BATTAGLIE: LEGNICA - 9 aprile 1241

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BATTAGLIE: LEGNICA - 9 aprile 1241

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"Articolo estrapolato dalla rivista MEDIOEVO - aprile 2012"

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LA BATTAGLIA CHE SALVO' L'EUROPA?

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LA BATTAGLIA CHE SALVO' L'EUROPA?
La battaglia di Liegnitz (9 aprile 1241)
di Nicola Zotti http://www.warfare.it

Sulla battaglia di Liegnitz vi sono opinioni contrastanti: i polacchi, ad esempio, ancora la festeggiano come la sconfitta con la quale hanno salvato l'Europa dalla minaccia mongola, e anche i tedeschi, molto coinvolti nella battaglia, condividono questa opinione. Studiosi moderni, al contrario, ritengono che fu solo il caso -- ovvero l'improvvisa morte del Gran Khan e la successiva disputa dinastica tra i suoi figli -- a salvare l'Europa dalla conquista mongola.

Se fu una vittoria di Pirro per i mongoli, che li convinse a rinunciare alla conquista dell'Europa o solo un episodio in una campagna che aveva per i mongoli altri obiettivi nessuno può dirlo.

Vero è che i mongoli non conquistarono mai l'Europa, e quindi è ozioso chiedersi se ci sarebbero mai riusciti (secondo me no...) ma è altrettanto vero che altri europei (gli ungheresi) furono sconfitti dalla parte principale dell'armata mongola, due giorni dopo Liegnitz, a Mohi, centinaia di chilometri a sud est, e che quindi l'enfasi particolare assunta storicamente da Liegnitz non si comprende se non si aggiunge che fu la puntata più occidentale compiuta da un'armata mongola.

La manovra di Subodai, il comandante in capo mongolo, era molto complessa: indirizzata alla conquista dell'Ungheria, era articolata su tre colonne: una centrale comandata da Batu costituiva la punta più importante, le rimanenti erano forze ridotte che avevano il compito di isolare l'avversario principale.

Gli avversari a Liegnitz erano più o meno pari numericamente: l'armata mongola guidata da Kadan era costituita da due tumen -- due unità nominalmente da 10.000 uomini ciascuna -- mentre i polacco-germanici erano attorno ai 25.000 uomini.

Enrico II il pio duca di Slesia aveva da poco unificato la Slesia con la Grande e la Piccola Polonia e di fronte alla minaccia Mongola aveva riunito un esercito eterogeneo costituito da minatori bavaresi, reclute polacche e volontari moravi, cavalieri slesiani e tedeschi e anche appartenenti ai tre ordini militari maggiori: Ospitalieri, Templari e forse Teutonici.

Un'altra armata europea di entità doppia di quella di Enrico, guidata da Wenceslao di Boemia, suo stretto parente, era ad appena due giorni di distanza da Liegnitz: ma Enrico non lo sapeva, mentre gli esploratori mongoli avevano informato il loro comandante di quella pericolosa presenza, convincendolo dell'opportunità di accelerare i tempi dello scontro.

Il duca schierò probabilmente le sue truppe a rombo: sulle ali i contingenti di reclute polacchi e di minatori bavaresi, entrambi costituiti in massima parte da fanterie; al centro il contingente di Opole con alleati moravi, e dietro questi posizionò la propria riserva con i cavalieri migliori. I mongoli si schierarono con due ali molto allargate verso l'esterno e un centro con un'avanguardia sostenuta da una riserva. (vedi schema 1)

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Il combattimento volse subito al peggio per gli europei: l'avanguardia mongola costrinse infatti immediatamente alla fuga il centro polacco, inseguendolo quel tanto che bastava per costringere la riserva guidata dallo stesso duca ad intervenire prematuramente (fig. 2).

A questo punto l'avanguardia mongola finse di fuggire in rotta e attirò gli europei oltre la distanza di sicurezza dai propri supporti. Avanzando impetuosamente i cavalieri subirono un nutrito lancio di frecce da parte delle unità mongole sui fianchi e giunsero esauste e decimate allo scontro con la riserva mongola (fig. 3).

Forse sui fianchi i mongoli stesero persino una cortina fumogena per occultare agli occhi del resto dell'esercito polacco il massacro che stava avvenendo poco distante.

I cavalieri proseguirono una disperata resistenza appiedati, infliggendo in questo modo ai mongoli più perdite di quante si attendessero, ma vennero sterminati fino all'ultimo uomo. Nel frattempo le unità sui fianchi poterono occuparsi delle formazioni europee rimaste arretrate ed inerti: forse un'esplosione di panico (diffuso, si narra, ad arte da un russo al servizio dei mongoli) facilitò l'attacco mongolo che si trasformò in uno spietato inseguimento. (fig. 4)

Il duca Enrico cercò di fuggire, ma fu raggiunto e ucciso: la sua testa portata in cima ad una picca davanti a Liegnitz.

Con le orecchie destre dei morti i mongoli riempirono 9 sacchi.
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Liegnitz 1241

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Tratto da "Le grandi battaglie del Medioevo" di Andrea Fedriani.

Quando Gengis Khan morì, nel 1227, l’impero mongolo si estendeva dal Mar Caspio, a occidente, al Mar del Giappone, a oriente, mentre Kabul era il punto più meridionale e la Siberia quello più a nord. Solo vent’anni prima, quando lo avevano eletto khan dei khan, i nomadi delle steppe avevano coniato appositamente per lui il nome di Gengis, che significava “oceano”, per indicare la vastità del suo dominio: tutte le stirpi tra il lago Baikal e il deserto dei Gobi erano sotto la sua autorità, ed era la prima volta che le popolazioni nomadi della Mongolia si ritrovavano unite, per giunta sotto una nazione dominante, quella dei mongoli, che fino ad allora aveva rappresentato una delle componenti meno rilevanti tra quante si disputavano l’Asia nordorientale.
Ed era solo l’inizio. Nei due decenni seguenti, Gengis Khan avrebbe inglobato in rapida successione i khirghisi, gli uiguri, i tangut tibetani, e poi il Regno d’Oro dei Chin nella Cina settentrionale, la Corasmia persiana, i regni musulmani dell’altopiano iranico. Durante il suo regno, i suoi generali Subutai e Gebe si spinsero anche oltre le frontiere dei paesi inglobati a occidente: nell’Iran nordoccidentale arrivarono fino ad Hamadan, l’antica capitale achemenide Ecbatana, costringendo al tributo il califfo di Baghdad; in Russia meridionale, colsero una clamorosa vittoria sui turchi cumani e sui principi russi nel 1223, a Kalka, e l’anno seguente sul Dnepr.
Una volta tanto nella storia, non vi fu alcuna flessione nell’espansionismo mongolo dopo la morte del suo artefice. Gengis Khan aveva avuto tutto il tempo di regolare la successione e, nonostante i molti figli e nipoti, non vi furono guerre civili a sottrarre forze e risorse alle nuove conquiste. A ereditare il potere supremo fu il terzogenito del khan, Ogodai, mentre agli altri spettò un ulus, una porzione ciascuno dell’impero, che diveniva quindi una grande confederazione di stati collegati e soggetti all’autorità del gran khan: Tolui prese la Mongolia, Ciagatai la Transoxiana e la Kashgaria, Batu, figlio del primogenito del sovrano Jochi, morto poco prima del padre, le terre più occidentali, ovvero l’ovest dell’attuale Kazakistan. Lungi dallo sfaldarsi, il dominio mongolo, almeno in questa prima fase, si consolidò trasformandosi, da mero aggregato di terre da razziare, a vero e proprio impero universale con un’amministrazione e una centralizzazione capillari che scongiurarono il formarsi di satrapie e separatismi favorendo la coesione: sia sotto l’aspetto civile che militare, infatti, i funzionari e i comandanti prestavano servizio in luoghi molto lontani dai loro paesi d’origine.
Subito dopo la conquista definitiva del regno dei Chin, lasciata in sospeso da Gengis, nel 1235 vi fu il secondo quriltay più importante della storia mongola, dopo quello, celebre, del 1206, che aveva eletto Gengis Khan dei khan. La nuova adunanza dei capi sancì l’inizio di una nuova, massiccia fase espansiva, con la pianificazione di offensive lungo quattro grandi direttrici: la Corea, la Cina meridionale dei Sung, il Medio Oriente mamelucco e l’Europa orientale, parcellizzata in vari potentati.
In Corea, i mongoli si insediarono entro il 1241, dopo cinque anni di guerra, mentre in Medio Oriente si impossessarono entro il 1239 della zona caucasica, sottraendo la Georgia e la Grande Armenia ai sempre più decadenti turchi selgiuchidi. Contro i Sung, invece, sarebbe stato necessario oltre un quarantennio di lotte per averne ragione. Dell’offensiva occidentale si fece carico Batu, cui fu affidato il più grande esercito mongolo mai assemblato, 140.000 uomini suddivisi in quattordici tumen, le divisioni mongole da 10.000 effettivi ciascuna; oltre la metà delle forze era costituita da turchi soggetti ai mongoli, comunque sotto il comando di ufficiali mongoli. Gli altri tre khan collaborarono alla spedizione inviando ciascuno un quinto delle proprie forze e i loro figli come comandanti dei corpi d’armata, mentre il comando operativo generale fu affidato al più esperto dei generali di Gengis Khan, Subutai, reduce dalla campagna di Kalka.
Le operazioni ebbero inizio nel 1236, con la conquista del regno turco-musulmano della Grande Bulgaria e dei territori ucraini dei qipciaq e dei cumani, per scongiurare qualsiasi minaccia sul fianco esposto dell’armata, quello sinistro, e assicurare le vie di comunicazione con l’Oriente. Il corpo principale, guidato dallo stesso Batu con Subutai, si spinse invece verso l’obiettivo della campagna, la Russia settentrionale, i cui ricchi principati erano le prede più ambite dello scacchiere. Il nipote di Gengis, inoltre, trovava i principati russi più deboli rispetto alla campagna del 1223, a partire dalla quale si erano logorati in continue guerre intestine. Batu operò soprattutto in inverno, per rendere più rapida l’avanzata della sua cavalleria sfruttando i fiumi gelati, «una decisione che solo un mongolo avrebbe potuto prendere», scrive Turnbull.
Il baricentro strategico e difensivo dello scacchiere era costituito da Vladimir, sede del granduca Yuri II. I mongoli vi puntarono dopo aver assediato e distrutto in dicembre Riazan, dove «nessun occhio rimase aperto per piangere i morti», e Mosca – allora poco più di un villaggio –, mentre il loro avversario si attestava con l’esercito sul Sit, fidando nelle robuste fortificazioni della sua capitale. Vladimir finì per cadere nel febbraio 1237, dopo una settimana di assedio, durante la quale «le pietre caddero come acqua dal cielo», e nel massacro che ne seguì trovarono la morte anche i familiari del granduca. A quel punto Yuri ritenne di non avere più niente da perdere, «dimenticò la paura e avanzò per incontrarli», scrive la Cronaca di Voskresensk: ne scaturì lo scontro campale di Kolomna sul Sit, dove i mongoli ebbero la meglio e il granduca cadde in battaglia.
Tra le città più importanti, se la cavò solo Novgorod, che i mongoli, giunti a meno di cento chilometri da essa, non fecero in tempo a raggiungere prima che il disgelo primaverile rendesse impraticabile il terreno per la loro cavalleria. L’unico evento di rilievo durante il ripiegamento verso sud fu l’assedio di sette settimane ai danni di Kozelsk, nel Kaluga. Come è stato fatto notare, comunque, la campagna invernale di Batu in Russia rimane l’unica, in tutto il corso della Storia ad essere risultata vincente in uno scacchiere rivelatosi ostico per chiunque.
L’offensiva, d’altronde, era appena cominciata. Batu si ritirò sul bacino del Don, dove si ricongiunse col troncone guidato dal figlio di Tolui, Mangu, che aveva operato tra il Volga e il Don. Le operazioni stagnarono per un pezzo, soprattutto a causa di dissensi interni legati all’incerta autorità di Batu, contestato in particolare da uno dei figli del gran khan, Kuiuk, alfine richiamato in Mongolia.
Il nuovo attacco per il 1240, condotto dallo stesso Mangu, ebbe per obiettivo il settore meridionale, e fruttò ai mongoli la conquista di Chernigov a nord di Kiev. Poi fu la volta della stessa Kiev, che cadde il 6 dicembre 1240, alla presenza di Batu, dopo essere stata stretta d’assedio da dieci tumen; l’eccidio fu tale che un cronista, Giovanni Pian del Carpine, trovatosi sei anni dopo tra le rovine di quella che era stata una delle più magnifiche città della Russia, affermò di aver visto «ancora i teschi e le ossa dei morti per le strade». La sua caduta, peraltro, poneva termine al lungo e florido principato instaurato tre secoli prima dai vichinghi svedesi, i cosiddetti varieghi. Dopodiché Batu svernò appena a nord-est dei Carpazi, in Galizia, lasciando chiaramente intendere il successivo obiettivo dell’offensiva.
L’Ungheria, infatti, era a portata di mano. E l’Ungheria era sempre stata, in passato, il limite delle conquiste occidentali degli imperi nomadi, dagli unni agli avari, fino ai magiari, ma anche la base avanzata dalla quale lanciarsi in ulteriori conquiste nell’Europa centroccidentale. Sembrava pertanto la naturale direttrice lungo la quale i mongoli avrebbero continuato ad agire, tanto più che la loro invasione aveva provocato un’ondata di profughi in Polonia ma soprattutto nella stessa Ungheria: si disse che il khan cumano Kotyan si fosse portato dietro 200.000 anime, che i mongoli reputavano loro sudditi. Il re Bela IV aveva accolto non solo i principi russi che non avevano accettato la sovranità mongola, ma anche le popolazioni nomadi in fuga, dietro l’impegno a convertirsi al Cristianesimo; inoltre, il paese era allora indebolito da una contesa col papato, e non sembrava in grado di affrontare gli invasori.
L’Europa fu presa dal panico. I mongoli parevano invincibili, con la loro straordinaria rapidità, che li faceva comparire improvvisamente e inaspettatamente su uno scacchiere, le capacità poliorcetiche, del tutto inedite nei popoli nomadi, che avevano appreso dai cinesi e che sfruttavano per conquistare tutti i centri che sottoponevano ad assedio, l’efficiente struttura militare, di cui si valevano per sbaragliare qualunque nemico osasse affrontarli in una battaglia campale. Come se non bastasse, gli occidentali erano inconsapevoli di ciò che rappresentava la vera forza dei mongoli: l’accurata pianificazione delle campagne e una visione strategica, ereditata da Gengis Khan, senza eguali nel mondo.

L’ospitalità concessa a Kotyan offrì dunque a Batu il pretesto per invadere il paese. Il passaggio dei Carpazi da parte dell’esercito principale, guidato dallo stesso Batu fu previsto, naturalmente, per l’inverno, una follia agli occhi di un europeo, ed ebbe come obiettivo la conquista di Pest; il secondo troncone dell’armata, affidata a Kaidu figlio di Ogodai e a Baidar figlio di Cíagatai, ebbe il compito di proteggere il fianco destro, con un’irruzione in Polonia altrettanto sorprendente per gli avversari, che non si aspettavano di veder comparire un esercito sulla Vistola ghiacciata. Un ulteriore distaccamento doveva agire ancora più a nord, in Lituania e in Prussia orientale.
Il dramma costituito per i polacchi dall’arrivo dei mongoli viene ben rappresentato da Jan Dlugosz nei suoi annali per l’anno 1241: «Il Signore, il più pietoso e il più eccellente, arrabbiato per i molteplici peccati dei polacchi, inflisse loro non la pestilenza, non la carestia, non l’ostilità dei loro vicini cattolici come negli anni precedenti, ma la ferocia e la furia dei barbari pagani». I mongoli si avventarono su Sandomierz, e neanche i monasteri dei dintorni sfuggirono alle loro razzie. Gli invasori fecero talmente tanti prigionieri che, per non compromettere la loro proverbiale rapidità, si sentirono in dovere di tornare al confine per liberarsene e procedere poi più spediti nella loro avanzata.
Il ripiegamento diede al voivoda di Cracovia, che agiva per conto del principe Boleslao IV il Casto, la possibilità di radunare una modesta armata, condotta da cavalieri pesanti, che sorprese i nemici sul fiume Czarda; riavutisi dalla sorpresa, i mongoli si resero conto di avere di fronte un contingente di scarsa rilevanza, e contrattaccarono approfittando anche del fatto che i cavalieri nemici si erano sparsi in cerca del bottino. Alla fine la giornata andò ai tartari, che poterono proseguire indisturbati alla volta della Vistola.
Che avessero subito delle perdite nello scontro, o che comunque ritenessero necessario rinfoltire i ranghi, i mongoli tornarono in territorio polacco con un esercito più numeroso; secondo una cronaca di un frate francescano, rinvenuta negli anni sessanta del ventesimo secolo, gli effettivi agli ordini di Ordu non superavano un tumen, ovvero 10.000 uomini. Mentre gli invasori raggiungevano di nuovo Sandomierz, i polacchi si attestavano a Chmielnick per sbarrare loro la strada verso Cracovia, dove continuava a risiedere il principe. I mongoli attaccarono la postazione all’alba del 18 marzo 1241, inaugurando un accanito combattimento che si protrasse per diverse ore, fino a quando il numero maggiore di effettivi non fece pesare la bilancia a favore dei tartari. Non essendo in grado di gettare nella mischia forze fresche che avvicendassero la prima linea esausta dalla lunga lotta, i polacchi finirono per darsi alla fuga: «Alcuni raggiunsero la copertura offerta dalle foreste e, conoscendo il terreno, scapparono; ma la gran parte trovò una morte gloriosa difendendo il loro paese e la loro fede», scrive Dlugosz.
La via per Cracovia era aperta ai mongoli, che vi entrarono la domenica delle Palme, il 24 marzo, senza trovarvi non solo resistenza, ma neanche anima viva. Il principe con la sua famiglia era partito infatti alla volta dell’Ungheria, mentre gli abitanti si erano nascosti nelle paludi e nelle foreste; ad ogni modo, tanto per non venir meno alla loro nomea, i tartari la ridussero in cenere. Non trovarono nulla che potesse opporsi a un’ulteriore avanzata in occidente, verso cui si diresse un troncone dell’armata, che non rimase a saccheggiare e presidiare le terre polacche. La barriera successiva era rappresentata dall’Oder, oltre la quale si entrava nella Slesia retta dall’arciduca Enrico ii il Pio. I mongoli attraversarono il fiume in massa all’altezza di Ratibor, su zattere e a nuoto, «poiché i tartari sono più esperti nell’arte del nuoto di qualunque altra nazione», puntando su Breslavia.
L’avanguardia si fece sorprendere da un contingente del duca Mieczyslaw, ma poi l’arrivo del grosso delle forze mongole costrinse i cristiani a ripiegare e a raggiungere Enrico. Quest’ultimo, da parte sua, aveva abbandonato la sua capitale Breslavia per allestire una coalizione di gran parte delle entità politiche che avevano ragione di temere l’irruzione mongola. A lui si unirono non solo le truppe della Slesia ma anche quelle della Polonia e della Moravia, nonché i cavalieri teutonici. Per dare consistenza numerica al proprio esercito, il duca precettò anche i contadini minatori delle miniere d’oro della sua regione. Quindi, attestandosi a Legnica, ovvero Liegnitz, attese il congiungimento con le forze condotte da Venceslao di Boemia, che gli stava portando altri 50.000 uomini.
Come a Cracovia, i mongoli trovarono Breslavia vuota non solo di persone, ma anche di qualunque cosa potesse approvvigionarli; gli abitanti, infatti, avevano bruciato l’intera città e chi non era scappato si era asserragliato nella cittadella. La possibilità di attaccare quest’ultima fu scartata una volta appreso dello sbarramento operato da Enrico poco più a ovest. Questi si augurava di veder comparire Venceslao, o di raggiungerlo, prima dell’arrivo dei mongoli, tuttavia non poté far altro che disporsi a battaglia quando i comandanti dell’esercito mongolo riunirono i rispettivi tronconi. Il 9 aprile l’arciduca uscì da Liegnitz accompagnato da un fosco presagio, poiché una pietra si era staccata da una chiesa sfiorandolo; si spostò verso Wahlstatt e schierò il proprio eterogeneo esercito, disponendolo, secondo il cronista Dluglosz, su cinque linee successive lungo un terreno piatto a ridosso del fiume Nysa. In prima fila pose i combattenti provenienti dalla Germania e da altre parti d’Europa, supportati da alcuni reparti di contadini-minatori. Le due linee successive erano costituite dai cavalieri polacchi, rispettivamente di Cracovia e di Opole, seguiti dai cavalieri teutonici, mentre di riserva Enrico pose se stesso e i suoi cavalieri di Slesia, oltre a un modesto contingente di mercenari. Ma poiché la presenza dell’Ordine teutonico è incerta, si deve considerare la possibilità che le linee fossero solo quattro.

Il cronista afferma che «c’erano molte unità di tartari, ciascuna delle quali superiore, da sola, dell’intero esercito polacco». In realtà, i mongoli erano in inferiorità numerica, e se fosse arrivato anche Venceslao probabilmente non avrebbero avuto alcuna possibilità. Lo stesso Dlugosz, d’altronde, afferma che Ordu schierò i suoi su quattro linee. Sebbene si sia arrivati ad attribuire a Enrico anche 40.000 uomini, si ritiene che il suo esercito assommasse a 10.000 effettivi, un numero che non dava alcuna garanzia di fronte al tumen nemico, soprattutto su uno scacchiere piatto, come quello inopinatamente scelto dal principe, che favoriva in modo lampante la dinamica cavalleria mongola.
Che i polacchi fossero più numerosi, lo prova il fatto che furono loro a inaugurare la battaglia, con una carica della prima linea che non avrebbero osato fare, se si fossero trovati in inferiorità; ad ogni modo, la prima linea mongola li lasciò fare, arretrando fino a quando i cristiani non si trovarono circondati dagli arcieri nemici e isolati dal resto dello schieramento polacco. Poiché per la gran parte si trattava di combattenti privi di armatura, caddero tutti sotto una pioggia di frecce, «come delicate spighe di grano rotte da chicchi di grandine», tranne alcuni che avevano fatto in tempo a svincolarsi.
Enrico si affrettò a mandare avanti altre due linee, e altrettanto fece Ordu, che però disponeva ancora degli effettivi della prima schiera. Tuttavia, la copertura dei balestrieri in forza all’esercito di Enrico si rivelò più efficace di quella degli arcieri mongoli, e i cristiani sembrarono tenere. Alla lunga, però, iniziarono a perdere terreno, ed Enrico si sentì costretto a far entrare in battaglia le sue forze migliori – che si trattasse dei teutonici o della riserva polacca, non è dato sapere. Ancora una volta il comandante mongolo lo imitò trascinando dietro di sé la sua quarta schiera, e si accese di nuovo una mischia furibonda.
Trascorso altro tempo, furono i mongoli a ripiegare e, quando si trovarono a una certa distanza dal nemico, il loro portainsegne agitò lo stendardo, contrassegnato da ossa di pecora incrociate e code di yak. Era il segnale convenuto per attivare gli uomini incaricati di appiccare il fuoco a delle canne, dalle quali si sollevò un denso fumo e un odore insopportabile per i cristiani. Questo i polacchi proprio non se lo aspettavano: «Si sapeva che nelle loro guerre i tartari hanno sempre fatto ricorso alle arti della divinazione e a stregonerie, ed è precisamente ciò che stavano facendo in quella circostanza», scrive sgomento Dlugosz.
I cristiani, confusi, persero qualsiasi residua baldanza e si aggirarono senza costrutto in quella nuvola di fumo. Neanche capirono bene cosa accadde, quando i mongoli ritornarono sui loro passi e iniziarono a sbucare all’improvviso dalla fitta nebbia artificiale, facendosi preannunciare solo dal loro grido di guerra. La cavalleria leggera aggredì i polacchi sui lati con scariche di dardi, mentre il centro li premeva di nuovo. «Ne seguì una strage enorme». Caddero, tra gli altri, il margravio della Moravia e il comandante regionale dei teutonici, ogni opposizione venne meno ed Enrico, che avrebbe potuto darsi alla fuga con la sua schiera, scelse di aspettare che investissero anche lui.
In breve gli furono addosso da tutti i lati. A quel punto, l’arciduca tentò di aprirsi una via di fuga combattendo, insieme a un pugno di seguaci; riuscì a incunearsi nelle file nemiche, ma man mano che avanzava i suoi cadevano, e in prossimità del varco rimase con soli quattro uomini, troppo pochi per impedire che il suo cavallo, già ferito in precedenza, venisse finito dai colpi avversari. Uno dei suoi si affrettò a dargli un’altra cavalcatura, ma ormai i mongoli avevano riconosciuto il principe dalle sue insegne, e chiusero tutti i varchi.
Una lancia tartara penetrò nell’ascella di Enrico, non protetta dall’armatura, proprio mentre l’arciduca levava il braccio per calare un fendente sull’avversario più prossimo. Il principe cadde a terra, e subito i mongoli gli si fecero intorno, trafiggendolo con due frecce; poi lo trascinarono lontano dai suoi e gli tagliarono la testa, spogliando il corpo delle sue insegne e lasciandolo nudo a terra. La sua testa sarebbe stata conficcata su un palo ed esibita davanti alle mura di Legnica per indurre i difensori ad aprire le porte, cosa che questi ultimi si rifiutarono di fare; scelsero invece di asserragliarsi nella roccaforte dopo aver incendiato la città, senza che i mongoli, i quali temevano di veder arrivare l’armata di Venceslao, li molestassero oltre. Pare invece che il cavaliere che aveva offerto all’arciduca il cavallo se la sia cavata, finendo in seguito in un monastero domenicano, «grato al Signore di averlo salvato da tanti pericoli».

Sul campo, con Enrico, giaceva gran parte della nobiltà polacca. Si disse che i mongoli, volendo conoscere l’esatto numero dei caduti avversari, abbiano tagliato un orecchio a ciascuno dei cadaveri «riempiendo fino all’orlo nove enormi sacchi». I polacchi faticarono a ritrovare il corpo senza testa dell’arciduca, almeno fino a quando la vedova non rese noto che suo marito aveva sei dita nel piede sinistro.
In quello scacchiere, i mongoli non si spinsero oltre, deviando verso la Moravia per ricongiungersi con Batu. L’obiettivo principale dell’avanzata verso occidente rimaneva infatti l’Ungheria, e alla volta di quest’ultima aveva nel frattempo mosso l’armata principale, radunatasi sulla Vistola all’altezza di Halicz. Nella sua marcia verso Pest, Batu aveva diviso la sua armata in quattro tronconi, due ali estreme a nord e a sud, e altre due sezioni centrali, rispettivamente attraverso la Galizia, la Moldavia e la Transilvania. Riunitisi nei pressi della capitale, i tartari furono avvicinati dall’armata di soccorso allestita da Bela, ma si sottrassero allo scontro attuando un ripiegamento verso oriente. Nove giorni dopo, e, secondo la tradizione, due giorni dopo la battaglia di Liegnitz, presso il villaggio di Mohi gli ungheresi si fecero sorprendere nel sonno da una manovra a tenaglia, e fu un’ecatombe, dalla quale a stento si salvò lo stesso sovrano. Pest, naturalmente, fece una brutta fine, e il resto dell’anno gli ungheresi lo passarono a sfamare le armate mongole, prima che queste riprendessero l’avanzata verso occidente, con Vienna quale successivo obiettivo.
Durante la pausa che si presero i mongoli, Bela non riuscì, nonostante i suoi sforzi, a indurre la Cristianità a mettere in atto una crociata per fronteggiare il pericolo rappresentato dagli invasori. Il papa era allora troppo impegnato nelle sue contese con l’impero per prendersi la briga di indire una crociata in uno scacchiere che non fosse quello italico, dove egli vedeva il vero nemico della fede nell’imperatore Federico II. All’appello risposero solo i teutonici, che però preferirono scegliersi un nemico teoricamente più malleabile – e più compatibile con i loro interessi nell’area baltica –, i russi di Novgorod; finì che anche loro rimediarono una memorabile sconfitta, nella battaglia del lago Peipus per mano del principe Nevskij.
Dopo essere stato raggiunto da Kaidu, Batu attese solo che l’inverno gelasse il Danubio per poter riprendere la campagna; il khan giunse a distruggere Zagabria e fin quasi sulle rive dell’Adriatico, nei pressi di Spalato, nel tentativo di raggiungere il re ungherese in fuga, mentre la sua ala destra si spingeva in direzione di Vienna. Ma nel febbraio 1242 giunse la notizia della morte del gran khan Ogodai – avvenuta nel dicembre precedente –, che apriva la questione della successione. Batu era tenuto a partecipare al quriltai, e non ebbe altra scelta che tornare indietro abbandonando qualunque velleità sull’Europa.
Le sue ambizioni, tuttavia, furono frustrate dall’elezione di Guyuk, al quale Batu non rese mai omaggio, preferendo tornare ad amministrare come dominio autonomo i territori occidentali, che ormai comprendevano i principati russi, la cui capitale pose a Sarai sul Volga. Nasceva lo stato mongolo – o tartaro, come veniva chiamato dagli europei – indipendente dell’Orda d’Oro, come fu definito per via della tenda dorata di Batu; oltre ai territori russi, esso inglobava una vasta area corrispondente all’attuale Kazakistan, trasformandosi progressivamente in uno stato turco e islamico. Tenne bene ancora per un secolo, per poi subire il ritorno dei moscoviti e, soprattutto, l’aggressione di Tamerlano; in progresso di tempo, finì per dividersi in varie Orde, spesso in guerra tra loro, e perse il controllo sui territori russi, che finirono col rendersi indipendenti. Agli albori dell’età moderna Ivan IV il Terribile diede il colpo definitivo alla Grande Orda, e ai tartari rimase la sola Crimea, dalla quale i mongoli si presero una piccola rivincita riconquistando temporaneamente la capitale moscovita nel 1571; il khanato di Crimea sopravvisse fino alle soglie del XVIII secolo, per essere infine inglobato nell’impero ottomano.
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