Baghdad 1258

Campagne militari, guerre e battaglie
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Veldriss
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Baghdad 1258

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Tratto da "Le grandi battaglie del Medioevo" di Andrea Fedriani.

Nel grande quriltai del 1235 era entrato nel mirino delle ambizioni mongole il califfato abbaside di Baghdad, che era rimasto indenne dalle campagne persiane di Gengis Khan. L’impero comprendeva ormai molte comunità islamiche, e non era più pensabile che i mongoli si lasciassero sfuggire il controllo della maggiore autorità spirituale del mondo musulmano, per quanto ridotto fosse ormai il suo potere e svilito da anni di soggezione ai turchi il suo carisma. Ma poi le operazioni si erano limitate ad Armenia e Azerbaigian, con alcune puntate in Iraq settentrionale e in Iran occidentale. Durante il regno di Guyuk, qualunque mira nei confronti della Mesopotamia fu affidata ai contatti diplomatici con Luigi IX di Francia, dal quale ci si attendeva una crociata che sottraesse al califfato il supporto dei mamelucchi d’Egitto; in generale, quelli erano i tempi in cui si venne a creare un asse tra mongoli, dediti allo sciamanismo, e cristiani d’Armenia, di Palestina e d’Europa, tanto che, come afferma Runciman, Karakorum, la capitale dell’impero mongolo, divenne il centro diplomatico del mondo.
Tuttavia, non ne scaturì alcuna azione concreta, poiché Gengis Khan aveva educato i suoi eredi a sentirsi signori del mondo, implicando così la necessità che chiunque trattasse con loro dovesse rendergli omaggio. Inoltre, i discendenti dei crociati erano fin troppo consapevoli che ogni eventuale riconquista di Gerusalemme con l’intervento dei mongoli avrebbe avuto come prezzo la sudditanza ai mongoli stessi, ben più pericolosi dei musulmani.
Tutto sommato, la conquista tartara della Corasmia, ovvero dell’antica Persia, aveva liberato il califfato dalle pesanti ingerenze dello shah, e gli aveva restituito il ruolo di arbitro del mondo musulmano, allora lacerato dai contrasti tra Siria ed Egitto. Tuttavia dal 1242 prese a regnare un incapace, al-Mustasim, gaudente sprovveduto che si affidava ai favoriti cui facevano capo correnti e fazioni, spesso in conflitto l’una con l’altra.
La morte del gran khan Guyuk nel 1251 portò sul trono, grazie all’appoggio di Batu, quel Mongu figlio di Tolui che aveva partecipato alla campagna europea, e sotto il quale il processo espansivo riprese vigore. Suo fratello Qubilai fece grandi progressi in Cina, dove languiva il conflitto con i Sung, ai quali entro il 1258 rimase solo la parte sud-orientale del paese. Sul fronte opposto, in Medio Oriente, il governo della Persia e il comando delle operazioni belliche furono affidati all’altro fratello del gran khan, Hulagu, che fin dal 1255 poté valersi di armate per 120.000 uomini tra mongoli e turchi, con il consueto contributo degli altri ulus in ragione di un quinto delle forze; Batu inviò tre dei suoi nipoti. Tra i vari contingenti, ve n’era anche uno costituito da un migliaio di arcieri cinesi, specializzati nel lancio di dardi infuocati. Tutti gli effettivi si concentrarono a Samarcanda nel settembre del 1255, per una campagna che presentava varie incognite, come la dubbia affidabilità dei molti contingenti appartenenti a nazioni musulmane, e la possibilità che Siria ed Egitto si decidessero a correre in soccorso del califfato.
L’offensiva, secondo le abitudini dei mongoli, fu preparata con estrema cura, sgombrando i territori di pascolo fino all’Amu Darya dalle greggi che vi stazionavano, per garantire alle truppe la piena disponibilità di approvvigionamento; si prestò grande attenzione alle vie di comunicazione, con un’accurata manutenzione delle strade e la costruzione e ricostruzione dei ponti sui fiumi; all’esercito fu aggregato un centinaio di ingegneri cinesi, i quali fornivano ai mongoli quelle cognizioni poliorcetiche che avevano fatto delle armate di Gengis Khan i primi nomadi della Storia in grado di espugnare città; parimenti, il trasporto delle macchine ossidionali fu assicurato dalla requisizione di tutti i mezzi di trasporto disponibili.
Sebbene lo scopo del conflitto fosse la conquista del califfato abbaside e semmai, sull’abbrivio, l’occupazione dei possedimenti mamelucchi in Siria, l’obiettivo iniziale dell’offensiva fu, in termini geografici, la potentissima setta degli ismaeliti, gli eretici musulmani che, dalla loro roccaforte di Alamut nel Kuhistan, dominavano una vasta area nell’Iran settentrionale comprendente, si diceva, 360 fortezze. Noti in Occidente come “Assassini”, per il loro proverbiale uso dell’hashish, costoro erano un elemento destabilizzante dell’intero scacchiere mediorientale, con il loro fanatismo esasperato e la loro capillare rete organizzativa, che gli consentiva di raggiungere e uccidere qualunque avversario politico. Nessuno dei potentati presenti nell’area, che si trattasse di regni cristiani e crociati, califfato abbaside, sultanato selgiuchida o mamelucco, era riuscito a ridurne la potenza, e i mongoli potevano se non altro star certi che nessuno avrebbe mosso un dito per salvarli. Né potevano pensare di impossessarsi dell’Iraq e della Siria tenendosi alle spalle un nemico tanto pericoloso tra le cui vittime, peraltro, c’era stato in passato il secondo figlio di Gengis Khan, Ciagatai.
Le operazioni preliminari contro gli Assassini erano state affidate già da qualche tempo a Ketboga, un cristiano nestoriano – come la moglie di Hulagu – di etnia naiman; al comando di 12.000 uomini, questi aveva aperto la strada al corpo principale e tenuto sotto pressione gli avversari, rendendo più saldo il tenue controllo che i mongoli esercitavano sulle parti più occidentali dell’altopiano iranico. Quando nello scacchiere arrivò anche Hulagu la capitale Alamut fu stretta d’assedio, e l’imam della setta, Rukn ad-Din Khurshah, costretto alla resa.
Hulagu inviò l’illustre prigioniero dal fratello a Karakorum, mentre si dedicava alla conquista delle altre roccheforti ismaelite, in gran parte arroccate sulle montagne. Entro un biennio la setta era praticamente scomparsa dallo scacchiere iranico: i suoi adepti sopravvissuti alla caduta in successione dei capisaldi, furono radunati con il pretesto di un censimento e massacrati, tranne una parte, che venne inviata alla figlia di Ciagatai perché si vendicasse personalmente dell’assassinio del padre.

I musulmani ortodossi gioirono alla caduta degli eretici, ma essa faceva da preludio all’attacco principale dell’offensiva, proprio ai danni del centro spirituale del mondo islamico. Nel frattempo, infatti, la tensione con il califfo era montata fino a raggiungere il punto di rottura. al-Mustasim ondeggiava tra i suggerimenti del suo gran visir, Muwaiyad ad-Din, che era per un atteggiamento conciliante, e quelli del suo segretario, Aibeg, il quale era invece per la linea dura.
In un primo momento, il califfo era stato indotto dal suo gran visir a licenziare parte del suo sterminato esercito per risparmiar denaro e versarlo ai mongoli come tributo spontaneo per comprare la pace. Ma né Hulagu né il khan supremo erano interessati a ottenere qualcosa di diverso dal controllo del califfato, come d’altronde avevano fatto in varie epoche i turchi, i bujidi sciiti nel X secolo e i selgiuchidi sunniti dall’XI; il khan mongolo pretese quindi che il califfo si recasse da lui a rendergli omaggio, dopo aver abbattuto le mura di Baghdad e fatto riempire il fossato.
Alla fine, nell’entourage del califfo prevalsero i falchi, che indussero il sovrano a rispondere in modo sprezzante alle pretese di Hulagu, cui mandò a dire che l’intero Islam era pronto a mobilitarsi in suo favore. Non per questo, però, al-Mustasim si preoccupò di investire le sue ingenti ricchezze nella difesa, richiamando alle armi gli uomini congedati e rinforzando le mura della capitale. Anzi, neanche si preoccupò di guadagnarsi il sostegno della minoranza sciita – il cui più autorevole rappresentante era proprio il suo gran visir –, che offese gettando nel Tigri l’opera di un noto poeta sciita.
Il comandante mongolo, invece, ricevette nuovi rinforzi da Batu, che inviò uno dei migliori generali dell’impero, Baichu, e dai sudditi armeni, che mandarono un contingente di cavalleria; quindi, nel novembre del 1257, l’esercito d’invasione lasciò la sua base di Hamadan. Il khan aveva pianificato di investire Baghdad con tre colonne distinte: il centro, che costituiva anche l’avanguardia, era condotto dallo stesso Hulagu, il quale si fermò a Kermanshah il 6 dicembre. C’era poi un’ala sinistra, condotta da Ketboga, che si approssimava da oriente, e una destra, guidata da Baichu, che aveva il compito di attraversare il Tigri a Mosul e scendere lungo la riva occidentale. Nulla si oppose al possente esercito mongolo, anche perché gli sciiti, con il dente avvelenato nei confronti del califfo, non esitarono ad aprirgli la strada; Hulagu, dal canto suo, fu sufficientemente abile da assecondarne le richieste, presidiando i loro santuari di al-Najaf e Kerbala con i suoi cavalieri.
L’armata musulmana, condotta da Aibeg, si era attestata a oriente del Tigri, ma fu costretta a ripiegare prima di essere investita dai tre tronconi dell’esercito mongolo. Aibeg pensò di dedicarsi al solo Baichu, tornando a sinistra del fiume per affrontarlo all’altezza di Anbar, a meno di cinquanta chilometri da Baghdad. Parve che i musulmani avessero la meglio quando si venne alle armi, il 16 gennaio 1258, ma il generale mongolo non fece altro che applicare la classica tattica del suo popolo e, in generale, dei nomadi delle steppe asiatiche; ripiegò infatti a ridosso dell’Eufrate, dove il terreno si faceva paludoso mentre, contestualmente, dava ordine di rompere le dighe che arginavano le acque di un lago.
Il giorno seguente i mongoli contrattaccarono con forza, spingendo i musulmani a ripiegare proprio nella zona inondata, dalla quale uscirono vivi il solo comandante e la sua guardia del corpo, che tornarono a Baghdad, mentre il resto dei pochi sopravvissuti si sparse in altre direzioni. «120.000 uomini furono uccisi, a parte quelli che affogarono o furono bloccati dal fango», scrive Rashiduddin Fazlullah.
Il 22 gennaio i mongoli si presentarono di fronte alle mura della città, che fu cinta da un vallo costituito da fossato e muro. Le comunicazioni tra le varie sezioni degli assedianti furono assicurate dalla costruzione di ponti di barche sul Tigri, presidiati da armati, sia a nord che a sud della città; un intero tumen fu destinato a pattugliare, con l’ausilio di macchine belliche, il corso d’acqua, per sorprendere chiunque tentasse di fuggire in barca: «L’armata mongola brulicava come formiche e locuste da tutte le direzioni, formando un cerchio intorno ai bastioni di Baghdad ed erigendo un muro», scrive Rashiduddin Fazlullah. Baghdad si trovava ai due lati del Tigri, divisa in due dal fiume; la metà orientale era quella politicamente più rilevante, per la presenza degli edifici del califfo, originariamente collocati sulla riva opposta e trasferiti a est del fiume dopo il lungo iato dei secoli a cavallo del Mille, tra l’836 e il 1098, durante i quali la capitale del califfato era stata spostata a Samarra.

Fondata nel 762 dal califfo al-Mansur, secondo dinasta abbaside, come nuova capitale al posto di Damasco, Baghdad era sorta su indicazione di un astrologo nel punto in cui Tigri ed Eufrate si avvicinano maggiormente, a una distanza di soli quaranta chilometri. L’avevano costruita perfettamente circolare, «perché una città circolare ha dei vantaggi rispetto a una città quadrata, poiché se il monarca è al centro della città, alcune parti gli sono più prossime di altre, mentre, a prescindere dalle divisioni, le sezioni di una città circolare sono equidistanti da lui quando si trova al centro», scriveva nel X secolo al-Khatib al-Baghdani. La città aveva quattro entrate principali, le porte di Kufah, Damasco, Khurasan e Basrah, ciascuna delle quali sormontata da una cupola; tra l’una e l’altra, lungo la doppia cinta muraria col muro interno più alto dell’esterno, si stagliavano diciotto torri. Una nuova cinta muraria aveva poi racchiuso l’area urbana orientale nel 1203.
Nel XIII secolo Baghdad non era più la città splendente che era stata ai tempi di Harun el-Rashid, il centro intellettuale e culturale del mondo, nello stesso periodo in cui l’Europa coeva annaspava per tentare di uscire, con i Carolingi, dalla barbarie dei secoli bui. Eppure, conservava intatte le sue biblioteche, i parchi e i giardini, le terme, gli imponenti palazzi, sui quali si stagliava quello del califfo, e costituiva ancora un centro di arti e scienze di primissimo piano. È il caso di riportare una descrizione di un autore, Yakut, che la visitò intorno al volgere del millennio:
 
La città di Baghdad formava due vasti semicerchi sulla destra e sulla sinistra del Tigri, dodici miglia di diametro. I numerosi sobborghi, ricoperti di parchi, giardini, ville e belle passeggiate, e abbondantemente forniti di ricchi bazar, e moschee e terme finemente costruite, si estendevano per una considerevole distanza lungo entrambi i lati del fiume. Nei giorni della sua prosperità la popolazione di Baghdad e i suoi sobborghi ammontavano a oltre due milioni! […] Baghdad era davvero la città dei palazzi, non fatti di stucco e malta, ma di marmo. I palazzi e le abitazioni erano abbondantemente dorati e decorati, e drappeggiati con begli arazzi e tendaggi di broccato o seta. Le stanze erano arredate con gusto di lussuosi divani, tavoli costosi, vasi cinesi unici e ornamenti d’oro e d’argento. Entrambi i lati del fiume erano percorsi da palazzi, chioschi, giardini e parchi dei personaggi importanti e dei nobili, gradini di marmo conducevano al bordo dell’acqua, e lo scenario del fiume era animato da migliaia di imbarcazioni imbandierate, che danzavano come raggi del sole sull’acqua, e trasportando i cittadini di Baghdad in cerca di piacere da una parte della città all’altra. Lungo gli estesi moli intere flotte all’ancora, vascelli di mare e di fiume di ogni tipo, dalla giunca cinese all’antica zattera assira che poggiava su pelli gonfiate.
 
Tornando alla cronaca, il 29 iniziarono i bombardamenti. Sebbene la città fosse sottoposta dagli assedianti al tiro da ogni direzione, Hulagu aveva concentrato soprattutto a est le sue macchine ossidionali, bersagliando con costanza il settore orientale della città, e incrinando ben presto la baldanza dell’irresoluto califfo, oltre che la cinta più esterna. al-Mustasim tentò allora di prendere accordi con il khan, inviando al suo campo il proprio gran visir, che aveva sempre rappresentato l’ala moderata, e il patriarca nestoriano, «con pochi doni, ritenendo che, se ne avesse mandati troppi, ciò avrebbe indicato quando fosse spaventato, e il nemico ne sarebbe stato incoraggiato»; ma il comandante mongolo neanche li ricevette, continuando imperterrito a martellare la cinta muraria. L’unico atto di magnanimità di cui Hulagu fece mostra fu una serie di proclami che garantivano salva la vita, tra gli altri, ai preti nestoriani e agli studiosi. I suoi arcieri li fecero pervenire in città avvolgendoli intorno ai dardi che scagliarono da sei punti diversi intorno alle mura.
I bombardamenti si intensificarono, soprattutto nei confronti della sezione intorno alla Torre Persiana. Di pietre, però, nei dintorni della città non ve n’erano, e i mongoli furono costretti ad andarle a prendere più lontano, oppure a sezionare palme di dattero per ricavarne proietti. Già il 1° febbraio, comunque, la Torre Persiana crollava, permettendo ai mongoli di attestarsi, due giorni dopo, su una sezione della prima cinta di mura. Trovarono però una strenua resistenza quando cercarono di estendere l’area sotto il loro controllo all’intera cinta esterna, e ci vollero una bella strigliata da parte di Hulagu e l’intera giornata perché ciò accadesse.
Pare che proprio in quei momenti il segretario Aibeg abbia cercato di scappare, insieme ad altri seguaci, su una piccola flottiglia, che però fu sorpresa da un fuoco di sbarramento di dardi, pietre e contenitori di nafta, che lo obbligò a tornare in città lasciandosi dietro tre barche affondate. Da parte sua, il califfo non cessava di richiamare l’attenzione di Hulagu sulla possibilità di concedere una resa condizionata, e a tale scopo, nei giorni seguenti, mandò al campo del khan i suoi due figli maggiori, ma le ambasciate non ebbero esito diverso dalle precedenti.
Il 10 i mongoli riuscirono ad aprire una breccia anche nella seconda cinta difensiva. Non appena si rese conto che tutto era perduto e che i primi nemici iniziavano a entrare in città, al-Mustasir si affrettò a raggiungere il campo di Hulagu, seguito dai più alti dignitari e dai vertici militari, per offrire la resa. Il califfo regalava al vincitore qualcosa che questi già possedeva, e il comandante mongolo non ci pensò due volte a far giustiziare tutti, tranne lo stesso sovrano, dal quale si aspettava che gli indicasse l’ubicazione dei tesori. Una fonte afferma che il khan, in verità, sarebbe stato incline a risparmiarli ma, proprio mentre erano in corso i colloqui, una freccia centrò in un occhio uno dei generali che gli stavano intorno, facendogli cambiare idea.
Nel frattempo, le truppe mongole si riversavano in città, dando inizio a una serie di massacri alla quale non scampò neanche la gente che si era imbarcata sul fiume. Hulagu, che aveva suggerito ai cristiani di rifugiarsi nelle chiese, dove i suoi avevano ricevuto l’ordine di non entrare, entrò a Baghdad il 15 febbraio; lo precedette un volenteroso califfo, ansioso di rintracciare per il conquistatore le ricchezze abbasidi, accumulate da trentasette sovrani in cinque secoli, dall’epoca in cui la dinastia era subentrata agli Omayyadi. Non appena se ne fu impossessato, il khan diede ordine che con al-Mustasim la si facesse finita, e l’ultimo sovrano di una dinastia gloriosa finì ridotto in poltiglia dagli zoccoli dei cavalli mongoli; tuttavia, per pura scaramanzia, i tartari ebbero l’accortezza di avvolgerlo prima in un tappeto: si diceva, infatti, che il contatto con la terra del sangue reale degli Abbasidi, discendenti dello zio paterno del Profeta, potesse provocare un terremoto.
Altre tradizioni affermano che Hulagu, dopo aver amabilmente conversato di teologia col califfo, lo abbia fatto rinchiudere in una stanza dandogli da mangiare oro invece di cibo. Ad ogni modo, della famiglia abbaside sopravvissero solo il figlio e la figlia del califfo, mandati nell’harem di Mongu.
I soldati musulmani superstiti furono richiamati fuori le mura col pretesto di volerli impiegare per le campagne di Siria e d’Egitto; poi, dopo aver chiesto loro di deporre le armi, furono suddivisi in unità da mille, cento e dieci, e uccisi tutti. I conquistatori infierirono sulla cittadinanza per quaranta giorni, durante i quali operarono eccidi e distruzioni a non finire. Ne fece le spese, tra le altre cose, la straordinaria biblioteca della città, i cui numerosissimi libri finirono nel Tigri colorando di nero col loro inchiostro, si disse, le acque del fiume. Lo splendido palazzo dei califfi finì in fiamme, e si disse che «il fumo dalle sue travi di aloe, di sandalo e di ebano riempì l’aria di fragranza per una distanza di migliaia di chilometri». I «saccheggiatori gettavano via le loro spade e riempivano i foderi d’oro». Si disse anche che nel palazzo reale i guerrieri avessero trovato un albero d’oro con uccelli dorati sui rami e smeraldi incastonati nella corteccia.

La gran parte dei cittadini fu sterminata, tranne qualche giovane di ambo i sessi, destinato a divenire schiavo. «Nelle strette strade, il sangue scorreva all’altezza delle caviglie», scrive Azeem Beg Chughtai. Si disse che 90.000 abitanti – ma le fonti arrivano a parlare anche di due milioni – abbiano trovato la morte sotto i fendenti non solo dei mongoli, ma soprattutto dei cristiani armeni, particolarmente assetati di sangue. Hulagu, che in una lettera a Luigi IX di Francia riferisce della morte di 200.000 persone, fu costretto dapprima a spostare il proprio campo sopravvento, per evitare il fetore della decomposizione dei corpi abbandonati lungo le strade, e poi ad andarsene per evitare che i suoi, ancora alla ricerca di ricchezze, finissero appestati dai cumuli di cadaveri che rendevano letale l’aria di Baghdad. Il comandante mongolo lasciò una guarnigione di 3000 uomini a presidio dell’operato del gran visir Muwaiyad, cui concesse il governatorato – e per questo, agli occhi dei musulmani, Muwaiyad è dannato per l’eternità; quindi raggiunse il lago Urmiah, sulle cui rive costruì un castello dove custodì tutto l’oro che non aveva inviato al gran khan.
La sede del califfato non raggiunse più gli antichi fasti, anche perché molti ritengono che i mongoli avessero distrutto il complesso sistema di irrigazione che aveva alimentato per millenni la fiorente agricoltura della regione. La graduale ripresa della città le consentì di raggiungere dimensioni pari a non più di un decimo di quel che era stata durante l’epoca degli Abbasidi. Disputata da turchi e mongoli persiani, finì per subire un’altra devastante aggressione nel 1401, ad opera di Tamerlano, che diede ordine ai suoi 90.000 soldati di presentarsi al suo cospetto ciascuno con la testa di un abitante, pena la morte. Nel 1638, poi, gli ottomani l’avrebbero soffiata ai persiani in modo solo poco meno cruento. Quando il generale inglese Stanley Maude sottrasse la Mesopotamia ai turchi, nel 1918, ebbe a dire ai cittadini di Baghdad: «Fin dai giorni di Hulagu la vostra città e le vostre terre hanno subito la tirannia degli stranieri, i vostri palazzi sono caduti in rovina, i vostri giardini sono affondati nella desolazione, i vostri antenati e voi stessi siete soggiaciuti in schiavitù». Ciononostante, le cose dopo non sarebbero cambiate di molto e, a tutt’oggi, tra le città protagoniste di episodi bellici dell’epoca medievale descritti in questo volume, Baghdad è l’unica a trovarsi ancora sotto assedio.
La sua caduta sanciva la fine di un’epoca. Scrive Runciman:
 
La caduta di Baghdad, che seguiva di mezzo secolo quella di Costantinopoli, avvenuta nel 1204, poneva fine per sempre a quell’antica equilibrata diarchia di Bisanzio e del califfato, sotto cui le popolazioni del Vicino Oriente avevano prosperato per tanto tempo. Il Vicino Oriente non avrebbe mai più avuto una parte di primo piano nella storia della civiltà.
 
In realtà, è perfino possibile paragonare la caduta di Baghdad a quella successiva di Costantinopoli del 1453: in quella circostanza, gli europei rimasero a guardare gli ottomani dare il colpo di grazia a un impero da tempo in declino, salvo poi disperarsi per aver perso un simbolo e un baluardo della loro fede; lo stesso accadde ai musulmani nel 1258, e da allora, per lungo tempo, essi non avrebbero smesso di piangere il destino della città che rappresentava, nonostante la sua decadenza, il fulcro vitale della loro religione.

La conquista della Mesopotamia mise inoltre i mongoli in condizione di proseguire per la Siria, dove arrivarono nel settembre 1259 dopo aver spazzato via i principi musulmani selgiuchidi e ayyubiti del sud dell’Anatolia, uno dei quali costrinsero a mangiare le proprie carni. Quindi Hulagu, Ketboga e Baichu proseguirono verso sud, conquistando in rapida successione Aleppo e Damasco e raccogliendo la pronta sottomissione di Boemondo d’Antiochia; pareva che le sorti dell’Islam in Asia fossero ormai segnate. Ma poi la loro azione perse d’intensità, perché era giunta notizia che Mongu era morto e Hulagu, che sosteneva Qubilai, dovette prestare attenzione a ciò che accadeva a oriente. In Siria rimase solo Ketboga, con un numero di forze troppo ridotto per fronteggiare la reazione dei mamelucchi, che avevano da poco rilevato al potere gli ayyubiti in Egitto; condotti dal sultano Qutuz e da Baibars, i turchi inflissero una sconfitta decisiva al generale mongolo ad Ain Jalut nel settembre 1260, lo fecero prigioniero e lo decapitarono, recuperando poi tutti i territori siriani.
Come l’Europa cristiana vent’anni prima, anche il Vicino Oriente islamico era stato salvato dalla morte del gran khan. I mongoli non sarebbero più tornati a interessarsi delle faccende siriane: con la distruzione di Baghdad, Hulagu si era infatti attirato l’odio di suo cugino Berke, khan dell’Orda d’Oro, da poco convertitosi all’Islam, e non era pensabile scendere di nuovo nel Meridione con una minaccia simile alle spalle. D’altronde, il khan morì pochi anni dopo, nel 1265, a soli quarantotto anni, probabilmente di una crisi epilettica, e i suoi successori non riuscirono a tenere unito il khanato mongolo persiano che egli aveva costituito. Lo stato mamelucco poté così continuare a prosperare fino all’ascesa degli ottomani; non così i residui possedimenti crociati in Palestina, che avevano perso l’unico alleato in grado di garantire loro la sopravvivenza.
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