I mongoli in guerra
Inviato: 2 ottobre 2015, 22:55
Tratto da "Le grandi battaglie del Medioevo" di Andrea Fedriani.
Pochi popoli, nella Storia, hanno manifestato un’efficacia bellica pari a quella dei mongoli inquadrati da Gengis Khan, proficuamente utilizzati, peraltro, anche dai suoi immediati successori su tutti i fronti possibili. Tutto, dalla struttura dell’esercito alle strategie e alle tattiche, fino all’armamento, era basato sulla semplicità e sulla necessità, per permettere ai guerrieri di sprigionare tutta la loro forza combattiva e seguire senza distrazioni gli ordini dei capi.
L’ordinamento era decimale, come quello degli eserciti persiani. La divisione era definita tumen, e ammontava a 10.000 uomini, a loro volta suddivisi in dieci mingham, reggimenti da 1000 effettivi ciascuno; la suddivisione proseguiva con gli jagun, gli squadroni da 100 uomini, per finire con gli arban, compagnie da 10. Tra tutte le unità spiccava il keshik, la guardia imperiale, ampia quanto un tumen, e i suoi erano i soli guerrieri obbligati a servire sotto le armi anche in tempo di pace; ciascuno di essi aveva un’autorità superiore a quella di un qualsiasi comandante di un’unità ordinaria. Il sistema, come si può osservare, era concepito in modo tale che ciascun comandante non dovesse dare ordini a più di dieci subalterni, assicurando così una rapida trasmissione degli ordini stessi e la loro pronta attuazione, in pieno accordo con l’impareggiabile dinamismo delle armate mongole.
Molti erano gli elementi che garantivano velocità e concretezza agli eserciti dei khan, a cominciare dalla netta prevalenza di effettivi di cavalleria rispetto alla fanteria. Il resto, aveva a che fare soprattutto con la straordinaria capacità di resistenza dei guerrieri, in grado di stare giorni e giorni senza mangiare, di trovare commestibile qualunque animale e perfino l’uomo – si disse che in una circostanza drammatica essi si obbligarono a uccidere uno di loro ogni dieci pur di nutrirsi – e di bere, oltre al latte di giumenta fermentato, detto kumis, se necessario il sangue dei loro cavalli, che si procuravano aprendogli una vena sul collo.
Altrettanto determinante era la ferrea disciplina, in base alla quale molte mancanze erano punite con la morte; e funzionava egregiamente, tanto da indurre Giovanni dal Pian del Carmine ad affermare che i mongoli erano «più obbedienti ai loro padroni di qualunque altro uomo sulla terra, fosse esso religioso o secolare».
In fase di avanzata, le comunicazioni venivano assicurate da rapidi corrieri, da esploratori i cui movimenti precedevano l’armata principale anche di cento chilometri e oltre, e da segnali di fumo. I segnali nell’imminenza di una battaglia, invece, venivano dati dai movimento dello stendardo, lo yuk, e dal suono di un grande tamburo detto naccara. In marcia, le operazioni di allestimento e smontaggio del campo erano snellite dall’estrema semplicità del ricovero, lo yurt, o più correttamente ger, una tenda rotonda pieghevole con intelaiatura in vimini e rivestimento in feltro, capace di contenere dieci uomini. Seguivano le colonne dei guerrieri in cammino carri enormi a quattro ruote, dotati di una copertura in feltro, trainati da 33 buoi e guidati da donne, e del convoglio facevano parte anche i cammelli, proficuamente utilizzati come bestie da soma.
Caratteristiche peculiari della conduzione della guerra, cui raramente i mongoli vennero meno, erano l’accurata preparazione strategica di una campagna, la marcia in più tronconi – solitamente tre – che si ricongiungevano solo in vista dell’obiettivo e, a livello tattico, la ritirata simulata, che attirava l’avversario nella morsa di una manovra detta tulughma; grazie ad essa le ali di cavalleria leggera, partendo dalle retrovie, avvolgevano i fianchi dell’avversario mentre questi era impegnato contro il centro. In battaglia, i mongoli schieravano solitamente l’armata con due ali, un corpo centrale e una riserva. Ciascuna sezione era disposta su cinque file, di cui le prime due di cavalleria pesante o addirittura corazzata, le altre di cavalleria leggera; queste ultime potevano avanzare sia sui fianchi, sia passando attraverso i varchi lasciati appositamente tra uno jagun e un altro.
Un mongolo imparava a cavalcare all’età di tre anni – quando lo legavano sulla sella – e a tirare con l’arco solo due anni dopo. In campagna, la sua estrema mobilità era assicurata dalla presenza di ben quattro cavalli di ricambio, su ciascuno dei quali era capace di stare in sella anche per ventiquattr’ore consecutive. La sella era protetta dal grasso di pecora e le staffe erano solitamente appese corte.
L’arco composito mongolo, una delle armi più micidiali della Storia, era capace di una gittata fino a 300 metri, grazie anche al fatto di essere teso contro la sua curva naturale. Esso era fatto di corno di yak, nervo e bambù, incollati e tenuti insieme finché non si fondevano in un unico pezzo. A dir la verità i mongoli, di archi, ne avevano due: uno corto e uno lungo, accompagnati da più faretre contenenti ciascuna una trentina di frecce, sia a punta larga per il tiro corto, sia a punta affusolata per i lanci più lontani; entrambi i tipi presentavano piume d’aquila all’estremità. La capacità di penetrazione di un dardo mongolo era assicurata dal trattamento del metallo, che veniva indurito rendendolo dapprima incandescente e poi raffreddandolo nell’acqua salata.
Le altre armi offensive erano una lunga lancia, ornata con coda di yak e dotata di un uncino in corrispondenza della punta per disarcionare l’avversario, una scimitarra, una mazza e un lazo; tra le armi difensive, lo scudo compariva solitamente quando un guerriero combatteva a piedi, mentre l’elmo, conico e a più sezioni, era caratterizzato talvolta da un crine, quasi sempre da un ampio paranuca a ventaglio.
L’alternativa all’elmo era il tipico copricapo conico di pelle o pelliccia di volpe, lince o lupo, con orli frontali e laterali che si alzavano o si abbassavano. a seconda delle necessità climatiche. Caratteristica somatica del guerriero mongolo era, oltre ai lunghi e sottili baffi, la tosatura quadrata sulla sommità della testa, che lasciava un ciuffo pronunciato sulla fronte, una cintura intermittente di capelli sulle tempie e, sulla nuca, capelli lunghi avvolti in due trecce vicino alle orecchie.
L’armatura, indossata forse solo dai cavalieri più importanti o da una ridotta percentuale di guerrieri, poteva essere di cuoio bollito ricoperto di una pellicola impermeabile a base di pece, o lamellare in ferro, con piastre rettangolari allacciate le une alle altre mediante laccetti di cuoio; secondo il modello mutuato dai cinesi, la corazza vantava protezioni molto consistenti per le spalle. Una giacca a maniche corte sopra una maglia di seta a maniche lunghe, ampi pantaloni e stivali privi di tacco completavano l’equipaggiamento. In alcuni casi anche il cavallo era corazzato, con un’armatura lamellare di cuoio che ricopriva completamente l’animale fino alle ginocchia e oltre, grazie alla giunzione di cinque pannelli, oltre a quello per il muso.
Pochi popoli, nella Storia, hanno manifestato un’efficacia bellica pari a quella dei mongoli inquadrati da Gengis Khan, proficuamente utilizzati, peraltro, anche dai suoi immediati successori su tutti i fronti possibili. Tutto, dalla struttura dell’esercito alle strategie e alle tattiche, fino all’armamento, era basato sulla semplicità e sulla necessità, per permettere ai guerrieri di sprigionare tutta la loro forza combattiva e seguire senza distrazioni gli ordini dei capi.
L’ordinamento era decimale, come quello degli eserciti persiani. La divisione era definita tumen, e ammontava a 10.000 uomini, a loro volta suddivisi in dieci mingham, reggimenti da 1000 effettivi ciascuno; la suddivisione proseguiva con gli jagun, gli squadroni da 100 uomini, per finire con gli arban, compagnie da 10. Tra tutte le unità spiccava il keshik, la guardia imperiale, ampia quanto un tumen, e i suoi erano i soli guerrieri obbligati a servire sotto le armi anche in tempo di pace; ciascuno di essi aveva un’autorità superiore a quella di un qualsiasi comandante di un’unità ordinaria. Il sistema, come si può osservare, era concepito in modo tale che ciascun comandante non dovesse dare ordini a più di dieci subalterni, assicurando così una rapida trasmissione degli ordini stessi e la loro pronta attuazione, in pieno accordo con l’impareggiabile dinamismo delle armate mongole.
Molti erano gli elementi che garantivano velocità e concretezza agli eserciti dei khan, a cominciare dalla netta prevalenza di effettivi di cavalleria rispetto alla fanteria. Il resto, aveva a che fare soprattutto con la straordinaria capacità di resistenza dei guerrieri, in grado di stare giorni e giorni senza mangiare, di trovare commestibile qualunque animale e perfino l’uomo – si disse che in una circostanza drammatica essi si obbligarono a uccidere uno di loro ogni dieci pur di nutrirsi – e di bere, oltre al latte di giumenta fermentato, detto kumis, se necessario il sangue dei loro cavalli, che si procuravano aprendogli una vena sul collo.
Altrettanto determinante era la ferrea disciplina, in base alla quale molte mancanze erano punite con la morte; e funzionava egregiamente, tanto da indurre Giovanni dal Pian del Carmine ad affermare che i mongoli erano «più obbedienti ai loro padroni di qualunque altro uomo sulla terra, fosse esso religioso o secolare».
In fase di avanzata, le comunicazioni venivano assicurate da rapidi corrieri, da esploratori i cui movimenti precedevano l’armata principale anche di cento chilometri e oltre, e da segnali di fumo. I segnali nell’imminenza di una battaglia, invece, venivano dati dai movimento dello stendardo, lo yuk, e dal suono di un grande tamburo detto naccara. In marcia, le operazioni di allestimento e smontaggio del campo erano snellite dall’estrema semplicità del ricovero, lo yurt, o più correttamente ger, una tenda rotonda pieghevole con intelaiatura in vimini e rivestimento in feltro, capace di contenere dieci uomini. Seguivano le colonne dei guerrieri in cammino carri enormi a quattro ruote, dotati di una copertura in feltro, trainati da 33 buoi e guidati da donne, e del convoglio facevano parte anche i cammelli, proficuamente utilizzati come bestie da soma.
Caratteristiche peculiari della conduzione della guerra, cui raramente i mongoli vennero meno, erano l’accurata preparazione strategica di una campagna, la marcia in più tronconi – solitamente tre – che si ricongiungevano solo in vista dell’obiettivo e, a livello tattico, la ritirata simulata, che attirava l’avversario nella morsa di una manovra detta tulughma; grazie ad essa le ali di cavalleria leggera, partendo dalle retrovie, avvolgevano i fianchi dell’avversario mentre questi era impegnato contro il centro. In battaglia, i mongoli schieravano solitamente l’armata con due ali, un corpo centrale e una riserva. Ciascuna sezione era disposta su cinque file, di cui le prime due di cavalleria pesante o addirittura corazzata, le altre di cavalleria leggera; queste ultime potevano avanzare sia sui fianchi, sia passando attraverso i varchi lasciati appositamente tra uno jagun e un altro.
Un mongolo imparava a cavalcare all’età di tre anni – quando lo legavano sulla sella – e a tirare con l’arco solo due anni dopo. In campagna, la sua estrema mobilità era assicurata dalla presenza di ben quattro cavalli di ricambio, su ciascuno dei quali era capace di stare in sella anche per ventiquattr’ore consecutive. La sella era protetta dal grasso di pecora e le staffe erano solitamente appese corte.
L’arco composito mongolo, una delle armi più micidiali della Storia, era capace di una gittata fino a 300 metri, grazie anche al fatto di essere teso contro la sua curva naturale. Esso era fatto di corno di yak, nervo e bambù, incollati e tenuti insieme finché non si fondevano in un unico pezzo. A dir la verità i mongoli, di archi, ne avevano due: uno corto e uno lungo, accompagnati da più faretre contenenti ciascuna una trentina di frecce, sia a punta larga per il tiro corto, sia a punta affusolata per i lanci più lontani; entrambi i tipi presentavano piume d’aquila all’estremità. La capacità di penetrazione di un dardo mongolo era assicurata dal trattamento del metallo, che veniva indurito rendendolo dapprima incandescente e poi raffreddandolo nell’acqua salata.
Le altre armi offensive erano una lunga lancia, ornata con coda di yak e dotata di un uncino in corrispondenza della punta per disarcionare l’avversario, una scimitarra, una mazza e un lazo; tra le armi difensive, lo scudo compariva solitamente quando un guerriero combatteva a piedi, mentre l’elmo, conico e a più sezioni, era caratterizzato talvolta da un crine, quasi sempre da un ampio paranuca a ventaglio.
L’alternativa all’elmo era il tipico copricapo conico di pelle o pelliccia di volpe, lince o lupo, con orli frontali e laterali che si alzavano o si abbassavano. a seconda delle necessità climatiche. Caratteristica somatica del guerriero mongolo era, oltre ai lunghi e sottili baffi, la tosatura quadrata sulla sommità della testa, che lasciava un ciuffo pronunciato sulla fronte, una cintura intermittente di capelli sulle tempie e, sulla nuca, capelli lunghi avvolti in due trecce vicino alle orecchie.
L’armatura, indossata forse solo dai cavalieri più importanti o da una ridotta percentuale di guerrieri, poteva essere di cuoio bollito ricoperto di una pellicola impermeabile a base di pece, o lamellare in ferro, con piastre rettangolari allacciate le une alle altre mediante laccetti di cuoio; secondo il modello mutuato dai cinesi, la corazza vantava protezioni molto consistenti per le spalle. Una giacca a maniche corte sopra una maglia di seta a maniche lunghe, ampi pantaloni e stivali privi di tacco completavano l’equipaggiamento. In alcuni casi anche il cavallo era corazzato, con un’armatura lamellare di cuoio che ricopriva completamente l’animale fino alle ginocchia e oltre, grazie alla giunzione di cinque pannelli, oltre a quello per il muso.