Bouvines 1214

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Bouvines 1214

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Tratto da "Le grandi battaglie del Medioevo" di Andrea Fedriani.

Secondo un’espressione abusata, a Bouvines nacque la Francia. C’era stato un regno franco, e poi un impero franco, ma mai un regno di Francia. Eppure, dal 987 c’era sempre stato un re, un esponente della dinastia dei Capetingi, capace di conservare la corona e i suoi possedimenti intorno a Parigi, in mezzo a una ridda di conti e duchi perfino più potenti di lui, con la Francia occidentale in mano agli inglesi, e il Meridione dilaniato dalle guerre di religione. La dinastia era sopravvissuta proprio grazie alla sua debolezza, esercitando un’autorità solo marginale sui più grandi vassalli, che non avevano alcun interesse ad attribuire il trono a qualcuno più potente. Ma in tal modo, i re normanni d’Inghilterra avevano potuto allargare a proprio piacimento il ducato, fino a minacciare l’esistenza stessa di una corona francese.
Filippo II, detto poi Augusto, cambiò tutto questo, nel corso dei suoi quarant’anni di regno, ma soprattutto il 27 luglio 1214 a Bouvines. Come secoli dopo Federico II di Prussia, il re francese, intenzionato a uscire dalla situazione di marginalità in cui versava la corona transalpina, si trovò a dover affrontare una coalizione di stati che lo circondavano, sollecitati dalla sua intraprendenza a una reazione, e decisi a espellerlo dal palcoscenico della Storia in via definitiva.
La situazione internazionale che si era venuta a creare a cavallo tra il XII e il XIII secolo era estremamente confusa, in effetti. Dai tempi della conquista normanna, l’Inghilterra dei Plantageneti era una realtà di cui bisognava tener conto in Europa, dal momento che il possesso della Normandia le permetteva di avere una rilevante testa di ponte sul continente; la statura di personaggi come Enrico II e poi del figlio primogenito, Riccardo Cuor di Leone, l’eroe delle Crociate, capace di sconfiggere lo spauracchio Saladino e di mobilitare una nazione per liberarlo dalla prigionia in Austria, aveva consolidato la dinastia e reso centrale il suo ruolo nella politica europea. Le Fiandre erano terre in grande fermento, fucina di cavalieri e combattenti disposti a offrire i propri servigi a chiunque prospettasse loro compensi, e prospero mercato della lana col quale i sovrani degli altri stati ambivano ad avere un rapporto commerciale privilegiato. Il papato non era mai stato tanto forte, con un pontefice autorevole e carismatico qual era Innocenzo III, capace di imporsi come depositario di decisioni politiche decisive per lo sviluppo dei rapporti internazionali dell’epoca.
E poi, c’era l’impero, il Sacro Romano Impero, passato, nei quattro secoli di esistenza, attraverso varie casate e dinastie, dai Carolingi agli Ottoni, dai franconi agli svevi. Proprio allora c’era stato un cambiamento rilevante nella sua storia, grazie alla politica matrimoniale di Federico Barbarossa, che aveva procurato alla propria casata l’eredità normanna dell’Italia meridionale, facendo sposare il proprio figlio ed erede Enrico VI all’ultima esponente dei gloriosi Altavilla. Ma il nuovo imperatore era durato poco, e la sua morte precoce, nel 1197, aveva lasciato vacante un impero che andava dalle coste lungo il Mare del Nord alla Sicilia, tagliando in due l’Europa e stritolando i possedimenti papali in Italia centrale.
Buon per Innocenzo III che Enrico VI avesse affidato il proprio figlio Federico alla sua tutela. Il papa, infatti, aveva incoraggiato la formazione italica del bambino, che per gran parte della sua brillante vita si sarebbe disinteressato della Germania, per concentrarsi sulla penisola, lasciando che nei territori tedeschi si affermasse il partito opposto alla casata degli Hohenstaufen, cui apparteneva, ovvero i guelfi. Nel 1209, il pontefice sancì l’elezione a imperatore del loro più prestigioso esponente, Ottone IV di Brunswick, la cui parentela con Giovanni Senzaterra, succeduto al trono inglese dopo la morte del fratello Riccardo nel 1199, creava i presupposti per un asse anglo-tedesco decisamente scomodo per il re francese.
Gli intrecci politici erano ulteriormente complicati dal sussistere del vincolo di vassallaggio che legava ancora il re inglese, in quanto duca di Normandia, al re di Francia. E quanto tali obblighi teorici fossero rilevanti lo si vide subito dopo l’avvento al trono di Giovanni, allorché, in conseguenza del rifiuto del re inglese di render conto a quello francese della sua politica matrimoniale, scoppiò la guerra tra le due nazioni. In un triennio, l’offensiva che Filippo scatenò tolse agli inglesi il controllo di quasi tutti i loro possedimenti sul continente, ovvero Normandia, Poitou, Angiò, Maine e Turenna.
I pessimi risultati conseguiti nel conflitto da Giovanni Senzaterra spinsero il re inglese, poco amato in patria, a rinsaldare i vincoli con il nipote Ottone IV che, da parte sua, non aveva riposto l’ambizione di unificare tutti i territori di Enrico VI. Nel 1212 l’imperatore passò a sua volta all’offensiva, cercando di impossessarsi dell’Italia meridionale, ma la sua mossa gli alienò definitivamente le simpatie papali; Innocenzo III aveva fatto di tutto per mantenere separate le due porzioni di eredità di Enrico VI, e reagì nell’unico modo in cui un pontefice poteva nuocere al nemico: scomunicò Ottone, lo depose ed elesse al suo posto il giovane Federico II.
L’azione del sovrano guelfo ebbe anche l’effetto di avvicinare Filippo e il papa, e di cementare i due blocchi che si vennero così a creare: da una parte due sovrani screditati, Giovanni e Ottone, appoggiati da parte dei principi fiamminghi – alcuni dei quali, però, si tirarono indietro di fronte alla prospettiva di dover combattere per un capo scomunicato –, dall’altra un re in ascesa, Filippo, forte dell’appoggio papale. I numeri, tuttavia, erano dalla parte dei primi, il cui asse minacciava di stritolare il sovrano francese, che per evadere dalla morsa in cui lo stavano stringendo gli avversari giunse perfino a pianificare un’invasione dell’isola britannica; gli andò male, perché le navi radunate dal figlio Luigi a tale scopo nell’aprile 1213 finirono in fiamme il mese successivo, per mano dei filoinglesi sul continente guidati da Rinaldo di Boulogne, già vassallo della corona francese.
L’anno seguente, l’alleanza anglo-tedesco-fiamminga sembrò evidenziarsi in tutta la sua pericolosità con l’attacco su più direttrici che Giovanni e Ottone portarono ai territori francesi. Il re inglese si fece carico della direttrice meridionale, sbarcando a La Rochelle il 16 febbraio 1214 e invadendo l’Aquitania, mentre Ottone doveva agire nel Settentrione, valendosi degli appoggi fiamminghi per puntare direttamente su Parigi mentre l’avversario era occupato a sud.
Filippo non poté far altro che accorrere già in marzo nel Meridione ad arginare Giovanni; ma Ottone indugiava nelle Fiandre, in attesa di incrementare i suoi magri effettivi tedeschi con i mercenari pagati dal denaro inglese e di mettere d’accordo i principi fiamminghi, refrattari e incostanti alleati. L’invasione contestuale non ebbe luogo, e Filippo poté pertanto tornare a nord, affidando al figlio Luigi il compito di controllare i movimenti di Giovanni. All’erede al trono fu peraltro sufficiente avvicinarsi all’inizio di luglio a Roche-au-Moine, assediata dal re inglese, per indurre quest’ultimo alla fuga senza neanche preoccuparsi di portarsi dietro macchine d’assedio e salmerie.
Ottone diede avvio alla sua campagna solo il 12 luglio, raggiungendo Nivelles nel Brabante e poi marciando verso sud, nell’Hainault, puntando finalmente su Parigi. Ma Filippo era già pronto, con gli effettivi raccolti grazie alla leva feudale nella Francia centrosettentrionale: 7000 tra cavalieri e sergenti a cavallo e 15.000 fanti, che convennero a Péronne, nel Vermandois, oltre un centinaio di chilometri a nord di Parigi.
Né il re di Francia si limitò ad aspettare l’avversario. Optò infatti per una strategia offensiva, muovendo alla volta delle Fiandre, teatro di incessanti e altalenanti scontri negli anni precedenti, prima che gli avversari potessero penetrare in profondità nel territorio parigino. Il 26 luglio espugnò Tournai, ma poi si accorse che Ottone era già più a sud, all’altezza di Valenciennes, e tornò subito indietro, prendendo la via verso occidente, in direzione di Lilla, per aggirare a sua volta il nemico. Ma Ottone non voleva lasciarselo scappare, e virò anch’egli verso ovest, col risultato che i due eserciti si trovarono a ridosso l’uno dell’altro appena a est del fiume Marcq; era il 27 luglio, una domenica, e il re francese non prevedeva uno scontro nel giorno dedicato a Dio, nel quale, come osservò uno dei suoi consiglieri, era male spargere sangue umano. Così, Filippo mostrò di voler passare a ovest del corso d’acqua, apparentemente per attestarsi in una posizione che gli permettesse di costituire uno sbarramento sulla strada di Parigi; a tale scopo si valse di un ponte situato in corrispondenza della cittadella di Bouvines, che affidò al lavoro dei genieri perché lo allargassero per permettere un più sollecito transito dei soldati.
Ottone pensò che l’avversario volesse semplicemente sottrarsi al combattimento. Questo lo confortava, al pari della sua superiorità numerica datagli dai suoi 18.000 fanti e 6000 tra cavalieri e sergenti a cavallo; strinse pertanto i tempi per arrivare a battaglia. Sebbene anche lui non si aspettasse di combattere quel giorno, tuttavia con gli alleati aveva già preso accordi per la spartizione del regno francese, e la prospettiva non lo spaventava più di tanto.
Rinviare il combattimento, anche per Filippo, non rappresentava più un’opzione praticabile. Non ce l’avrebbe mai fatta ad attraversare il fiume prima che l’intero esercito avversario gli fosse addosso, e la prospettiva di dover combattere con mezza armata di qua e mezza di là non era delle più entusiasmanti. Inoltre, la sua cavalleria era ben più rinomata di quella dell’avversario e, se non altro, il re di Francia era riuscito a raggiungere uno scacchiere dove il terreno aperto vicino al fiume avrebbe meglio assecondato la spinta delle sue unità a cavallo; almeno, questo è ciò che lascia intendere almeno una fonte, la Vita Odiliae.
Quando ebbe notizia che gli imperiali, «come una muta di cani arrabbiati dietro una preda», secondo le parole di un anonimo cronista francese, stavano già attaccando la sua retroguardia, costituita dagli uomini della Champagne e guidata dal visconte di Melun, Filippo inviò a sostegno il duca di Borgogna e diede ordine di arrestare il trasferimento delle truppe sulla sponda occidentale, che aveva già riguardato parte della fanteria; ormai ansioso di combattere quanto l’avversario, schierò subito l’esercito a battaglia, disponendo i balestrieri in prima linea, la fanteria in seconda e la cavalleria in terza, e costituendo un fronte di tre divisioni, «in onore della divina Trinità», dice un cronista.
Il sovrano assunse il comando diretto del centro, dove stazionava insieme a una settantina di cavalieri normanni, e all’orifiamma (fiamma d’oro), il vessillo dei re di Francia in quanto vassalli dell’abbazia di Saint Denis per un feudo nel Vexin, costituito da uno sciamito rosso con nappe verdi e un numero variabile di code. Filippo affidò quindi l’ala destra al vescovo di Senlis, Guerino, un templare, coadiuvato dal duca di Borgogna e dal conte Gualtieri di Saint-Pol, nonché dal conte di Melun con le sue unità reduci dalle scaramucce iniziali. Il responsabile della sinistra, costituita dai soldati del settentrione, fu Filippo di Beauvais, insieme al fratello, il conte Roberto di Dreux, e ai conti del Ponthieu e di Auxerre.

Un po’ sconcertato, Ottone si affrettò a disporsi a sua volta a battaglia, schierando le sue truppe man mano che sopraggiungevano, e ponendo la fanteria in prima linea. Anch’egli si pose al centro, accompagnato dallo stendardo con l’aquila imperiale e da Ugo di Boves, un capitano di ventura, dalle truppe tedesche e da quelle del Brabante e di Namur; affidò poi il fianco destro, costituito in gran parte da mercenari, a Guglielmo di Salisbury, fratello di Giovanni Senzaterra, e a Rinaldo di Boulogne, mentre la sinistra, formata in massima parte da fiamminghi, fu assegnata a un altro ex vassallo di Filippo, Ferrante di Fiandra. L’imperatore scomunicato aveva avuto perfino l’accortezza di far cucire croci sul petto e sul dorso dei suoi soldati, affinché si distinguessero dagli avversari una volta accesa la mischia.
Fu Filippo a dare avvio allo scontro, probabilmente quando l’esercito nemico non aveva ancora completato lo schieramento, con parte della fanteria ancora lungo la strada. Il primo attacco fu portato, a mattino avanzato e col sole alle spalle dei francesi, da un’unità di 300 sergenti a cavallo di Soissons, agli ordini del vescovo Guerino; costoro ebbero tutto l’agio di arrivare a ridosso dei cavalieri fiamminghi di Ferrante, i quali ritenevano di non doversi sporcare le mani affrontando combattenti di lignaggio inferiore al proprio. Gli uomini di Fiandra reagirono in ritardo, contrattaccando infine, al grido di «Morte ai francesi!» con lo stesso comandante, che diede ordine di puntare ad abbattere i cavalli avversari.
Intanto, il resto dell’ala francese, guidata da Gualtieri di Saint-Pol – che doveva fugare dubbi sulla sua lealtà –, intervenne a supporto dei commilitoni, mentre anche il resto dei due schieramenti arrivava al contatto con il fronte opposto. La mischia divenne così serrata che in più di un’occasione i fendenti delle spade calarono su appartenenti alla stessa armata. Comunque, l’intervento del conte di Saint-Pol permise ai francesi della destra di operare uno sfondamento, che portò il conte stesso oltre le linee avversarie. Questi ne approfittò per caricare da tergo i fiamminghi, rendendosi anche protagonista di azioni valorose, come il salvataggio di un suo amico prigioniero degli avversari, e stimolando l’emulazione del conte di Melun, che iniziò anch’egli a passare attraverso le linee fiamminghe.
Viceversa, negli altri due settori dello schieramento i francesi sembravano subire la superiorità numerica degli imperiali. I fanti di Ottone potevano fruire di una maggiore profondità, e ciò permise loro di vincere l’impatto con i francesi; inoltre, la maggiore estensione del fronte imperiale sulla destra consentì agli alleati di schiacciare anche il fianco nemico. Filippo si ritrovò così addosso i tedeschi, mentre la sua cavalleria, che avrebbe dovuto proteggerlo, era impegnata in una serie di scontri con i cavalieri avversari; sembrava dunque prossimo a realizzarsi l’obiettivo di Ottone, che aveva ingaggiato battaglia col preciso scopo, condiviso dai suoi maggiori alleati e consiglieri, di raggiungere Filippo e provocarne la morte.
Il re francese fu così alla mercé dei fanti germanici, che lo disarcionarono e lo aggredirono a più riprese; solo la robustezza dell’armatura consentì a Filippo di resistere ai colpi avversari fino a quando non sopraggiunse la sua guardia del corpo. Il re dovette probabilmente la vita al suo portastendardo, Galone di Montigny, che si mise ad agitare come un forsennato la sua bandiera, col giglio dorato in campo azzurro – che solo allora irrompeva sul palcoscenico della Storia –, per attirare l’attenzione dei cavalieri francesi.
Pare di poter individuare in quest’episodio la chiave di volta del combattimento. La riscossa della guardia di Filippo consentì al re di rimontare a cavallo e di condurre un contrattacco alla testa della cavalleria pesante; i picchieri tedeschi si erano ormai spinti talmente in profondità da aver perso qualunque parvenza di coesione, e si fecero cogliere del tutto impreparati. Anzi, in breve tempo furono proprio i francesi a spingersi fino alle linee occupate dall’imperatore; in particolare un cavaliere, Pietro Mauvoisin, si fece strada tra i tedeschi e arrivò proprio davanti a Ottone, riuscendo perfino ad afferrare le briglie del suo cavallo e a tenerlo bloccato per un bel pezzo. Un altro soldato di Filippo, tale Girardo Scrofa, cerco di trafiggere l’imperatore al petto, ma anche in questo caso l’armatura salvò il comandante supremo di uno dei due eserciti. Il colpo finì per prenderlo il suo cavallo, che si accasciò a terra obbligando Ottone a cercarne un altro, prontamente offertogli da tale Girardo di Hostmar; questi, per giunta, si frappose tra il suo signore e i sopravvenenti francesi, ritardandone l’inseguimento.

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Tratto da "Le grandi battaglie del Medioevo" di Andrea Fedriani.

Esortati dallo stesso Filippo, i cavalieri transalpini continuarono però a star dietro all’imperatore, e nuovamente lo raggiunsero; Guglielmo di Barres, famoso campione di tornei, tentò di disarcionarlo, ma Ottone riuscì a resistere, fino a quando l’intervento di alcuni sassoni non gli permise di trarsi d’impaccio e di abbandonare definitivamente il campo di battaglia. Naturalmente, il suo esempio infranse qualunque volontà di resistenza in diversi settori del suo esercito, soprattutto in quelli dove gli imperiali si trovavano già a mal partito, come al centro e a sinistra. Molti si diedero alla fuga, come il mercenario Ugo di Boves, altri furono sopraffatti dal nemico e caddero sotto i suoi colpi, altri ancora, come Ferrante di Fiandra ed Enrico di Brabante, si ritrovarono prigionieri; il collasso imperiale iniziò allora, forse a un’ora dall’inizio del combattimento, secondo una fonte, a tre, a dire di un’altra.
A destra, invece, gli anglo-fiamminghi non ne vollero sapere di cedere. Col supporto del fratello del re inglese, l’inesauribile Rinaldo di Boulogne conduceva fin dall’inizio della battaglia continui assalti alle file avversarie, per poi riparare dietro la cintura difensiva allestita da 700 picchieri disposti in cerchio; costoro gli permettevano ogni volta di rifiatare aprendo dei varchi per farlo entrare e operando da schermo con le lance nei confronti degli assalti nemici. Decisivo fu l’intervento del vescovo di Beauvais, che arrivò a disarcionare il conte di Salisbury con un colpo di mazza ferrata, lasciando poi che un altro cavaliere si prendesse il merito dell’impresa.
A combattere rimase solo l’irriducibile Rinaldo, consapevole che il suo cambiamento di campo e le successive imprese contro il re di Francia non gli lasciavano speranza di perdono. Tuttavia, man mano che il tempo trascorreva, le sue forze si assottigliavano, mentre sempre maggiori erano quelle che Filippo poteva mandargli contro, e che arrivarono ad assommare 3000 combattenti. Determinato a cercare la morte, Rinaldo si ridusse a uscire dal cerchio di fanti con soli cinque cavalieri, e con la prospettiva di affrontare pressoché l’intero esercito avversario. Finì disarcionato e immobilizzato dalla carcassa del suo cavallo, ma prima che la soldataglia francese potesse finirlo il vescovo Guerino, per solidarietà di casta, lo dichiarò prigioniero; Filippo non l’avrebbe fatto giustiziare, ma di prigione non sarebbe uscito più.
Non si hanno notizie precise sul numero di caduti. I cronisti ci forniscono un «resoconto da Iliade», secondo le parole di Duby, un racconto fatto di singolar tenzoni tra nobili, gli unici a godere del palcoscenico della Storia. Le perdite tra la soldataglia, comunque, dovettero essere elevate, poiché di sergenti a cavallo ne rimasero sul campo, da parte alleata, ben 170, una cifra assai consistente; di veri e propri cavalieri, tuttavia, ne caddero solo un paio, in un’epoca in cui il mutuo rispetto tra nobili imponeva la tendenza a dimostrare la propria superiorità sull’avversario costringendolo alla resa, semmai per ricavare un riscatto dalla sua prigionia. Non a caso, altri 140 cavalieri e un migliaio di fanti finirono nelle mani dei francesi – che, a quanto risulta, ebbero perdite relativamente lievi –, i quali allestirono un imponente corteo trionfale fino a Parigi, esibendo un numero di prigionieri quale non si era mai visto.
La battaglia di Bouvines screditò l’imperatore ma anche l’impero. Scomu-nicato, sconfitto, ridicolizzato dalla sua fuga, Ottone IV fu deposto l’anno seguente e uscì dal novero dei protagonisti della Storia, per morire quattro anni dopo, braccato e solo; ma il suo epilogo rappresentò anche il fallimento del suo intento riformista, che lo aveva trasformato nel più acerrimo avversario della Chiesa; ecco cosa gli fa dire Guglielmo il Bretone nella sua Filippide:
 
Perché tanta gente che prega? La maggior parte non serve Iddio: rimandiamola a lavorare. Lasciamo solo due persone nelle chiese piccole e quattro in quelle grandi. Saranno più che sufficienti. E quei pochi che restano, vivano, come loro si addice, in vera povertà. Così potremo spartirci le ricchezze della Chiesa.
 
L’impero, invece, resse ancora per qualche decennio grazie alla straordinaria personalità di Federico II, che però agì più come un sovrano regionale che come monarca universale. Poi, decadenza e interregno, prima della cauta e graduale rinascita con gli Asburgo.
Non se la cavò meglio Giovanni Senzaterra, la cui somma incapacità non gli aveva neanche consentito di partecipare alla battaglia decisiva; nei due anni che gli restavano da vivere, il re inglese dovette sottoscrivere, con la pace di Chinon, le perdite territoriali che gli aveva inflitto Filippo, e con la Magna Charta, la perdita del potere assoluto, che da allora i sovrani inglesi dovettero condividere con i baroni, aprendo la via alla monarchia costituzionale.
Chi invece trasse da Bouvines i vantaggi più cospicui fu Filippo II, da allora soprannominato “Augusto”, “re di Francia” e non più “dei franchi”. La vittoria gli permise di completare le annessioni al suo regno con ulteriori campagne lungo il Reno, triplicando il territorio che aveva ricevuto dal padre, che trasformò da un agglomerato di feudi in uno stato centralizzato, inaugurando il secolo di fulgore della Francia medievale. Inoltre, egli non aveva solo vinto, ma aveva anche difeso la Chiesa da un imperatore scomunicato il quale, per giunta, aveva osato attaccare di domenica. E poco importa che Filippo avesse accettato ben volentieri la battaglia, o che anni prima fosse andato alla crociata solo per tornarsene in tutta fretta a casa dopo aver constatato che la difesa della fede comportava qualche sforzo in più del previsto. La sua vittoria diede avvio all’epoca dei re “cristianissimi” – e perfino santi, come Luigi IX –, dei Capetingi visti come il naturale sostegno del papato, tanto da fare di quest’ultimo, con il trasferimento della sede pontificia ad Avignone nel XIV secolo, una propaggine della corona francese.
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