell'unica via di ritirata -- seppure, nel caso delle ali, appoggiate allo stesso ostacolo naturale -- rappresentano, secondo Jomini, ovvi "punti decisivi" a disposizione del contrattacco da parte del difensore.

Posto che si tratta di un ordine di battaglia dettato dalle circostanze, avrei trovato giusto che Jomini si fosse soffermato su quale tipo di svolgimento consigliava per l'attaccante.

La posizione del difensore, infatti, è anche più scomoda di quella dell'attaccante, in particolare in quanto è costretto ad accettare il parallellismo, schierandosi su una linea concava.

Le sue linee di comunicazione sono infatti più lunghe di quelle dell'attaccante e questi, aprendosi a ventaglio, aumentarà la distanza che separa tra loro le forze del difensore quando queste arretreranno, e potrà concentrare più facilmente le proprie riserve su un eventuale varco dovesse aprirsi.

Aggiungo che la situazione è identica a quella che si verifica dopo uno sbarco anfibio.

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10. Ordine scaglionato su una o due ali
Di questo ordine di battaglia Jomini sottolinea la semplicità e la compattezza: come l'ordine obliquo, tiene lontana dall'avversario la quota più debole delle proprie forze, dislocandola su un'ala o anche al centro, rendendo contemporaneamente difficile un aggiramento, per lo meno dell'ala arretrata.

Ogni unità protegge su un fianco quella che la precede, ma l'ala avanzante è, al contrario, esposta sull'altro fianco ad un contrattacco nemico e quindi è un potenziale punto di debolezza. È necessario proteggerla, vuoi appoggiandola ad un ostacolo del terreno, vuoi con un contingente speciale incaricato di questo compito.

La caratteristica principale dell'attacco "en echelon" è però la gradualità degli sforzi: posto infatti che una sconfitta parziale del difensore genera un effetto a cascata, tanto effettivo quanto sul morale, le unità che in successione giungeranno contro la linea avversaria beneficeranno di questo costante e progressivo degrado, trovando un compito facilitato.

Veri esperti di questa disposizione furono gli svizzeri, che la realizzavano con solo tre gruppi di unità (Gewalthaufen): Vorhut, Hauptmacht e Nachut.

Avanguardia e retroguardia proteggevano di norma l'attacco condotto dalla colonna principale, la cui velocità e forza travolgente avevano frequentemente successo.

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11. Ordine scaglionato al centro
Il centro avanzato di una linea "en echelon" è più protetto e prudente rispetto all'ordine precedente e si presta in particolare a rompere al centro una linea estesa priva di riserve.

Se ha un punto debole è riscontrabile nella circostanza che la punta avanzante si offre (nel caso dello schema, 1 contro 3) al fuoco concentrico del difensore.

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12. Ordine combinato con un forte attacco al centro e su un'ala contemporaneamente
In conclusione, Jomini presenta la combinazione che meglio di tutte realizza i propri principi: un attacco che unisce i pregi di tutti gli ordini di battaglia precedenti, minimizzandone i difetti.

Essendo un caso teorico non dobbiamo confonderlo con uno schieramento "ideale" o perfetto", ma dobbiamo prenderlo con una certa cautela.

Jomini in questo schema unisce l'attacco contemporaneo sul centro e su un'ala -- la migliore delle situazioni offensive a sua opinione -- con la realistica e saggia economia di forze di un'ala rifutata e tenuta a distanza dal nemico, e una prudente linea di collegamento tra le due puntate attaccanti.

Ben lungi dall'essere realizzabile in qualsiasi circostanza, sintetizza tuttavia, a colpo d'occhio, il concetto di razionalità militare offensiva secondo l'Autore.

I primi ad avvalersi in modo sistematico di questo ordine di battaglia furono gli eserciti ellenistici, da Alessandro il Macedone in poi: divenne nelle guerre tra i suoi successori uno schieramento privo di fantasia e di inventiva, isterilendo il concetto. Uno dei pochi casi di guerra simmetrica che si ricordino.
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I princìpi della guerra secondo i mongoli

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L'ARTE DELLA GUERRA DEI MONGOLI
I princìpi della guerra secondo i mongoli
di Nicola Zotti http://www.warfare.it

Sotto la guida di Genghis Khan e dei suoi successori i mongoli hanno creato in brevissimo tempo l'impero territorialmente contiguo più esteso della storia: dal Danubio al Mar del Giappone, dal Mare Artico alla Cambogia, 24 milioni di chilometri quadrati, ovvero quasi un quarto della superficie emersa del globo.

Il motivo di questo successo fu innanzitutto politico, perché Genghis Khan fu in primo luogo un genio politico, capace di riunire le riottose e anarcoidi tribù mongole sotto il proprio comando.

Altrettanto abilmente Genghis Khan riuscì ad inserire nelle proprie fila molti tra i popoli assoggettati, includendoli nel proprio progetto imperiale e ovviando in questo modo ai limiti demografici delle tribù mongole. Gli insuccessi e la conclusiva divisione e decadenza dell'impero mongolo giunsero per la difficoltà oggettiva di gestire dinamiche politiche centrifughe di così enorme entità, come era accaduto ai successori di Alessandro Magno e a tanti imperi della storia oltre a quello dei mongoli.

Ugualmente centrale per il raggiungimento di questo risultato fu però l'arte militare dei mongoli, ovvero la capacità di Genghis Khan e poi dei suoi comandanti e dei suoi successori di interpretare e di applicare i princìpi dell'arte della guerra.

Li potete leggere qui sotto con una sintetica spiegazione:

Massa: Potere di combattimento e sua concentrazione nel momento e nel luogo decisivi

Obiettivo: Aree generali o punti di valore strategico o tattico (incluse le forze nemiche) la distruzione delle quali è il fine ultimo delle operazioni militari

Offensiva: Uso dell'iniziativa in combattimento stabilendo tempo, luogo, forza , tipo e direttrice di attacco

Sorpresa: Arma psicologica applicata mediante l'azione ragionevolmente inaspettata

Economia di forze: Distribuzione delle forze disponibili nella maniera più vantaggiosa: è corollario della massa

Movimento: Manovra delle forze in esecuzione di un progetto di battaglia

Unità di comando: Certezza del comando e concomitante capacità di delega e di lavoro di squadra.

Sicurezza: Sistema organizzato per prevenire il rischio di essere sorpresi

Semplicità: La cartina di tornasole di ogni piano di battaglia e di ogni operazione militare, che facilita la comprensione e l'esecuzione degli ordini

La dottrina militare dei mongoli -- come potete leggere ancora più avanti -- rispettava ciascuno di questi principi, in particolare armonia con la gestione della logistica, alla quale essi dedicavono speciale attenzione.

La soluzione dei problemi logistici era infatti la priorità di un'armata di cavalleria, capace di ammassare centinaia di migliaia di animali, tra i quali il principale era il solido cavallo mongolo, di nutrirli e contemporaneamente di impiegarli con estremo successo in operazioni militari.

Un'armata mongola era un complesso sistema finalizzato alla guerra. Tutta la realtà tribale era orientata all'unisono a questo scopo, sfruttando appieno in campo militare le virtù del sistema economico-sociale autosufficiente tipico di tutte le società nomadi.

Un tumen di 10.000 guerrieri poteva avere al seguito forse altre 40.000 persone e almeno 100.000 animali (secondo alcuni 600.000), costringendo l'armata a muovere molto lentamente, per la necessità di lasciar pascolare gli animali, ma questo era in pratica irrilevante: nessun nemico poteva sfruttare questa lentezza vuoi per la precisione e il cordinamento complessivo delle operazioni militari dei mongoli e per l'impenetrabile schermo costituito attorno alle armate dagli esploratori, vuoi per la capacità dei guerrieri mongoli di improvvise accelerazioni che bruciavano i tempi e annullavano gli spazi.

Ecco come la dottrina militare dei mongoli faceva propri i principi dell'arte della guerra.

Massa
I mongoli comprendevano l'importanza di concentrare il proprio potere offensivo nel tempo e nello spazio. Dimostravano grande abilità, ad esempio, concentrando il tiro delle frecce contro un unico bersaglio da più lati e individuando l'avversario contro il quale fare massa. E' soprattutto al di fuori del campo di battaglia che però i mongoli comprendevano l'importanza di concentrare le masse in modo coordinato: sistematicamente marciavano separati per combattere uniti, secoli prima di Napoleone. Alla battaglia di Wadi al-Khazandar nel 1299 Mahmud Ghazan resistette un giorno intero contro i mamelucchi dando tempo alla sua armata dispersa per il foraggiamento di tornare in tempo per vincere il secondo giorno della battaglia.

Obiettivo
Analogamente, le armate mongole anticiparono di sei secoli la dottrina operativa. Le loro armate, infatti, seguivano un preciso piano delle operazioni sincronizzando le azioni dei vari scaglioni in modo cronometrico, nonostante fossero lontani anche centinaia di chilometri. In questo complesso processo non perdevano mai di vista l'obiettivo delle operazioni, sempre costituito dalla parte principale dell'esercito nemico, contro la quale, poi, concentravano fulmineamente e imprevedibilmente le forze.

Offensiva
Le armate mongole perseguivano sempre con decisione l'obiettivo di acquisire l'iniziativa tattica e strategica, che raramente concedevano all'avversario. Questi era dunque inevitabilmente costretto a reagire all'iniziativa dei mongoli, e altrettanto inevitabilmente era obbligato a farlo in condizioni di estremo svantaggio.

Sorpresa
I mongoli fondavano sull'effetto sorpresa tutti i loro piani militari. Come sottolinea Giovanni da Pian del Carpine nel suo resoconto "i mongoli combattono più con la frode che con la forza", utilizzando tecniche di attacco quali l'imboscata e la falsa rotta per sorprendere il nemico (come fecero alla battaglia di Liegnitz). Ma l'effetto sorpresa più rilevante era quello strategico-operazionale legato alla rapidità con la quale le armate mongole comparivano e scomparivano.

Economia di forze
I mongoli non concepivano la guerra se non allo scopo della vittoria e non sprecavano forze in operazioni inutili e dispendiose. L'organizzazione militare costruita da Genghis Khan era interamente orientata alla elasticità dell'impiego delle forze, con significativi vantaggi anche nell'unità di comando e in un'efficiente gestione delle comunicazioni. L'ordinamento era decimale, almeno virtualmente: 10 uomini costituivano un arban, 100 un jaghun, 1.000 un mingghan, 10.000 un tumen, Più tumen costituivano una ordu, ovvero un'armata.

Movimento
Nessuna popolazione interiorizzò in modo altrettanto completo e perfetto l'importanza del movimento in guerra, almeno fino alla seconda guerra mondiale e alle Blitzkrieg delle armate corazzate tedesche. Ricognizione, spionaggio, azione diplomatica: ogni mezzo veniva utilizzato per consentire una gestione dinamica delle operazioni militari, che in questo modo risultavano implacabilmente letali per gli avversari.

Unità di comando
Il sistema militare mongolo era meritocratico. Nell'invasione dell'Europa, ad esempio, sebbene i discendenti diretti di Genghis Khan fossero nominalmente in comando delle tre armate in cui erano articolate le operazioni, la direzione effettiva delle operazioni era nelle esperte mani di Subotai, che non aveva natali nobili, ma aveva dimostrato le sue capacità da quando, diciassettenne, aveva iniziato ad accompagnare Genghis Khan: il primo dei quattro "Cani da guerra" del capo mongolo (Jebe, Qubilai e Jelme gli altri tre), feroce e fedele come un mastino mongolo e fiero di esserlo. Questa autorevolezza e il rispetto che i mongoli nutrivano per la sua intelligenza e abilità nel comando erano incomprensibili agli europei, affascinati da altri talenti: la forza fisica, il coraggio, il senso dell'onore, la bellezza. Subotai non avrebbe avuto alcuna "virtù eroica" agli occhi di un cavaliere occidentale: era infatti un vecchio obeso, che doveva spostarsi su un carro ed essere accudito come un infermo, e difficilmente si sarebbe guadagnato il rispetto dei cavalieri europei.

Sicurezza
Praticamente impossibile sorprendere un'armata mongola. I comandanti mongoli ponevano infatti una grande cura nella raccolta di informazioni sul nemico con il ricorso massiccio e sistematico ad esploratori e a spie su tutto l'arco delle direttrici di movimento, impedendo contemporaneamente all'avversario di assumere informazioni sulle proprie intenzioni e sulle proprie forze.

Semplicità
L'addestramento per grandi unità delle armate mongole favoriva l'applicazione di schemi tattici ripetitivi e adattabili ad ogni situazione. Un sistema di comando e di comunicazione degli ordini sul campo di battaglia realizzato con speciali bandiere permetteva poi che questi ordini venissero immediatamente eseguiti ad un cenno del comandante che guidava la battaglia da una posizione elevata. Il professionalismo militare del cavaliere europeo era superiore a quello del cavaliere mongolo medio (che poteva avere dai 15 ai 60 anni), ma un'armata mongola era un insieme tatticamente perfetto.
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Il progresso tattico della fanteria medioevale nel XIV sec.

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CERCHIAMO DI CAPIRE PERCHE'
il progresso tattico della fanteria medioevale nel XIV secolo
di Nicola Zotti http://www.warfare.it

La lotta di borghesi e contadini per la libertà e l’indipendenza non era incominciata l’11 luglio del 1302 a Curtrai, né in quel giorno si era definitivamente conclusa.

I fanti fiamminghi avevano alle spalle un secolo abbondante di esperimenti, alcuni dei quali riusciti. Le fanterie comunali lombarde a Legnano (1176), ad esempio, avevano tenuto testa alla cavalleria imperiale, ma la vittoria era stata raccolta dai cavalieri milanesi, prima messi in fuga e poi inopinatamente ritornati con rinforzi sul campo di battaglia al momento decisivo. A Cortenuova (1237) i lombardi riconfermarono la caparbietà delle loro fanterie plebee, ma negli anni successivi furono ostacolati a procedere nel consolidamento delle proprie innovazioni tattiche dalla potenza dell’avversario, che nel XIII secolo era al suo apice.

Uno sviluppo interrotto che pesò nel prosieguo della storia d’Italia, ma che aveva già maturato frutti pesanti. Jacob Burckhardt, e dopo di lui molti altri storici, individuano nella feroce lotta per l’indipendenza e l’autogoverno di Venezia, Milano, Firenze e Genova la precondizione per il Rinascimento, una stagione che rivificò l’arte italiana della guerra intrecciando e confondendo armi ed eccellenza artistica e umanistica.

Un altro antecedente, molto ravvicinato, era rappresentato dalla vittoria degli scozzesi sugli inglesi di Stirling Bridge del 1297, ma ancora di più dalla loro sconfitta di Falkirk del 1298: qui, infatti, i picchieri scozzesi si dimostrarono impenetrabili per le cavallerie feudali che, per assestare il colpo decisivo, dovettero aspettare che gli arcieri inglesi e gallesi avessero dovutamente ammorbidito l'ostacolo.

Dopo Curtrai i “comunes” seppero ripetersi in tutta Europa in meno di cinquant’anni per un’altra ventina di volte, magari senza ottenere risultati politici definitivi, ma tracciando sui campi di battaglia una linea che la cavalleria scoprì a proprie spese quanto fosse difficile superare. Il predominio armato della nobiltà feudale era definitivamente scomparso e con esso si era concluso per sempre anche il suo predominio sociale.

Dall’alto dei propri cavalli e invulnerabile nelle proprie armature, la classe nobile per secoli aveva imposto con la violenza la propria supremazia. Professionisti nell’uso delle armi, dediti a nient’altro che a fare la guerra o a prepararsi ad affrontarla con il continuo addestramento bellico e con un tempo libero dedicato ad arti altrettanto marziali come la caccia e i tornei, i cavalieri avevano maturato l’assoluta certezza della propria invincibilità, alla quale in negativo corrispondeva nelle classi popolari un sentimento di irredidimibile inferiorità, l’incapacità di considerarsi individualmente e collettivamente capaci di riscatto.

Battaglie come Antiochia (9 febbraio e 28 giugno 1098), Axpoel (21 giugno 1128), Arsoef (7 settembre 1191), la battaglia delle Steppe (13 ottobre 1213), Bouvines (27 luglio 1214) e Woeringen (5 giugno 1288), avevano dimostrato l'importanza di un buon coordinamento tattico sul campo di battagila tra fanterie e cavallerie.

Battaglie come Falkirk, e quelle che seguiranno, dimostrano però che la cavalleria non è più tatticamente autosufficiente, ma ha bisogno di altre fanterie -- arcieri, picchieri, ecc. -- per avere la meglio su un esercito di fanti determinato a resistere: una dipendenza che aveva il suo prezzo in termini sociali e politici oltre che militari.

Le cose iniziarono a cambiare già alla fine del XIII secolo e non solo perché la cavalleria aveva già intrapreso la sua fase discendente: nelle Fiandre, in Scozia, in Svizzera, nel Dithmarschen tedesco, e in altre regioni d’Europa stava emergendo chi era in grado di approfittare di questa decadenza. Una coincidenza di fattori sociali, politici, geografici ed economici aveva rinvigorito l’economia di alcuni territori e contemporaneamente sviluppato nelle popolazioni che vi abitavano sentimenti di indipendenza e di appartenenza nazionale, conferendo loro, quindi, tanto i mezzi per battersi quanto un motivo per farlo.

I “comunes” delle Fiandre all’inizio del XIV secolo, ad esempio, si trovavano proprio in questa condizione, come gli svizzeri dei tre cantoni originari o i contadini del Dithmarschen.

Una prima condizione era politica: la subordinazione feudale in queste regioni si era allentata e le popolazioni avevano intrapreso in vari modi forme seppure limitate di autogoverno. Il senso di appartenenza ad una comunità era quindi cresciuto fino ad assuemere i connotati di un embrionale concetto di nazionalità diffuso in larghi strati di popolazione, nobiltà compresa. I nobili di queste regioni cessarono di fare casta a parte, ma iniziarono a condividere gli stessi ideali delle classi inferiori, fornendo ad esse i servizi della propria istruzione militare, che ai communes e ai rusticos mancavano completamente.

Una seconda condizione era psicologica: per resistere ad una carica di cavalleria si doveva aver sviluppato una bella fiducia in se stessi e nella propria forza. Non è semplice spiegarsi come questo sia avvenuto, ma deve essersi trattato di un processo lento, probabilmente legato non solo al miglioramento generale delle condizioni di vita, ma anche al diffondersi delle notizie legate alle gesta di altri umili pedoni come quelle dei lombardi a Legnano.

Alle precedenti condizioni ne va legata quindi una economica e sociale: un significativo e diffuso benessere che trovava le sue origini nell'autodeterminazione. Più risorse per nutrirsi, per armarsi, per diventare ancora più numerosi e quindi in grado di tenere testa alle ricchezze di re e di duchi.

Un'ultima condizione era più propriamente militare: un'innovazione tattica. I fanti iniziarono ad esplorare i metodi di guerra che potevano portarli a confrontarsi con speranze di successo con le cavallerie. I terreni migliori come campi di battaglia, le armi più adatte, le formazioni più efficaci. Fu un esame anche teorico che poneva le sue basi nelle esercitazioni tradizionali delle milizie feudali, ma che sapeva anche andare oltre, perché riusciva a prescindere dalla presenza delle cavallerie, ovvero dalla loro stessa ragion d'essere.

Contrariamente a quanto pensano molti storici militari del passato -- da Oman a Delbrück a Morris -- all'inizio del XIV secolo la cavalleria ha già cessato di essere la regina del campo di battaglia, perché i fanti si sono autonomizzati da essa mentre al contrario la cavalleria non può più prescindere dai fanti, ma anzi è debitrice ad essi delle proprie vittorie, tanto che sempre più spesso agisce come "fanteria montata" e sceglie di combattere a piedi anziché a cavallo.

La fine del feudalesimo era vicina: I contadini e i borghesi iniziavano ad abituarsi alla propria forza e farne strumento di autogoverno. E tanto iniziarono a sentirsi forti che Giovanni Villani nelle sue Istorie fiorentine racconta che i fiamminghi «per queste vittorie salirono in tanta superbia e ardire che uno Fiamingo a pie con uno Godendac in mano harebbe atteso due cavalieri Franceschi a cavallo»: il mondo si era rovesciato.
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Della presunta rozzezza dell'arte militare medioevale

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UN LUOGO COMUNE DURO A MORIRE
Della presunta rozzezza dell'arte militare medioevale
di Nicola Zotti http://www.warfare.it

Uno dei luoghi comuni più duri a morire è che l'arte millitare medioevale fosse rozza e rudimentale. Un'opinione per altro sostenuta da storici militari molto noti.

Liddell Hart usa termini impietosi come "ottusa stupidità", Overstraeten scrive che "mai la guerra fu così imperfetta" e che gli eserciti medioevali erano "privi di una buona organizzazione e di una rigida disciplina", Muraise sostiene che si perdeva "la capacità di comando in un assalto totale e disordinato". E Gibbon arriva persino a criticare l'esercito bizantino asserendo che "i vizi delle armate bizantine erano intrinseci, le loro vittorie casuali".

Non sono così presuntuoso da pensare di poter abbattere un consolidato luogo comune in poche righe, ma spero almeno di riuscire a instillare qualche dubbio.

Spiego altrove che la disciplina è ineliminabile dalla guerra e però anche storicamente determinata: ovvero, per estensione, che da una società medioevale ci dobbiamo aspettare un'arte militare medioevale: non un'arte "inferiore" o più rudimentale di quella conosciuta in altre epoche, ma solo coerente con le dinamiche sociali.

Questa premessa sarebbe da sola sufficiente dal punto di vista dialettico ad impostare una confutazione del luogo comune e delle opinioni dei citati autori.

In un mondo scarsamente popolato, con una produttività agricola bassa, e con una ridottissima circolazione monetaria è impensabile, solo per fare qualche esempio, che le campagne militari potessero prolungarsi indefinitivamente, che gli eserciti avessero fisionomie consolidate o che ci fossero delle "accademie militari".

Tuttavia vorrei andare oltre e portare qualche indizio su come l'uomo medioevale comprendesse perfettamente le esigenze della guerra e facesse del suo meglio per risolverle con intelligenza e studio.

Nella fattispecie ho illustrato in alcuni scritti precedenti sulla logistica medioevale (i trasporti, la ferratura, il nutrimento e la gestione delle deiezioni dei cavalli) la complessità dei problemi che un esercito di campagna medioevale si trovava ad affrontare, e che pure venivano risolti; segno che le armate del periodo avevano un'organizzazione di tutto rispetto, soprattutto in relazione alle scarse risorse a disposizione.

Tra i beni rari, ad esempio, il più raro di tutti era il sapere e soprattutto i mezzi per diffonderlo. Ciononostante, l'uomo medioevale dimostrò un'inesauribile ansia di conoscenza e un'inesausta sete di sapere.

L'Epitoma de re militari di Renato Vegezio era l'unico manuale militare antico disponibile ed era considerato la massima autorità sull'arte militare: ne ha una copia il duca Eberardo del Friuli nella sua biblioteca addirittura nel IX secolo, ma estratti e sintesi ne circolavano in varie forme.

Il livello del dibattito su questo testo era così alto che, sempre nel IX secolo, l'erudito carolingio Hrabanus Maurus ne selezionò solo alcuni estratti, quelli che riteneva ancora validi ed attuali, per inviarli al re Lotario II, con l'avvertenza che l'adestramento di un giovane militare era di maggiore utilità in guerra di una dissertazione sulla legione romana.

Mano a mano che dalle nebbie del passato emergevano gli scritti degli autori antichi essi divenivano immediatamente oggetto di studi e di analisi approfonditi: il problema era che essi si rifacevano ad una forma di guerra diversa da quella medioevale, incentrata, come nel caso di Vegezio, prevalentemente sulla fanteria, e quindi incoerente rispetto ad un'arte militare cavalleresca, come aveva notato Hrabanus Maurus. A maggior ragione, quindi, dobbiamo apprezzare lo sforzo del'uomo medioevale di trarne un'ispirazione con un'umiltà che Bernardo di Chartres bene sintetizzava nella constatazione di essere "nani seduti sulle spalle di giganti".

Lo Strategikon di Maurizio sarebbe risultato molto più utile, ma non era diffuso in Occidente: JFC Fuller lo considera il miglior manuale militare fino al XIX secolo (alla faccia di Gibbon).

Ma Fuller non conosce la regola e gli statuti dell'ordine dei Templari: neppure Contamine (La guerra nel Medioevo), per il resto molto informato, ne parla, mentre ne tratta diffusamente Verbruggen (The art of War in Western Europe during the Middle Ages).

Questo testo (edito in Italia per ECIG a cura di Jose Vincenzo Molle) ci è pervenuto in tre copie stilate tra XIII e XIV secolo e nella parte degli statuti si configura come un vero e proprio manuale militare dedicato espressamente alla cavalleria, con minuziose indicazioni per ogni esigenza militare.

Ne riporto un estratto relativo allo squadrone e alla carica: solo un esempio dal quale potrete comprendere il grado di sofisticazione raggiunto dall'arte militare medioevale.

Vorrei notaste, tra le altre cose, l'enfasi dedicata a non abbandonare i ranghi, che evidentemente è funzionale al principio dell'economia delle forze, all'uso delle riserve, all'unità di comando, ad un agire ordinato e disciplinato nel combattimento: tutti principi dell'arte militare che, come abbiamo visto, prestigiosi storici militari negano con decisione: ma solo per ignoranza.

La natura essenzialmente pratica del contenuto degli statuti, e la sua coerenza con la struttura mentale dell'ordine monastico militare, suggeriscono alcune importanti considerazioni generali sull'arte della guerra medioevale: in particolare che si tratta di un sapere "raccolto" e non innovativo in sé, ovvero che i templari semplicemente accostarono le proprie regole militari, sistematizzandole, accanto a quelle monastiche.

Possiamo quindi ritenere che le minuziose regole di disciplina, di ordinamento e di comportamento descritte negli statuti siano di fatto in vigore in qualsiasi esercito medioevale, tanto più che la resa bellica della cavalleria templare non è significativamente diversa da quella della cavalleria laica: e se il loro valore era uguale, uguali dovevano essere le loro "regole".

Dare un peso eccessivo all'importanza del sapere scritto sarebbe un pregiudizio culturale moderno che impedirebbe di fatto di valutare correttamente altre organizzazioni militari prive di questa caratteristica.

Ad esempio non potremmo spiegarci i risultati ottenuti nel corso di secoli dalla dinastia carolingia senza conferire il giusto peso al ricorso ad una consolidata struttura militare e ad una organizzazione, non solo eccellente, ma in grado di perpetuarsi e di consolidarsi generazione dopo generazione.

All'estremo opposto, anche il pericolo magiaro -- che proprio i successori dei carolingi sventarono, Enrico I l'Uccellatore e suo figlio Ottone I il Grande di Sassonia -- nonostante le sue caratteristiche estemporanee di ricorrente stagionalità e di attività circoscritta ad un'élite guerriera, non si può spiegare se non lo immaginiamo ben coordinato e preparato: da un anno con l'altro i guerrieri magiari organizzavano le proprie scorrerie, che non avevano alcuna pretesa di guadagno territoriale, sceglievano i bersagli e si preparavano con la meticolosità di un'esperta banda di rapinatori che studia abitudini della vittima, le sue difese, la collocazione dei suoi tesori: e visto il terrore che incutevano nei contemporanei non erano certo una banda come "i soliti ignoti".

Gli storici moderni ampliando i propri studi all'analisi delle fonti in volgare e ai rinvenimenti dell'archeologia militare col tempo probabilmente faranno giustizia dei luoghi comuni e degli errori radicati: lo spero vivamente: approvo e sostengo qualsiasi iniziativa faccia scomparire quello stupido senso di superiorità che l'uomo moderno prova verso quelli che l'hanno preceduto.
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