LA BATTAGLIA DI CAMPALDINO - 11 GIUGNO 1289 - SAN BARNABA

Campagne militari, guerre e battaglie
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LA BATTAGLIA DI CAMPALDINO - 11 GIUGNO 1289 - SAN BARNABA

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La battaglia si svolse l’11 Giugno del 1289 nella piana alluvionale dell’alto Casentino estesa sulla riva sinistra dell’Arno poichè i Guelfi decisero di sorprendere gli avversari passando per il Passo della Consuma, tragitto montano tutt’altro che agevole nel XIII secolo, invece che scendere in Valdarno, naturale percorso da Firenze verso Arezzo. Consapevoli della loro inferiorità numerica ma anche del loro superiore addestramento gli aretini riposero la possibilità di ottenere la vittoria conducendo un deciso attacco al centro dello schieramento avversario furono gli aretini, com’era uso all’epoca, a mandare il guanto di sfida agli avversari per chiedere battaglia. I fiorentini, accettata la sfida, schierarono le truppe in tre file compatte con le ali protette da speciali fanti dotati di grandi scudi (palvesi) mentre gli aretini si disposero secondo la consueta disposizione a tre file: la prima formata dai fenditori a cavallo; la seconda dal resto della cavalleria e la terza dai fanti. La battaglia iniziò con il subitaneo attacco della cavalleria ghibellina diretto al cento dello schieramento nemico con l’evidente scopo di spezzarne le file prima che il numero delle forze avversarie prendesse il sopravvento. In effetti la carica dei fenditori e delle unità appiedate che seguivano al grido di San Donato Cavaliere (il patrono di Arezzo) produsse un impatto dirompente penetrando profondamente nella formazione guelfa che fu costretta ad arretrare. Ciò nonostante le file fiorentine riuscirono a ricompattarsi e quindi a prendere lentamente il sopravvento bloccando il nemico tra le ali di fanteria. Il definitivo colpo di grazia alle truppe ghibelline fu inferto dal fiorentino Corso Donati che, in contrasto con l’ordine ricevuto di mantenere la posizione, al comando della cavalleria di riserva guelfa di Lucca e di Pistoia attaccò al fianco i nemici già in mischia. Dal lato opposto il comandante della riserva aretina Guido Novello non fu altrettanto valoroso e vista la mala sorte, fuggì nel suo castello. La battaglia per i ghibellini era perduta, fortunatamente per loro i resti dell’esercito trovarono rifugio entro le mura di Arezzo grazie ad un forte temporale che ostacolò l’inseguimento dei vincitori. La vittoria ottenuta a Campaldino non fu determinante per la risoluzione del conflitto tra i Fiorentini ed i Guelfi di Toscana contro i Ghibellini poichè i vincitori, invece di proseguire rapidamente verso Arezzo, indugiarono nell’assedio dei castelli del Casentino dando così tempo ai Ghibellini per riorganizzarsi. L’evento storico di Campaldino è ricordato da una colonna eretta nel 1921 sulla strada statale (al bivio verso Pratovecchio). Un’iscrizione sul monumento (Inferno XXII, 4-5) ricorda che Dante Alighieri partecipò alla battaglia come feditore a cavallo guelfo, cioè nel ruolo di cavaliere schierato nelle prime file incaricate di iniziare lo scontro con il nemico.

Alcuni numeri:
Nella piana si affrontano l’armata Guelfa composta da Fiorentini, Pistoiesi, Lucchesi e Pratesi e comandata da Amerigo di Nerbona e l’armata Ghibellina composta da Aretini e comandata dal Vescovo Guglielmino degli Ubertini. L’armata Guelfa conta 1900 cavalieri e 10000 fanti, mentre l’armata Ghibellina conta di 800 cavalieri e 10000 fanti. Per l’armata Guelfa è di riserva la cavalleria e fanteria di Pistoia e Lucca al comando di Corso Donati composta da 200 cavalieri ed un numero imprecisato di fanti. Per l’armata Ghibellina è di riserva la cavalleria di Guido Novello composta da 150 cavalieri. A Campaldino al centro della prima linea dei fenditori Guelfi c’era un giovane ragazzo che combatteva per i Vieri de’ Cerchi dal nome Dante Alighieri.

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Battaglia di Campaldino

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La battaglia di Campaldino si combatté l'11 giugno 1289 fra i Guelfi, prevalentemente fiorentini, e Ghibellini, prevalentemente aretini.

Preparazione dell'esercito guelfo
Le insegne di guerra furono consegnate il 13 maggio, a Firenze. Fu preparato un campo presso Badia a Ripoli con l'intenzione di muovere verso Arezzo passando per il Valdarno. La prima strategia decisiva fu quella di valicare, invece, il passo in prossimità dell'attuale Consuma e procedere verso Arezzo passando dal Casentino. Fu una decisione inaspettata e rischiosa, dovuta in gran parte ai suggerimenti degli aretini di parte guelfa esuli a Firenze. Le vie di accesso al Casentino erano impervie, generalmente sorvegliate e sormontate da castelli nemici come Castel San Niccolò, Montemignaio, Romena. La mattina del 2 giugno i Guelfi si misero in marcia e misero in atto questa decisione: guadarono l'Arno fra Rovezzano e Varlungo e si diressero verso Pontassieve. Quindi presero a scalare alacremente il monte che porta all'attuale Consuma. Prima di giungere in Casentino bivaccarono in località Fonte allo Spino, dove le truppe trovarono ristoro. I condottieri erano Guillaume de Durfort e Aimeric de Narbonne, coadiuvati da Vieri de' Cerchi, Bindo degli Adimari, Corso Donati e Barone dei Mangiadori.

Preparazione dell'esercito ghibellino
Appena giunta la notizia della via percorsa dai Guelfi, i Ghibellini dovettero agire di conseguenza e si misero in marcia da Arezzo verso Bibbiena, per cercare di difendere i castelli dei Guidi e degli Ubertini. I capi Ghibellini erano Guglielmino degli Ubertini, vescovo di Arezzo (armato di mazza per non contravvenire al medievale precetto che gli uomini di chiesa non potessero spargere sangue sui campi di battaglia), coadiuvato da Guglielmino Ranieri dei Pazzi di Valdarno, detto Guglielmo Pazzo, da Guidarello di Alessandro da Orvieto, Guido Novello dei Conti Guidi, Bonconte da Montefeltro e Loccio, suo fratello. Molti di questi erano reduci dai combattimenti vittoriosi del 1288 contro Siena. Ad Arezzo erano convenute truppe ghibelline da tutta Italia.

Il giorno della battaglia
La scelta di passare dal passo dell'attuale Consuma e dal Casentino si dimostrò vincente per la parte Guelfa. I castelli casentinesi, colti di sorpresa, non si opposero al passaggio dell'esercito e questo dilagò nelle vallate sottostanti. I ghibellini non avevano altra scelta che dare battaglia in campo aperto per non trovarsi assediati nei castelli e per fermare il saccheggio delle campagne. Il vescovo di Arezzo inviò dunque il guanto di sfida ai capitani Guelfi che furono felici di accettare.
Il luogo individuato fu la Piana di Campaldino, fra Poppi e Pratovecchio nelle vicinanze di una chiesetta chiamata Certomondo, sul lato sinistro dell'Arno. I capitani scelsero le strategie e le tattiche. I Guelfi, che giunti sul posto prima degli aretini avevano scelto la posizione che permetteva di attaccare in discesa, pianificarono una tattica inizialmente difensiva, ponendo i carri con le masserizie come estrema linea di difesa. Vieri dei Cerchi aveva il compito di individuare coloro che dovevano sostenere il primo e più violento assalto. Giovanni Villani racconta che questi, vedendo poco entusiasmo, si offrì personalmente pur essendo anziano e menomato ad una gamba. I Ghibellini scelsero di attaccare al centro lo schieramento nemico e preparò dodici "paladini" per trascinare i Feditori, cioè i cavalieri della prima linea. Guido Novello comandava la cavalleria di riserva Ghibellina. Corso Donati quella Guelfa. La mattina di sabato 11 giugno, San Barnaba, cominciò la battaglia. I Ghibellini scatenarono una prima ondata di trecento Feditori al galoppo comandata da Bonconte da Montefeltro, seguiti da trecentocinquanta cavalieri al trotto. La fanteria seguiva di corsa.
I Feditori Guelfi di Vieri dei Cerchi serrarono le file e ricevettero l'urto in pieno. Furono quasi tutti disarcionati ma chi aveva conservato l'integrità fisica continuò il combattimento appiedato, con le asce, le spade e le mazze. I Feditori Ghibellini si incunearono profondamente nelle schiere nemiche. Lo scontro divenne disordinato: si frantumò in zuffe e duelli. Entrarono in azione i balestrieri. I guelfi, ben protetti dalle mura mobili dei palvesi, tiravano a colpo sicuro da distanza ravvicinata. I ghibellini tiravano da lontano, con efficacia molto minore, anche perché la giornata era secca e si alzava la polvere.
La cavalleria guelfa era arretrata ma le ali dello schieramento, composte da fanteria avevano retto. A quel punto cominciarono a chiudersi a tenaglia accerchiando cavalleria e fanteria ghibellina. Un certo numero di cavalieri guelfi disordinati dalla carica riuscì a ritirarsi e a prepararsi nelle retrovie a continuare il combattimento. I balestrieri di entrambe le parti intensificarono il tiro di quadrelli e verrettoni. Aimeric de Narbonne, Gherardo Vetraia dei Tornaquinci e Guglielmo de Durfort guidarono una contro carica di cavalleria al centro dello schieramento. Guglielmo di Durfort cadde nel tentativo, colpito da un quadrello. Anche Aimeric de Narbonne fu ferito al volto. I cavalieri ghibellini si avventarono verso il Tornaquinci, che reggeva le insegne. Le sorti della battaglia in quel momento erano veramente incerte. Fu decisivo il comportamento delle riserve. Corso Donati con un atto di insubordinazione caricò per "fedire" con i suoi cavalieri della riserva quindi freschi. Guidò la carica verso il fianco destro dei ghibellini con grandissima efficacia perché separò i cavalieri dai fanti. Guido Novello, che osservava la mischia dalla chiesa di Certomondo non lo imitò: giudicò persa la battaglia e si ritirò coi suoi cavalieri verso il castello di Poppi.
La battaglia era decisa. La cavalleria ghibellina era accerchiata e i fanti, tagliati fuori, erano disorientati. Guglielmino degli Ubertini affrontò i nemici con i suoi fanti e fu abbattuto dopo un aspro combattimento. Caddero anche Bonconte da Montefeltro e Guglielmo Pazzo. Cominciò la fase conclusiva della battaglia: quella della "caccia" per prendere ostaggi da scambiare con riscatti e per sottrarre le insegne, l'equipaggiamento e le armi ai nemici. Nel tardo pomeriggio scoppiò un temporale estivo. Fu dato il segnale di ritirata per sospendere la caccia.
La battaglia era finita. Si cominciarono a raccogliere e a cercare di riconoscere i caduti che furono moltissimi: da parte ghibellina si contarono circa 1700 morti; da parte guelfa se ne contarono circa 300. Vennero sepolti in grandi fosse comuni in prossimità del Convento di Certomondo. All'interno della stessa chiesa si è sempre ritenuto fosse stato sepolto il vescovo Guglielmo Ubertini e il recente ritrovamento di resti ossei sotto il pavimento della chiesa, all'interno di un sepolcro, sembra avvalorare tale ipotesi.
Furono condotti, inoltre, più di mille prigionieri a Firenze che in parte furono rilasciati in cambio di un riscatto. Chi non fu riscattato morì in breve tempo nelle prigioni fiorentine: furono alcune centinaia. Questi furono sepolti a lato della via di Ripoli, a Firenze, in un luogo che ancora oggi si chiama "Canto degli aretini".

La fama della battaglia
La battaglia di Campaldino si è trasformata presto da fatto storico a luogo letterario. Chi stendeva le cronache nell'epoca contemporanea e subito successiva alla battaglia ne parlò diffusamente. La tradizione popolare avvolse questi eventi di un alone romantico e leggendario. Dante Alighieri, che partecipò alla battaglia fra i Feditori di Vieri dei Cerchi, dette il suo contributo riportando parte della sua esperienza nella Divina Commedia. Da queste fonti "letterarie" i fatti ci giungono spesso distorti, come accade nelle novelle di Emma Perodi, ambientate in un Casentino mitico e goticheggiante dove Aimeric di Narbonne muore in battaglia e il suo fantasma si aggira ancora, inquieto. Il luogo della battaglia è oggi ricordato da un monumento, detto "Colonna di Dante".

Diorama della battaglia di Campaldino, Museo della Casa di Dante, Firenze
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i due schieramenti prima dell'attacco ghibellino
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direzione dell'attacco ghibellino
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terza fase della battaglia: i guelfi chiudono e fuga delle riserve ghibelline di Guido Novello
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http://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Campaldino
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Campaldino 1289

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Tratto da "Le grandi battaglie del Medioevo" di Andrea Fedriani.

L’ascesa di Firenze

Il conflitto tra gli Angioini e gli Svevi per la Sicilia era stato fulmineo, tutto sommato. Quello tra gli Angioini e gli Aragonesi, che approfittarono dello scontento dei siciliani per far valere la parentela della casa reale con Manfredi, si trascinò per un ventennio, durante il quale il resto della penisola non dovette più preoccuparsi dell’invadenza dei francesi. Sul finire del XIII secolo si delineavano in Italia almeno cinque scacchieri principali, corrispondenti ad altrettante evoluzioni politiche, che si sarebbero mantenuti fino alla fine del Medioevo: il sud era spartito tra due monarchie feudali, l’una iberica e l’altra francese, mentre nel nord la tendenza generale era alla formazione di tirannie di carattere espansionistico, che sfociavano in signorie ereditarie. Il centro, era diviso tra gli stati pontifici, nei quali i comuni tendevano ad approfittare del blando giogo papale per condurre una politica indipendente, e la libera Toscana, caratterizzata da repubbliche popolari con una propensione all’aggregazione sotto la leadership di Firenze.
La pace generale promossa dal vicario papale, il cardinale Malabranca, produsse infatti nello scacchiere toscano la formazione di una grande lega che riuniva comuni spesso in lotta tra loro, come Firenze, che ne aveva il comando, e Siena, ed era dotata di un piccolo esercito professionale permanente. Solo Pisa, tra i centri principali, ne rimase fuori e anzi ne fu avversaria; ma dal 1284 la città marinara, drammaticamente sconfitta alla Meloria da Genova, imboccò il viale del tramonto e, condotta in modo tirannico dal filoguelfo conte Ugolino della Gherardesca, non costituì più un polo politico ed economico significativo.
Col tempo, il testimone del partito ghibellino fu raccolto da Arezzo, verso la quale andarono confluendo i fuoriusciti fiorentini e le famiglie feudali escluse dal governo guelfo, come i Pazzi, gli Ubaldini e soprattutto gli Umbertini; questi ultimi avevano, di fatto, la guida della città, grazie all’autorevolezza del vescovo Guglielmino, un personaggio che «sapeva molto meglio gli uffici della guerra che della Chiesa», secondo il Villani.
Le prime avvisaglie di guerra si ebbero nel 1286, con una vittoria dei senesi in Val di Chiana sulle truppe del vescovo aretino, alla quale seguì la stipula di una tregua. Poi Guglielmino dovette affrontare forti dissensi sul fronte interno, finendo esiliato dal capitano del popolo, il lucchese Guelfo dei Lombrichi, il cui regime durò peraltro pochissimo. Nel giugno 1287 i ghibellini, infatti, recuperarono il controllo della città in collaborazione con i guelfi, salvo poi liberarsi immediatamente dopo di costoro dando luogo a una diaspora che offrì una chiaro pretesto alla lega guelfa.
Quest’ultima si preparò alla guerra assoldando un altro centinaio di cavalieri mercenari, oltre ai 500 che costituivano la sua forza permanente, e ad altri 300 che si impegnò ad ingaggiare in seguito. Ma Arezzo era già pronta per il conflitto nel 1288 e, alla fine dell’inverno, 500 cavalieri e forze di fanteria devastarono sia il territorio fiorentino attaccando Montevarchi, sia quello senese, insediando un podestà ghibellino a Chiusi e incendiando Buonconvento.
La reazione della lega si fece attendere, e solo in maggio i guelfi allestirono un esercito di imponenti proporzioni – «la più grande e ricca oste che facessono i Fiorentini dappoich’e’ guelfi tornarono in Firenze» –, 2600 cavalieri e 12.000 fanti al comando del podestà Antonio da Fusseraca di Lodi. Arezzo non fu in grado di opporsi alla marcia dell’armata avversaria, che in tre settimane conquistò un gran numero di castelli nel territorio aretino, prima di porre direttamente l’assedio alla città. I ghibellini sembravano spacciati, ma una tempesta distrusse il campo della lega, e l’esercito guelfo si disperse prima della fine di giugno.
I senesi, che erano in 3400, puntarono sulla Val di Chiana, ma il 26 giugno vennero sorpresi a Pieve al Toppo dalle forze aretine, guidate da Guglielmo dei Pazzi di Valdarno e da Buonconte di Montefeltro, figlio del celebre condottiero Guido da Montefeltro, che inflissero loro una franca sconfitta. La riscossa ghibellina ebbe riflessi soprattutto a Pisa, dove cadde il conte Ugolino, imprigionato e lasciato morire di fame con la sua famiglia, e incoraggiò gli aretini, che adottarono una strategia offensiva assediando in autunno il castello di Corciano e devastando il territorio fiorentino. Si sfiorò la battaglia campale con le forze della lega, che però non arrivarono a fare di più che devastare a loro volta il territorio aretino.
Tuttavia, nel corso dell’inverno si ebbero contatti informali tra Guglielmino degli Umbertini e alcuni esponenti guelfi fiorentini con cui il vescovo aveva buoni rapporti; ne scaturì un trattato segreto sottoscritto nel febbraio 1289, in base al quale il prelato cedeva a Firenze, in cambio di soldi, tanti soldi, Bibbiena e altre roccheforti in territorio aretino. Gli accordi non furono resi noti, se non quando fu chiaro che la guerra sarebbe scoppiata comunque.
Quando le operazioni militari ripresero, nella primavera seguente, gli aretini si fecero ancor più spregiudicati, spingendosi fino a una decina di chilometri da Firenze; con l’aiuto di alcuni ghibellini fiorentini incendiarono San Donato in Poggio, e vi furono perfino degli scontri appena fuori le mura della città. A Firenze si ritenne che la misura fosse colma, e podestà, capitano e priori intensificarono i preparativi per la guerra. Oltre a cacciare i ghibellini dalla città, ad assoldare altri mercenari e a diramare l’ordine di mobilitazione generale per la lega, il comune si mise a cercare un comandante sperimentato cui affidare la conduzione della campagna.
Tramontata la candidatura di Baldovino da Soppini, i maggiorenti puntarono su Mainardo Pagani da Susinana, signore di Imola e Faenza, paradossalmente a capo dei ghibellini, ma solo in Romagna. Ma il 2 maggio Carlo II d’Angiò, successo al padre Carlo I sul trono di Napoli e nella guerra contro l’Aragona, sostò a Firenze prima di ripartire alla volta di Rieti, per incontrare il papa e farsi incoronare sovrano di un regno che aveva in parte già perso. Ripartì dopo tre giorni, scortato da un robusto contingente fiorentino fino ai confini col territorio senese, non senza aver dato egli stesso un condottiero alla lega.
Sembra che chiederglielo siano stati gli stessi fiorentini; ad ogni modo, il sovrano non si lasciò scappare l’occasione di assumere il controllo di quello che si presentava come lo scontro decisivo tra guelfi e ghibellini in Toscana, e scelse Aimerico da Narbona, un provenzale giovane e non molto esperto, cui affiancò il più sperimentato Guglielmo di Durfort, dotandolo anche di un seguito di un centinaio di cavalieri. Subito dopo, il 13 maggio, la lega tenne consiglio a Empoli, e diramò le modalità di conduzione della guerra, stabilendo una tassazione del 5% sul censo.
Poi sorse la questione strategica dell’invasione del territorio aretino, che offriva almeno due alternative: il Casentino, a nord dell’Arno con una direttrice est/nord-est, o la Valdarno, a sud del fiume in direzione sud/est. Non fu una scelta facile, anche perché a dispetto della conduzione affidata ai francesi, erano in molti, tra i cittadini e i cavalieri più influenti, a sentirsi in diritto di esprimere un’opinione e ad avere il peso per farla valere. Prima di chiunque altro, per esempio, c’era il podestà, Ugolino dei Rossi da Parma, cui spettava il comando nominale dell’esercito; poi lo stesso Mainardo Pagani, Vieri dei Cerchi, Orlando da Chiusi.
Lo stato maggiore si riunì a San Giovanni e, dopo estenuanti discussioni, deliberò di procedere per il Casentino; si trattava, in verità, di uno scacchiere di marcia più difficoltoso, ma era pervicacemente sostenuto dai fuoriusciti aretini con possedimenti in quella zona, che si auguravano di veder protetti dalla presenza guelfa; inoltre, il territorio prescelto era oggetto, con Bibbiena, della trattativa mancata con il vescovo aretino, e quindi rappresentava il settore del quale, più di ogni altro, i fiorentini desideravano assumere il controllo strategico. Infine, era territorio dei Guidi, con i quali senesi e fiorentini avevano molti conti in sospeso.
La dichiarazione di guerra fu sancita dalla esposizione delle insegne di guerra – tra le quali spiccavano quella reale di Francia, gigli d’oro in campo azzurro, e il gonfalone bianco con giglio rosso di Firenze – a Badia di Ripoli, a sud dell’ Arno, «facendo vista d’andare per quella via sopra la città d’Arezzo», specifica il Villani. Invece il 2 giugno l’esercito, condotto da 600 cavalieri «i meglio armati e montati ch’uscissono anche di Firenze» uscì dalla città al suono delle campane. Tra le sue schiere c’era anche Dante Alighieri, allora ventiquattrenne, che avrebbe poi narrato la sua personale esperienza nello scontro con gli aretini in una lettera perduta, ma utilizzata nel XV secolo da Leonardo Bruni per la biografia del poeta, che a proposito di Campaldino scriveva: «Mi trovai non fanciullo nelle armi, dove ebbi temenza molta, e nella fine allegrezza grandissima per li vari casi di quella battaglia».
L’armata fiorentina marciò alla volta di Pontassieve, alla confluenza tra Arno e Sieve, fermandosi il 7 al Monte al Pruno, per attendere i contingenti inviati dalle altre città della lega. Arrivarono da tutta la Toscana, «e di Lucca v’ebbe 150 cavalieri; e di Prato 40 cavalieri e pedoni; di Pistoia 60 cavalieri e pedoni; e di Siena 120 cavalieri; e di Volterra 40 cavalieri; […] e di Samminiato, e di Sangimignano, e di Colle, di ciascuna terra v’ebbe a cavallo e a piè», scrive Villani, mentre Dino Compagni ricorda la presenza, a capo delle forze pistoiesi, del famigerato Corso Donati, «un cavaliere dalla somiglianza di Catellina romano, ma più crudele di lui». Contribuì anche la Romagna, con Bologna in testa (il solo Mainardo Pagani condusse 300 fanti e 20 cavalieri), portando gli effettivi guelfi a 10.000 fanti e 1900 cavalieri.
La marcia era stata tutt’altro che spedita, in mezzo alle alture e i boschi del Casentino, con strade strette e rovinate, e tale continuò a essere nei giorni seguenti fino al 9, quando l’armata si fermò a Borgo della Collina, in prossimità del passo della Consuma che immetteva nella pianura di Campaldino. Quella che sarebbe stata il teatro della battaglia era una valle compresa tra i castelli di Romera e di Poppi, e una chiesa, di Certomondo, costruita a fianco del secondo caposaldo per celebrare la vittoria ghibellina a Montaperti.
Poco oltre erano già attestati i ghibellini. I lenti movimenti dell’esercito guelfo aveva dato infatti modo agli aretini di allestire a loro volta un esercito di 8000 fanti e 800 cavalieri, guidati dal vescovo Guglielmino, ma anche da rinomati cavalieri e condottieri, come Buonconte di Montefeltro e suo fratello Loccio – il cui padre Guido era nel frattempo divenuto signore di Pisa –, Guglielmino di Ranieri dei Pazzi di Valdarno, detto Guglielmo Pazzo, e suo fratello Ranieri di Ranieri, il conte Guido Novello dei Guidi, podestà di Arezzo. Anche quella ghibellina era una coalizione, sebbene di proporzioni minori rispetto a quella guelfa. Erano infatti presenti anche cavalieri senesi, come Uffredo degli Uffredi, marchigiani come Francesco da Sinigaglia, ed esuli fiorentini, come gli Scolari, gli Obriachi, i Lamberti e anche gli Uberti, tra i quali Neri Piccolino il giovane, nipote di uno dei protagonisti di Montaperti, Farinata.
Nell’arco di un paio di giorni l’armata aretina si era portata all’altezza di Bibbiena, attraversando l’Arno ad Arcena e attestando un’avanguardia nella piana di Campaldino. I guelfi iniziarono a sciamare nella valle nel corso del 10 giugno, accampandosi presso Poppi dopo essere scesi dal valico, determinati a schiacciare il nemico e resi fiduciosi dal numero rilevante delle loro schiere. Tutt’altro spirito animava invece le schiere ghibelline, dove il vescovo Guglielmino preferì inviare Buonconte da Montefeltro in avanscoperta per verificare l’entità delle forze nemiche. Questi tornò scoraggiato, suggerendo una ritirata strategica, sollevando però le ire del prelato, che lo definì indegno della stirpe cui apparteneva. «Se anche riuscirete a seguirmi dove arriverò, non uscirete vivo», avrebbe risposto Buonconte indignato, secondo Benvenuto da Imola, manifestando l’intenzione di buttarsi a capofitto contro il nemico per fugare ogni dubbio sul suo coraggio.

Guglielmino era influenzato dall’opinione corrente dei suoi compaesani, i quali non avevano un’alta opinione dei fiorentini come soldati, convinti che, «fossono due cotanti cavalieri di loro, ma dispregiandoli, dicendo, che si lisciavano come donne, e pettinavano le zazzere, e gli avevano a schifo e per niente», scrive il Villani. Il vescovo non esitò pertanto a lanciare il guanto di sfida ad Aimerico di Narbona, dando così avvio allo schieramento a battaglia delle due armate. I guelfi si disposero a mezzaluna, con due schiere laterali di pavesai, dietro i quali si posizionarono picchieri, balestrieri, arcieri e anche i più giovani combattenti armati di fionda o di soli sassi. Al centro, in linea più arretrata, schierò il grosso della fanteria, affiancata alle ali dalla cavalleria, dietro la quale era presente un’altra fila di fanti a guardia delle salmerie. Ancor più indietro si predispose una riserva di cavalieri, mentre a Corso Donati fu affidato un contingente di 200 fanti e cavalieri lucchesi e pistoiesi sull’estrema sinistra, con il compito di intervenire nello scontro solo su indicazione del comando supremo, probabilmente come risorsa risolutiva per aggirare il nemico.
In prima linea, tra le due ali di pavesai, i guelfi scelsero 150 feditori «de’ migliori dell’oste», ovvero i più valenti cavalieri cui fu affidato il compito di aprire lo scontro per scompaginare lo schieramento avversario. Almeno in venti, tra costoro, furono creati cavalieri per l’occasione, ma il rischio che comportava l’assunzione di un tale onere fece esitare molti di coloro che, nei giorni della dichiarazione di guerra, si erano mostrati più bellicosi; fu necessario l’esempio di Vieri dei Cerchi, ferito a una gamba e disposto a rischiare figli e nipoti, perché gli altri nobili si offrissero per far parte del contingente d’urto, che finì per comprendere anche Dante Alighieri: «Corridor vidi per la terra vostra / o aretini», afferma il poeta nell’Inferno, che scrisse proprio durante il suo esilio ad Arezzo, anni dopo la battaglia.
Gli aretini, invece, di feditori ne scelsero 300, che divisero in dodici squadre da 25 uomini ciascuna, al comando di un capitano detto “paladino”. Per il resto, adottarono una disposizione pressoché speculare, sebbene non convessa, con arcieri e balestrieri ai lati dei feditori, cavalleria in seconda linea e fanteria in terza, oltre a un contingente di riserva di 150 uomini al comando del conte Guido Novello, all’estrema destra proprio di fronte a Corso Donati.
Dino Compagni riferisce di un curioso infortunio occorso al vescovo Guglielmino prima della battaglia. Nel vedere la prima linea guelfa schierata dietro i pavesi, il settantenne prelato, senza dubbio miope, avrebbe chiesto: «Quelle, che mura sono?», per sentirsi rispondere «I palvesi de’ nemici». Inoltre Guglielmo Pazzo, per sottrarlo alla caccia all’uomo cui i guelfi avrebbero sottoposto il loro inveterato nemico, offrì al vescovo di scambiarsi le insegne, e questi non si fece pregare.
Ad ogni modo, furono i ghibellini a dare il via al combattimento, anche perché i guelfi, saldamente attestati dietro l’imponente vallo costituito dai pavesi, avevano deciso di attendere le mosse avversarie, seguendo il suggerimento di un cavaliere di San Miniato: «Signori – disse costui secondo il Compagni –, le guerre di Toscana si sogliano vincere per bene assalire; e non duravano, e pochi uomini vi moriano, che non era in uso d’ucciderli. Ora è mutato modo, e vinconsi per stare bene fermi. Il perché io vi consiglio, che voi siate forti, e lasciateli assalire». Tutto sommato, il vescovo Guglielmino non era andato lontano dal vero scambiando lo schieramento fiorentino per una città: l’armata era una vera e propria fortezza, con lo sbarramento dei pavesai davanti e sui lati, e le salmerie dietro, una formula piuttosto innovativa che avrebbe rappresentato la mossa vincente, oltre all’efficace combinazione di fanteria pesante cittadina, cavalleria aristocratica e forze mercenarie.
Comunque, l’assalto dei feditori aretini fu affrontato dai corrispettivi fiorentini, che tentarono di arginarlo prima che arrivasse a contatto della fanteria; «e fu sì forte la percossa – spiega il Villani – che i più de’ feditori de’ fiorentini furono scavallati, e la schiera grossa rinculò buon pezzo del campo»; i cavalieri ghibellini, seguiti da presso dai fanti della seconda linea, si trovarono così a ridosso dei pavesai, i quali «non si svagarono né ruppono, ma costanti e forti ricevettero i nemici».

LA BATTAGLIA DI CAMPALDINO (ricostruzione dell’autore). I feditori aretini attaccano il centro guelfo (1), che arretra (2) attirando gli avversari entro lo schieramento. Le ali si chiudono sui ghibellini (3), e la morsa è completata da Corso Donati (4), mentre il conte Guido Novello si dà alla fuga (5).
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Nell’urto, è probabile che i guelfi abbiano fatto valere la loro superiorità numerica per compiere gradualmente la manovra a tenaglia con le ali, la cui saldezza in linea era assicurata dai pavesai: più i cavalieri aretini si addentravano nello schieramento fiorentino per inseguire i feditori avversari, più si trovavano esposti sui fianchi e, virtualmente, compressi nell’ideale fortezza costituita dall’armata nemica. Quando i cavalieri guelfi si ritrovarono a ridosso delle salmerie, che delimitavano lo schieramento della loro armata, fecero forse dietrofront e affrontarono gli inseguitori, valendosi della contestuale pressione laterale da parte della fanteria, «e coll’ale ordinate da ciascuna parte de’ pedoni rinchiusono tra loro i nemici, combattendo aspramente buona pezza», specifica il Villani.
«Le quadrella pioveano», scrive Dino Compagni, riferendosi alla pioggia di proietti che arrivava sui ghibellini ormai quasi circondati, i quali non potevano opporre dotazioni di armi altrettanto consistenti. Alla manovra di aggiramento dovette contribuire anche il contingente di Corso Donati, che «fedì i nemici per costa», approfittando del fatto che il contingente ghibellino incaricato di neutralizzarlo, quello guidato da Guido Novello, si diede alla fuga «senza dare colpo di spada», probabilmente dando per scontata la sconfitta; ma forse il conte non fece altro che rispettare qualche accordo precedente con i ghibellini, che d’altronde avevano percorso le sue terre senza incontrare resistenza.
Ad ogni modo, il Villani individua come decisivo l’intervento del Donati, raccontando come questi abbia contravvenuto agli ordini buttandosi nello scontro di propria iniziativa, dicendo: «Se noi perdiamo, io voglio morire nella battaglia, co’ miei cittadini; e se noi vinciamo, chi vuole vegna a noi a Pistoia per la condannagione». Ma la Cronaca del Villani fu scritta qualche tempo dopo la battaglia, quando Corso Donati era uno dei protagonisti della politica fiorentina, e ciò fa ritenere il passaggio come frutto della propaganda.
I cavalieri aretini finirono sbaragliati, e poi toccò ai fanti che gli venivano dietro. Essi non disponevano di picche e pavesi con cui tener lontani i cavalieri avversari; pertanto, «si mettevano carpone sotto i ventri de’ cavalli con le coltella in mano e sbudellatali», dice il Compagni. Sebbene la manovra guelfa avesse posto gli aretini in inferiorità tattica, oltre che numerica, essi combatterono a lungo, e «furono rotti, gli aretini, non per viltà né per poca prodezza, ma per lo soperchio de’ nimici», specifica sempre il Compagni. E fu la rotta, alla volta di Bibbiena, Poppi, e i castelli del Casentino, alla quale però non tutti riuscirono a unirsi, raggiunti dai fiorentini ansiosi di vendicare le recenti sconfitte e dai mercenari bramosi di concludere il loro lavoro.
Il Villani fornisce le cifre della sconfitta dei ghibellini, che lasciarono sul campo 1700 caduti e 2000 soldati prigionieri dei vincitori, mentre tra i guelfi furono forse un migliaio i morti e feriti; l’unico personaggio di rilievo a cadere, trafitto da una freccia, fu il vecchio Guglielmo de Durfort, forse proprio colui che aveva ideato la brillante tattica che aveva condotto alla vittoria i guelfi.
La disfatta aretina fu accentuata dalla morte, tra gli altri, di grossi calibri come lo stesso vescovo Guglielmino e Buonconte da Montefeltro (che nel Purgatorio Dante definisce «forato ne la gola»), oltre a tutti gli Uberti impegnati nello scontro e a Guglielmo il Pazzo. La città aretina si trovava quindi senza guida e, apparentemente, alla mercé della lega guelfa, che avrebbe potuto aggredirla ed espugnarla con relativa facilità e porre fine al conflitto.
Ma i fiorentini se ne stettero fin troppo a deliziarsi del loro trionfo: «si fece grande festa e allegrezza; e poteasi fare per ragione, ché alla detta sconfitta rimmasono molti capitani e valenti uomini di parte ghibellina, e nemici del comune di Firenze, e funne abbattuto l’orgoglio e superbia non solamente degli aretini, ma di tutta parte ghibellina e d’imperio», scrive il Villani. «Non corsono ad Arezzo con la vittoria; ché si sperava, con poca fatica l’arebon avuta. Al capitano e a’ giovani cavalieri, che avevano bisogno di riposo, parve assai fatto di vincere, senza perseguitarli», sente il bisogno di dire il Compagni, al tempo della battaglia priore di Firenze.
Quando i fiorentini arrivarono davanti alle mura di Arezzo, dopo aver perso tempo a devastare il Casentino, trovarono una difesa ormai organizzata, che per tre settimane frustrò qualunque tentativo di impadronirsi della città; i guelfi non poterono far altro che utilizzare le loro catapulte per scagliare entro le mura asini con mitre episcopali. Il 23 luglio, con il rientro dell’esercito a Firenze, la campagna poté dirsi conclusa, senza che una delle battaglie più cruente dell’Italia medievale avesse determinato alcun risultato decisivo. Né andò meglio un attacco genovese a Pisa, dove prevalse l’abilità di Guido da Montefeltro.
Se non altro, la vittoria conferì a Firenze l’indiscusso predominio sullo scacchiere toscano, che andò però incrinandosi nell’arco di pochi anni, a causa delle spaccature interne verificatesi in città dopo la definitiva affermazione guelfa. Si accentuarono i contrasti tra magnati e popolani, poi si passò alle lotte tra i Cerchi e i Donati, per finire con la guerra civile tra guelfi bianchi e guelfi neri, ereditata da Pistoia e culminata nel 1300 con una serie raccapricciante di eccidi, cui fecero seguito condanne ed espulsioni dei bianchi, tra i quali lo stesso Dante.

La stabilità interna fu quindi una chimera per lungo tempo, finendo per porre i guelfi contro il papato e ridando fiducia agli aretini, contro i quali si rinnovarono le operazioni militari. Neanche la morte, nel 1307, di Corso Donati, la cui sfrenata ambizione aveva molto contribuito ai disordini, arrestò la successione di delitti politici che contrassegnò questo periodo della storia fiorentina. La discesa dell’imperatore Enrico VII (l’Arrigo di Dante) in Italia – la prima di un sovrano germanico dopo mezzo secolo –, poi, ridiede vigore al partito ghibellino in Toscana, e Arezzo e Pisa si sentirono per un attimo ancora potenti, spingendo Firenze a gettarsi nelle braccia degli Angioini di Napoli. La morte prematura del volenteroso sovrano, però, tolse ad Arezzo – che in segno di lutto sostituì il cavallo bianco sullo stemma con uno nero – le ultime illusioni, e la città si tirò fuori prima della resa dei conti tra guelfi e ghibellini toscani, avvenuta a Montecatini nel 1315; lì Uguccione della Faggiola conseguì una clamorosa vittoria sui fiorentini, seguita, un decennio dopo, dalla nuova vittoria di Castruccio Castracani, signore di Lucca, ad Altopascio, che aprì la strada a una nuova discesa imperiale in Italia, da parte di Ludovico il Bavaro.
L’intero XIV secolo fiorentino fu contrassegnato però, soprattutto, da un’endemica crisi costituzionale, frutto dell’impossibilità di conciliare le diverse tendenze espresse dai tre grandi gruppi che, al di là delle divisioni tra guelfi e ghibellini, o tra bianchi e neri, dilaniavano la città, ovvero il popolo (nelle sue varie componenti, grasso e minuto), le famiglie magnatizie e i grandi banchieri che operavano a livello internazionale: un contrasto che spinse irrimediabilmente verso la signoria. Il processo fu affrettato, nel 1378, dalla ribellione detta dei Ciompi, che aprì la strada alla fine del Comune e all’inizio del lungo predominio mediceo. Contemporaneamente, terminava l’autonomia di Arezzo, che nel 1384 finì inglobata nel territorio fiorentino.
Era il tramonto del Medioevo, soprattutto nella sua espressione più paradigmatica, ovvero il conflitto tra papato e impero per il predominio dapprima universale, poi italico. La discesa di Ludovico in Bavaro in Italia fu solo l’ultimo di una serie di tentativi imperiali, da Federico Barbarossa a Federico II, da Enrico VI ad Arrigo VII, di riportare l’intera penisola sotto il controllo imperiale, come nei primi secoli del Sacro Romano Impero; allora, però, non c’erano lo sviluppo dei comuni, lo stato della Chiesa e il regno aragonese-angioino a rendere un’impresa del genere del tutto anacronistica.
Con la bolla d’oro dell’imperatore Carlo IV, a metà del XIV secolo, l’impero sarebbe divenuto un fatto germanico, i papi e gli imperatori non più dei nemici istituzionali ma due delle componenti della complessa politica europea. Tuttavia il loro secolare conflitto avrebbe lasciato profondi strascichi in Italia, dove ancora per secoli si conservò un bipolarismo legato soprattutto alle tradizioni familiari, condizionando tutti gli aspetti della vita sociale, dal modo in cui tagliare la frutta a quello di costruire castelli. Ancora nel Cinquecento, esso si applicava alla scelta tra l’adesione alla Spagna o alla Francia, e perfino nel Seicento, c’era chi portava la piuma del cappello a destra per manifestare la sua fede guelfa, chi a sinistra, per ostentare il suo ghibellinismo.
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