Cortenuova 1237

Campagne militari, guerre e battaglie
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Veldriss
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Cortenuova 1237

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Tratto da "Le grandi battaglie del Medioevo" di Andrea Fedriani.

Negli anni Novanta del XII secolo l’Italia visse una situazione del tutto inedita dai tempi dei romani: il tentativo di unificazione dalle Alpi alla Sicilia da parte dell’autorità imperiale, nella persona di Enrico VI, figlio del Barbarossa. Tuttavia, nella penisola non erano poi molti quelli disposti ad accettare supinamente la situazione, e nei pochi anni in cui visse da sovrano, Enrico dovette affrontare una serie inesauribile di contrasti. A nord, i comuni della lega lombarda, sebbene divisi e litigiosi, mantenevano una parvenza di concordia quando si trattava di conservare l’autonomia ottenuta dopo vent’anni di lotte con Federico I. Al centro, il papato aveva imperniato la sua politica sulla imprescindibile necessità di evitare di essere circondato dai domini tedeschi, e i comuni appenninici erano refrattari all’autorità dei tre duchi germanici tra i quali era stata ripartita l’eredità di Matilde di Canossa. A sud, poi, i normanni non erano disposti a cedere per mere alchimie politiche il loro regno agli Hohenstaufen, e avevano dato corso a uno stato permanente di ribellione, opponendo agli Svevi esponenti dei rami collaterali degli Altavilla.
Enrico VI morì prematuramente, nel 1197, lasciando un figlio di tre anni, Federico, e una moglie, Costanza, la quale non poté far altro che appoggiarsi al papato e affidare regno e bambino al volitivo pontefice Innocenzo III, prima di morire, l’anno successivo a quello del marito. Sovrano di un regno, quello normanno, squassato dalle lotte intestine, Federico sembrava destinato a divenire un docile vassallo regionale del papa, senza alcuna prospettiva di poter aspirare alla corona imperiale; da parte sua, il pontefice traeva un’ulteriore motivo di soddisfazione dalla lotta che si era accesa in Germania per la successione al trono, tra Filippo di Svevia, fratello dell’imperatore defunto, e Ottone di Brunswick, figlio di Enrico il Leone, nonché nipote di Riccardo Cuor di Leone e quindi “sponsorizzato” dagli inglesi.
Furono anni di trionfo per Innocenzo III, capace di tenere in soggezione Federico anche quando questi uscì dalla minore età, e i due antagonisti tedeschi, disposti a più di una concessione per ottenere da lui la corona imperiale. Il papa finì per privilegiare Ottone, che gli cedette il possesso dei ducati dell’Italia centrale, ormai sgretolati dalle rivolte scoppiate dopo la morte di Enrico VI, permettendo alla Chiesa di costituire uno stato tra il Lazio e l’Emilia-Romagna, che sarebbe durato fino al 1860. Il Guelfo si comprò così la corona imperiale, che poté cingere a Roma nel 1209, ma subito mise gli occhi sul regno di Sicilia, e questo il pontefice non poteva tollerarlo: Ottone IV si beccò una scomunica, si ritrovò tutti contro a sud delle Alpi e dovette lasciar perdere la penisola e tornare a una politica germanica.
A quel punto, il nuovo candidato imperiale di Innocenzo diveniva proprio Federico che, vincolato da pesanti debiti nei confronti del papato, era lecito ritenere accomodante sulla questione della doppia corona; e infatti, il giovane sovrano si impegnò a non unire i due regni e a investire di quello siciliano il proprio figlio Enrico, che fece subito incoronare a Palermo, poco prima di andare a disputarsi il trono in Germania. Mentre era Oltralpe, Federico creò la carica di legato imperiale per l’Italia e confermò quanto assegnato al papato da Ottone, ricevendo da Innocenzo III l’investitura al trono imperiale dopo la sconfitta del capo del partito guelfo a Bouvines nel 1214.

Tornato in Italia nel 1220, dopo aver imposto in Germania la sua autorità sugli ultimi residui del partito guelfo, Federico II ricevette la corona imperiale a Roma dal successore di Innocenzo III, Onorio III, impegnandosi a partire per la crociata. Ma i rapporti tra papato e Hohenstaufen non erano destinati a rimanere cordiali a lungo. Federico stava iniziando a mostrare una personalità impressionante, e dilazionava la partenza per la Terrasanta, blandiva i romani, sempre avversari del papa, e cercava soluzioni per riunire l’Italia meridionale al resto dei suoi domini. Come primo atto concreto di imperio, il giovane monarca strinse i vincoli dell’autorità imperiale in Italia dividendo il settore centrosettentrionale della penisola in cinque vicariati, corrispondenti più o meno al Trentino e al Veneto, al Piemonte e al Milanese, alla Liguria, alla Romagna e alla Toscana. Ciascun vicario imperiale sovrintendeva l’operato di un capitano di città, la cui nomina spettava all’imperatore, e nominava i giudici cittadini; insomma, in un colpo Federico annullava le conquiste ottenute dai comuni con la pace di Costanza e metteva a rischio la stabilità dello scacchiere italico, nonostante potesse contare su vari sostenitori del suo regime, dalle tradizionalmente filoimperiali Pavia, Parma, Cremona, Pisa e Siena ad alcuni dei più importanti feudatari.
Era una politica assai azzardata, la sua. A differenza del nonno, infatti, Federico doveva gestire un agglomerato politico ben più complesso, con il regno di Sicilia ancora instabile, un papato molto più forte – anche territorialmente – di mezzo secolo prima, e una serie di comuni ormai tanto potenti da tendere costantemente all’espansione ai danni di quelli più prossimi, causando un costante stato di belligeranza cui nessuna autorità superiore era in grado di porre un freno: tutto ciò complicava in modo esponenziale il suo compito. Ad ogni modo, l’imperatore vi si accinse con grande determinazione, profondendo energie e talento nel limitare il potere feudale e dare una solida struttura amministrativa alle terre sotto la sua autorità, con un’intensa attività legislativa di stampo più moderno rispetto allo standard dell’epoca, e lodevoli sforzi per elevare il livello culturale della popolazione. D’altra parte, il suo governo era indubbiamente assolutista e le misure di sicurezza e punitive particolarmente severe.
Tutto ciò non contribuì certo a farlo amare dagli italiani, né dal papato, che guardava sempre con sospetto ogni sua mossa volta a stringere i vincoli tra i regni germanico, siciliano, italico e perfino ecclesiastico. Il tormentone della crociata andò avanti per anni, con una lunga serie di impegni a partire che Federico fu costretto a prendere e altrettante smentite dovute tanto alle circostanze oggettive, quanto alla sua consapevolezza che, con lui lontano, la precaria costruzione che stava cercando di consolidare sarebbe venuta meno.
Una prima evidenza delle tensioni che covavano sotto l’apparente concordia si ebbe nel 1226, quando l’imperatore convocò una dieta a Cremona, cui erano tenuti a partecipare i rappresentanti di tutti i suoi sudditi, di Germania, d’Italia e di Sicilia. Per tutta risposta, i comuni lombardi costituirono una seconda lega, di durata venticinquennale, che istituirono a Mantova il 6 marzo, comprendente Milano, Bologna, Brescia, Mantova, Bergamo, Torino, Vicenza, Padova e Treviso, e in un secondo momento Piacenza, Verona, Faenza, Vercelli, Lodi, Alessandria, Crema, Ferrara, i conti di Biandrate e il marchese di Monferrato. Anche i comuni toscani, a parte Pisa, lo boicottarono, e perfino Genova lo abbandonò. Un trovatore piemontese espresse molto chiaramente, in una sua ballata, gli intenti degli alleati:
 
Guardate il nostro imperatore che raccoglie grandi forze. Lombardi state in guardia perché non vi riduca peggio degli schiavi, se non sarete risoluti […] Ricordate i valenti baroni della Puglia che ora non hanno altro che dolore nelle loro abitazioni. Non amate il popolo germanico; lontano, lontano da voi stiano quei pazzi cani. Dio salvi la Lombardia, Bologna, Milano e i loro alleati, e Brescia e i mantovani e i buoni abitanti della marca (di Verona), perché nessuno di essi sia schiavo.
 
Sul momento, i collegati riuscirono a far valere la loro volontà, bloccando le chiuse di Verona e impedendo il passaggio dei principi germanici, capeggiati dal figlio dell’imperatore, Enrico. Federico, che aveva indisposto anche il papa convocando alla dieta rappresentanti dei territori pontifici, fu costretto a trattare, e l’anno seguente si giunse a un accordo che lo impegnava ancora una volta ad andare in Terrasanta, mentre la lega, a sua volta, si obbligava a mandare 400 cavalieri alla crociata. Nel frattempo, al soglio papale arrivava Gregorio IX, della stessa tempra di Innocenzo III; non a caso, quando l’imperatore si ammalò a Otranto, proprio mentre era in procinto di salpare per l’Oriente, si vide subito arrivare una scomunica.
Federico rispose con un proclama che denunciava le pretese temporali del papato; poi partì, riguadagnando Gerusalemme alla Cristianità, se pur mediante un trattato, ma ciò non gli valse la gratitudine del papa, che considerò disdicevole trattare con i musulmani. Per giunta, durante la sua assenza Gregorio aveva attivamente lavorato per allargare e consolidare il fronte antimperiale e, una volta nella penisola, il sovrano fu costretto a combattere per recuperare il controllo dei suoi territori in Italia meridionale, prima di concludere, nel 1230, il trattato di San Germano, che ripristinava le buone relazioni tra papato e impero.
E ricominciarono gli sforzi per sottomettere i comuni italiani. Una nuova dieta a Ravenna nel 1231 andò pressoché deserta, a parte i soliti sostenitori di vecchia data; anzi, l’imperatore finì per tenerla ad Aquileia, per poter incontrare i vassalli germanici che avevano trovato ancora una volta bloccati i passi alpini. La situazione finì per sbloccarsi solo perché il papa, in difficoltà con i romani, ebbe bisogno dell’aiuto di Federico per imporre la propria autorità sull’Urbe, e fece pertanto da mediatore con i comuni lombardi, inducendoli a sbloccare gli sbarramenti alpini per lasciar passare le truppe germaniche in suo sostegno. Gregorio finì per recuperare Roma, anche se Federico fu costretto a precipitarsi in Germania, nel 1235, per fronteggiare la ribellione di suo figlio Enrico, che si era alleato con la lega lombarda; con una rapida campagna, gli tolse ogni potere e lo spedì in prigione, dove il giovane sarebbe morto sette anni dopo.
Prima di tornare in Italia, Federico sposò in terze nozze la sorella del re d’Inghilterra, operazione che gli procurò la definitiva pacificazione in Germania – dove la fazione guelfa aveva avuto sempre come referenti i re inglesi – e il sostegno del papa. Ma la nuova collaborazione tra imperatore e papato fu di breve durata; nuovi motivi di dissidio sorsero tra i due personaggi, a cominciare dalla tolleranza che Federico sembrava mostrare nei confronti dei saraceni di Sicilia. Inoltre, l’imperatore era intenzionato a imporre una volta per tutte la sua autorità in Italia settentrionale, ma Gregorio non era disposto a seguirlo su questa strada. La nuova rottura avvenne su questo punto, sul quale Federico non intendeva desistere ancora. Convocò pertanto una nuova dieta a Piacenza, pretendendo senza più mezzi termini anche la partecipazione dei rappresentati dei territori ecclesiastici, di cui rivendicò esplicitamente il possesso come rappresaglia per il comportamento papale.
Dopo aver accusato il papa di nuocergli per far piacere ai milanesi, Federico diede avvio alla guerra contro i comuni lombardi nell’autunno del 1236, attraversando il Mincio e pronunciando la frase: «I pellegrini e i viandanti possono liberamente andare ovunque; non potrò dunque io, l’imperatore, avventurarmi nelle terre dell’impero?». Cominciò devastando il territorio tra Mantova e Brescia, quindi si spostò nella marca trevigiana dove, con l’aiuto delle truppe di Ezzelino da Romano, assalì Vicenza. Poi, si ritenne pago, per il momento, di queste dimostrazioni di forza e ritornò precipitosamente a nord delle Alpi, per dare una lezione al refrattario duca Federico d’Austria, i cui beni assegnò in parte all’ordine teutonico. Trattenendosi in Germania anche nella prima parte dell’anno seguente, ne approfittò per fare un’altra cosa sgradita al papa, eleggendo il figlio Corrado re dei romani – nonché erede al trono del regno di Gerusalemme per parte di madre – e assicurando così continuità alla sovranità degli Hohenstaufen.
In Italia continuò a esercitare un’intensa azione diplomatica Hermann von Salza, gran maestro dell’ordine teutonico, che nel maggio 1237 tenne una dieta a Brescia, assicurando papa e comuni che l’imperatore era fermamente determinato a rinnovare le operazioni belliche in caso di mancato accordo. Federico scese in Italia in agosto, portandosi dietro dalla Germania 2000 cavalieri, metà dei quali dell’ordine teutonico. Poi si spostò a Verona dove, nel corso del mese successivo, convennero al suo cospetto le forze filoimperiali – ormai possiamo definirle “ghibelline” – italiane, a cominciare da quelle condotte da Ezzelino da Romano, composte da padovani, trevigiani, trentini, vicentini, veronesi, cui seguirono quelle toscane, radunate da Gaboardo di Arnstein; arrivarono anche le truppe provenienti dal regno di Sicilia, 6000 arcieri saraceni e vari contingenti di cavalieri.
Successivamente, lo raggiunsero anche i contingenti delle città ghibelline della Lombardia, ovvero Pavia, Modena, Cremona, Parma e Reggio, portando la sua multiforme armata a un totale compreso tra i 12.000 e i 15.000 effettivi. Il primo obiettivo dell’imperatore era Mantova, il centro dove si era formata la seconda lega lombarda, ma non ebbe neanche bisogno di sottoporla ad assedio: la città gli aprì subito le porte, permettendogli di marciare rapidamente alla volta di Brescia. Tuttavia la sua avanzata si arrestò a Montichiari, dove una guarnigione di 1500 fanti e 20 cavalieri bresciani riuscì a bloccarlo per due settimane, prima di arrendersi il 21 ottobre.
La resistenza della roccaforte risultò decisiva per la salvezza di Brescia, che le truppe della lega ebbero il tempo di raggiungere prima dell’arrivo dei ghibellini. L’esercito lombardo, formato da 6000 fanti e 2000 cavalieri, era al comando di Pietro Tiepolo, figlio del doge di Venezia, e vantava la presenza del Carroccio con la relativa guardia, la cosiddetta “Compagnia dei Forti”, un migliaio tra cavalieri e fanti al comando di Enrico di Monza. A quel punto, la città era troppo ben difesa perché Federico si arrischiasse ad assediarla, e preferì devastare il territorio circostante per indurre l’esercito avversario, sul quale vantava una superiorità in termini di effettivi, allo scontro campale. Ma i collegati, nei quali era preminente la forza inviata da Milano su quelle dell’area padana più orientale/piemontese (Piacenza, Lodi, Novara, Vercelli, Crema e Alessandria), attendevano altri contingenti e non abboccarono; così, ai primi di novembre l’imperatore si accampò sulla riva destra dell’Oglio, a Pontevico, 17 chilometri a nord di Cremona, in attesa delle mosse nemiche.
I lombardi risposero disponendo a loro volta un campo tra la posizione ghibellina e Brescia (o Milano), a Manerbio, poco a nord di Pontevico. La scelta della posizione, saldamente ancorata su un terreno paludoso e protetta dal fiumiciattolo Risignolo, confermava la strategia prettamente difensiva della lega, che si preoccupava solo di eludere lo scontro e proteggere le sue roccheforti, per il tempo sufficiente a raggiungere la chiusura della stagione bellica, peraltro già piuttosto avanzata.
A quel punto l’imperatore fece proprio ciò che gli avversari si aspettavano: levò il campo e, fatti costruire dei ponti sull’Oglio, nella giornata del 23 novembre attraversò il fiume e passò in territorio ghibellino, dando l’impressione di voler porre termine alla campagna. Sembrarono, anzi, non esservi più dubbi al riguardo, quando congedò i contingenti delle città lombarde, privandosi così di almeno un terzo dell’esercito. La successiva propaganda imperiale ha ascritto a Federico un preciso disegno strategico, mirato a indurre gli avversari a scoprirsi. È probabile che sia andata così, ma non si può escludere che il sovrano abbia cercato nuovamente la battaglia dopo essersi reso conto che la sua mossa gli aveva offerto un’occasione; questo, almeno, lascerebbe intendere il suo cancelliere, Pier delle Vigne, quando afferma che gli imperiali incontrarono i ribelli «casualmente, comunque con successo».
Per i collegati, in ogni caso, il passaggio dell’Oglio e la partenza dei contingenti lombardi furono indizi sufficienti a indurli a smobilitare e a tornare a Milano. A tal fine, poiché Federico aveva fatto distruggere i suoi ponti, il 24 marciarono verso nord per 36 chilometri toccando Lograto e Chiari, raggiungendo Palazzolo, dove la presenza di un ponte di pietra permetteva il passaggio di cavalleria e salmerie, e Pontoglio, dove passò la fanteria. Ma anche Federico si era spostato di 22 chilometri verso nord, attestandosi a Soncino. Di lì teneva sotto osservazione Cortenuova, una roccaforte che rappresentava un passaggio obbligato alla volta di Milano, una volta che i collegati avessero attraversato l’Oglio. E considerando che disponeva anche di un contingente bergamasco arrivato da nord e attestato a Ghisalba, poco a settentrione del caposaldo, l’imperatore si trovava nella posizione ideale per chiudere in una tenaglia gli avversari in ripiegamento.
Ci si è meravigliati del fatto che Federico si sia arrestato prima di raggiungere la zona che gli avrebbe consentito di sbarrare il passo ai collegati. Se avesse solo voluto obbligarli a combattere, infatti, si sarebbe piazzato proprio a Cortenuova, di fronte al passaggio dell’Oglio, per bloccare la via per Milano; invece, l’imperatore voleva sì combattere i ribelli, ma valendosi dell’effetto sorpresa, e perciò aveva arrestato la sua marcia appena a sud rispetto al punto in cui il nemico avrebbe attraversato.
A tal fine, dispose che la guarnigione bergamasca attestata a Cividate al Piano, sull’Oglio appena a est di Cortenova, gli manifestasse con segnali di fumo il passaggio del fiume da parte delle truppe nemiche. Gli imperiali lasciarono sfilare le salmerie, che arrivarono per prime a Cortenuova, dove l’esercito della lega intendeva fare tappa; tra di esse c’era naturalmente il Carroccio che, trainato da cavalli invece che dai consueti buoi per procedere più velocemente, fu piazzato tra le mura e il fossato, allargato dagli zappatori. Il passaggio dell’esercito sull’Oglio avvenne nel corso della mattinata del 27 novembre, inaugurato dall’avanguardia di fanteria, che avanzò subito verso la zona appena a sud della roccaforte per preparare il campo. Il transito sulla riva sinistra si concluse intorno alle tre, quando ormai almeno milanesi e piacentini si erano attestati nella pianura meridionale di Cortenuova, costituendo una linea di picchieri e pavesai distante circa un chilometro dalle mura della città e dal Carroccio con le salmerie.
Proprio allora un esploratore a cavallo ghibellino si catapultò a ridosso dei milanesi, urlandogli con fare provocatorio: «Allerta! L’imperatore vi darà sempre battaglia!». Qualche tempo prima, infatti, quelli di Cividate al Piano avevano fatto il segnale convenuto e, tanto per andare sul sicuro, avevano anche dato fuoco a una chiesa per produrre fumo sufficiente ad allertare Federico. Il suo esercito si era messo immediatamente in moto per coprire i 18 chilometri che lo separavano da Cortenuova, contando sulla copertura fornita dalla boscaglia che delimitava la pianura circostante la roccaforte per celare fino all’ultimo momento i suoi movimenti al nemico.
Arrivato a ridosso dell’obiettivo, probabilmente Federico non si attardò a modificare la disposizione di marcia, in colonna su sette divisioni, in quella da battaglia, e mandò subito all’attacco la sua cavalleria, fiancheggiata dal tiro dei saraceni. Nel frattempo, disponeva la fanteria in linea frontale, esortando i suoi con un’arringa nella quale gli suggeriva, secondo quanto descritto nell’opera del cronista inglese coevo Matteo Paris: «Travolgete con il vostro furore codesti ratti, che hanno osato uscire dalle loro tane. Che provino oggi le lance folgoranti dell’imperatore romano». D’altronde, il vantaggio che l’imperatore poteva trarre dalla sorpresa era tale da compensare ampiamente lo svantaggio di affrontare la battaglia con parte dell’armata non ancora schierata. E se vogliamo considerare improbabile che i collegati ignorassero la presenza dei ghibellini nelle vicinanze, dobbiamo almeno presumere che non si aspettassero di vedersi attaccare oltre la metà giornata, sapendo, per giunta, che gli imperiali erano a Soncino.
Naturalmente i milanesi e i piacentini, che erano in procinto di accamparsi, non furono in grado di produrre una valida difesa, e qualsiasi tentativo di allestire uno schieramento coeso si infranse di fronte alle frecce dei saraceni e alle cariche dei cavalieri teutonici, che finirono in breve per provocare la fuga di quanti non caddero sotto i colpi dei ghibellini. I lombardi cercarono di raggiungere Cortenuova, finendo addosso ai commilitoni milanesi e alessandrini che, intanto, si erano ammassati intorno al Carroccio. La confusione che sembrava regnare tra le file avversarie spinse Federico a immettere nello scontro anche le altre truppe che aveva con sé, dapprima quelle venete condotte da Ezzelino da Romano, poi le milizie lombarde, nel tentativo di farla finita e cogliere una vittoria decisiva prima che calasse il buio.

Nel frattempo, i collegati cercavano di organizzare una resistenza intorno al Carroccio, mentre i cavalieri milanesi si sacrificavano per tenere lontani gli avversari e permettere così ai fanti in ritirata di costituire una linea difensiva dietro il fossato. Ma il tentativo venne parzialmente vanificato dall’irruzione da tergo dei bergamaschi provenienti da nord. Si svilupparono furibonde mischie lungo il fossato, così descritte da Matteo Paris: «Infiniti, dall’una e dall’altra parte, vengono schiantati. E il grido in mischia dei combattenti, l’urlo dei morenti, il rombo delle armi, il nitrir dei cavalli, il ruggito dei cavalieri che si avvinghiano, la martellante percussione dei colpi folgoranti, gremiscono di fragore lo stesso cielo».
Gli imperiali, al grido di «Roma guerriera! L’imperatore guerriero!», più volte sembrarono sul punto di sfondare: «superato il fossato vedemmo alcuni dei nostri arrivare fino quasi a toccare il timone del Carroccio», scrisse in seguito l’imperatore. Tuttavia, le forze della lega riuscirono ad arginare qualunque tentativo di penetrazione, pur a prezzo di forti perdite – tra le quali lo stesso comandante Pietro Tiepolo, che cadde nelle mani dei ghibellini – fino a quando la notte, e la nebbia, non obbligarono Federico a sospendere gli attacchi.
Non lo considerò certo un dramma. L’imperatore, infatti, era consapevole di aver acquisito un enorme vantaggio morale, aggredendo il nemico quando questi riteneva di essere riuscito a evitare il combattimento per quella stagione, e sottraendogli il comandante; ma disponeva anche di un grande vantaggio materiale, sia per la posizione, che gli consentiva virtualmente, con i bergamaschi a nord di Cortenuova, di accerchiare i collegati, sia per gli effettivi, la cui superiorità a suo favore si era incrementata grazie alle perdite subite dagli avversari nel corso del pomeriggio.
Si preparò pertanto a infliggere il colpo di grazia all’armata nemica, dando ordine ai suoi uomini di dormire in pieno assetto da combattimento, per avventarsi sui lombardi non appena fosse sorta l’alba. Dall’altra parte, invece, i collegati furono ancor più solerti, non per disporsi a combattere ma per predisporre la fuga, dando per scontato di non essere più in grado di sostenere un nuovo scontro con l’armata ghibellina. Per quanto rischiosa, una soluzione del genere costituiva la sola alternativa al disastro certo che li attendeva il mattino seguente. La notte novembrina era particolarmente fosca, e ciò consentì ai soldati lombardi, seguiti dagli abitanti di Cortenuova – che non si facevano illusioni sul trattamento che avrebbe riservato loro l’imperatore –, di sgusciare attraverso le maglie del blocco nemico, particolarmente larghe nel settore settentrionale.
Si dovette sacrificare il Carroccio, naturalmente. Le strade erano un pantano, e qualunque tentativo di tirarselo dietro avrebbe rallentato la marcia. I milanesi ebbero però cura di spogliarlo di tutte le insegne, a cominciare dal gonfalone, e di danneggiarlo almeno un po’, per renderne difficile l’identificazione. Tentarono di portarsi via anche la grande croce di ghisa che lo contraddistingueva, ma anch’essa era troppo pesante, e dovettero abbandonarla nel fango.
Il mattino seguente, quindi, Federico non trovò nessuno ad attendere i suoi uomini, quando questi si avventarono su Cortenuova, se non un irreale silenzio, rotto di tanto in tanto dal lamento dei feriti troppo gravi per essere trasportati via. Non esitò, comunque, a ordinare l’inseguimento, ben sapendo, probabilmente, che una ritirata a fine novembre è sempre più complicata di una nella bella stagione. I fiumi a est e a ovest di Cortenuova, infatti, rispettivamente l’Oglio e il Serio, erano gonfi per le piogge autunnali, e costituirono un ostacolo insormontabile per molti dei fuggitivi, sia per quanti tentarono di riparare a Brescia che per quelli che intendevano raggiungere Milano.
Molti di coloro che tentarono di attraversarli a nuoto finirono annegati, mentre quanti non ebbero in coraggio di buttarsi tra i flutti non poterono far altro che spargersi in tutte le direzioni e finire nelle mani dei bergamaschi, i primi ad avventarsi su di loro, e poi di tutti gli altri ghibellini. Almeno in 5000 finirono prigionieri degli imperiali, e forse altrettanti erano rimasti sul campo di battaglia; i milanesi, da soli, persero 2500 effettivi, e il Carroccio stesso, che fu individuato e portato al cospetto dell’imperatore. Le perdite imperiali, invece, dovettero essere risibili.
In ogni caso, l’esercito della lega era annientato, tanto da far passare la battaglia di Cortenuova alla storia come una delle più sanguinose del Medioevo, e da indurre l’imperatore a credere di avere ormai in pugno la situazione nell’Italia settentrionale. Le forze ghibelline all’inseguimento dei fuggitivi si spinsero fin oltre il Serio, a Rivolta sull’Adda, ovvero a 25 chilometri da Milano, che in quel momento si presentava virtualmente sguarnita. Ma Federico, invece di approfittarne, nei giorni seguenti preferì dare spazio alle celebrazioni per il suo successo, dapprima lasciando che i bergamaschi radessero al suolo Cortenuova, poi istituendo un corteo trionfale a Cremona, dove si trasferì il 1° dicembre.
Per le strade della città si vide sfilare il Carroccio trainato da un elefante bardato di tutto punto. Sul mezzo che era stato il simbolo, sessant’anni prima e appena a un’ottantina di chilometri da Cortenuova, della vittoria lombarda sull’imperatore, era esposto in bella vista il prigioniero più illustre, Pietro Tiepolo che, insieme ad altri prigionieri, fu poi deportato in Puglia e impiccato vicino Trani. Il Carroccio, da parte sua, finì invece a Roma, come omaggio dell’imperatore al popolo delle cui glorie intendeva farsi continuatore – ma anche per far dispetto al papa.
In quel momento, non ci fu più alcuno, in Italia, che osasse sfidare l’imperatore. Sembrava davvero che Cortenuova rappresentasse l’episodio decisivo di quasi un secolo di lotte tra comuni e impero. La lega finì per frantumarsi, molte città fecero atto di sottomissione all’imperatore e altre, come Milano, si dichiararono disposte a trattare la pace. Ma le battaglie sono decisive solo nella misura in cui le si sa sfruttare con mosse opportune in seguito, e Federico non seppe fare buon uso del suo schiacciante successo.
Inebriato dai consensi dei suoi sostenitori l’imperatore, dopo aver commesso l’errore strategico di rinunciare ad assalire Milano, ne fece uno diplomatico, pretendendo dai milanesi una resa incondizionata, che spinse questi ultimi a racimolare le energie residue e disporsi a una resistenza a oltranza. Federico non riuscì a espugnare né Milano né Brescia, e i suoi rovesci davanti alle loro mura non fecero che restituire fiducia al fronte guelfo, e in particolare al papa, che nel 1239 gli comminò una nuova scomunica. I toni del conflitto si alzarono, trasformandosi in un dissidio personale tra Federico II e Gregorio IX, nonché il successore di questi, Innocenzo IV.
La caduta di Gerusalemme in mano turca nel 1244 rappresentò un buon motivo per procedere alla riconciliazione e preparare una crociata comune; ma appariva sempre più difficile conciliare due contendenti che ambivano entrambi, per ideologia più che per ambizione personale, al dominio universale. La dicotomia era esistita fin da quanto il Sacro Romano Impero era stato istituito, esasperandosi, però, nel momento in cui un imperatore, per la prima volta, faceva dell’Italia, e non della Germania, il baricentro del proprio potere. Nello stesso tempo, infatti, era anche un contrasto per la supremazia territoriale in Italia, dove il papa mirava esplicitamente al recupero dei territori del regno di Sicilia. Nel conflitto, nonostante che Federico disponesse di un potenziale militare enormemente superiore, era proprio l’imperatore ad apparire in svantaggio, poiché di fronte all’intransigenza papale egli si sforzava, per non perdere il sostegno della Cristianità, di trovare un accomodamento. Ma non gli fu sufficiente neanche annunciare di essere disposto a rinunciare alla corona in favore del figlio Corrado.
Infatti il pontefice finì per deporre Federico, come aveva fatto Innocenzo III con Ottone IV, accentuando il suo isolamento internazionale, che in Italia si tradusse nella perdita del sostegno perfino delle città tradizionalmente ghibelline, come Parma. Il declino dell’imperatore fu sancito dal disastro cui andò incontro nel 1247 assediando proprio Parma, e dalla successiva sconfitta di Fossalta, nella quale i guelfi bolognesi non solo prevalsero sui ghibellini modenesi e cremonesi, ma soprattutto fecero prigioniero a vita il suo figlio naturale Enzo, re di Sardegna e principale puntello della politica imperiale in Italia negli anni precedenti.
L’imperatore non sopravvisse a lungo a questi insuccessi. Ammalato e disilluso, si spense nel 1250, dopo aver tentato ripetutamente quanto inutilmente di comporre il dissidio col papato. Della sua eredità si facevano carico figli – naturali e non –, vicari, tiranni lungo tutto il territorio della penisola, più che mai suddivisa in una miriade di entità politico-territoriali i cui contrasti il papato si sarebbe preoccupato di alimentare negli anni seguenti, fino a istituzionalizzare la lacerazione in due partiti opposti, promuovendo l’irruzione di nuovi protagonisti nello scacchiere italico.

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