Una attenuante possono trovare gli abusi che sopra abbiamo visto moltiplicarsi in materia di benefici ecclesiastici nella considerazione che le chiese e le fondazioni ecclesiastiche erano in buona parte state fondate dalla classe dirigente ovvero per lo meno erano state arricchite dalle sue donazioni. Essa perciò aveva, secondo le idee del tempo, il diritto di sfruttarle per il collocamento dei propri figli e delle proprie figlie. Lo stesso fenomeno si rileva anche più chiaramente nella storia delle istituzioni monastiche.
In sé i monaci non erano ecclesiastici, ma laici; però le istituzioni monastiche furono un prodotto della coscienza religiosa medioevale, e vennero a formare parte integrante dell'organizzazione ecclesiastica del Medioevo. I monasteri perciò erano soggetti alla sorveglianza delle autorità ecclesiastiche. Inoltre molti monaci avevano pure gli ordini sacri e vi erano gruppi di preti che facevano vita comune sotto forme monastiche.
Il monachismo deve la sua origine al bisogno del cuore umano di attutire, mediante una rigida disciplina del corpo, gli stimoli degli appetiti sensuali. Ut arctiori se vita et eremi squalore constringeret, dice la Vita Sturmi del giovane bavarese, che poi sotto la guida di Bonifacio fondò il monastero di Fulda. «Divenire più accetto a Dio ed avvicinarsi a lui meglio di quello che fosse possibile nel tumulto della vita ed in mezzo alle tentazioni ad essa inerenti necessariamente».
È questo un fenomeno che il cristianesimo ha comune con l'islamismo e con le religioni dell'India, ma sotto forme in complesso più temperate. In ciò si può certo vedere una prova della maggiore attitudine del cristianesimo ad assumere forme più civili; ma la spiegazione di tale più mite concezione dei castighi della carne non va ricercata soltanto in questo. La più sana costituzione politica e sociale della cristianità occidentale ha preservato la Chiesa cristiana dal cadere nelle esagerate folli di torture e flagelli inflitte al proprio corpo che si vedono tuttora praticate spesso nell'India ad onta del carattere elevato della religione.
Peraltro nel Medioevo non mancano esempi che ci dimostrano come anche la Chiesa dei popoli romano-germani ci corse il pericolo di smarrire in questa materia la retta via.
Basta ricordare la crociata dei fanciulli che, in omaggio ad una fantastica interpretazione di alcuni passi della bibbia, votò ad una morte crudele migliaia di bambini o li condannò ad una fine anche peggiore come la schiavitù. Fu un olocausto di sangue umano non meno orribile dei sacrifici umani del culto di Baal.
Oppure basta pensare agli scandalosi spettacoli che accompagnarono la fede nel potere soprannaturale delle reliquie, al fanatismo che induceva i devoti a manomettere le chiese per rubarvi delle reliquie, alla fabbricazione ed al mercato di supposte reliquie; od anche agli orrori delle persecuzioni degli eretici ed alle conseguenze delle scomuniche e degli interdetti.
Già i termini in cui erano concepite le formule di questi anatemi ripugnano al senso morale di un animo incivilito. La passione religiosa e l'orgoglio od il fanatismo ascetico abbrutisce il cuore umano allo stesso modo che ogni altra passione ed ogni altro eccesso.
Ma la chiesa fu preservata dall'accennato pericolo e fu aiutata a superarlo dalle tradizioni della cultura dell'antichità classica che di volta in volta si ravvivarono, e poi dal già ricordato buon senso dei popoli occidentali e dall'incivilimento laico, che manifestò le sue energie nella sempre rinnovata restaurazione degli ordinamenti politici e sociali decadenti ed offrì alla chiesa sempre nuove risorse e le impose sempre nuovi compiti. Ma sopra tutto la chiesa trovò per combattere quel pericolo una forza in sé stessa, nello spirito cioè delle istituzioni romane cui era debitrice l'organizzazione grandiosa della Chiesa. I vescovi ed in ultima analisi lo stesso papa avevano il massimo interesse a non lasciare che quelle tendenze mistiche prendessero il sopravvento, per quanto Roma abbia saputo ravvivarle e sfruttarle quando si trattava di sollevare le masse contro un sovrano temporale o di infiammarle di entusiasmo per le crociate.
L'ascetismo, questo bisogno o questa brama di rendersi accetto a Dio con la più assoluta rinunzia a tutte le naturali aspirazioni del cuore ed a tutti gli agi della vita materiale, ovvero (come lo caratterizza l'allievo e biografo dell'arcivescovo Bruno di Colonia, il fratello dell'imperatore Ottone I) il desiderio di combattere da solo a solo col diavolo (singulari acie contra diabolum dimicaturi solitariam vitam appetere), ebbe la sua manifestazione più schietta nell'anacoretismo.
Gli anacoreti o eremiti furono un fenomeno assai più diffuso nei secoli antecedenti ed in Oriente che non nel nostro periodo ed in Occidente, ma non ne mancarono neppur qui e nell'epoca di cui ci occupiamo, come non mancarono esempi di esagerazione di tale tendenza. È difficile giudicare convenientemente questi fenomeni, perché talvolta essi suscitano il ribrezzo e lo scherno, talvolta eccitano l'ammirazione e la compassione. Perciò ci limitiamo a ripetere le parole di Ernesto Dummler, il quale conosceva come nessun altro il periodo comprendente il IX e X secolo e lo ha giudicato sempre con serenità e benevolenza.
Nella sua opera «L'imperatore Ottone I», egli scrive a pag. 550:
«Il sentimento religioso non si manifestò soltanto nel culto esteriore e nel monachismo, tanto più che questo non fu regolato se non a poco a poco. Non mancarono infatti accanto ai monaci, spesso assai numerosi, gli eremiti, maschi e femmine, che cercarono nella solitudine delle foreste o di una cella la soddisfazione delle loro tendenze ascetiche e col crudele trattamento di se stessi si acquistarono la massima venerazione ed il massimo seguito... Per molti questa vita solitaria non fu che un periodo di preparazione al chiostro, che poi riempirono del loro spirito ascetico... Presso S. Gallo visse da anacoreta la rigida Wiborada, che S. Udalrico frequentò come maestra (m. 926), dopo di lei la sua parente Rachilde (m. 946), poi Kerilde (952-1008), Perehterat (m. 980), Cotelinda (m. 1015), nonché ecclesiastici, come Hartker (m. 1011). Presso il monastero di Drubeck dimorò Sisu, una eremita che per 64 anni non lasciò la sua cella, mai scaldata da fuoco, e che da ultimo, benché immobilizzata e preda, ancor viva, dei vermi, continuò ad essere maestra celebrata del popolo (m. 16 febbraio 1020)».
Si pensi in quale stato di sudiciume dovesse ridursi questa gente e quale lacrimevole ristagno e sconvolgimento dovesse subire il loro spirito. Era immensamente pericoloso che il popolo esaltasse come esempi da prendersi a modello e come maestri degli uomini così squilibrati e spesso semplici santi di mestiere. Va quindi lodata l'energia di cui diede prova la chiesa esercitando incessantemente una attiva sorveglianza su questi eremiti d'ambo i sessi e reprimendo gli abusi.
Di fronte al monachismo, l'anacoretismo rappresentò nel medioevo una parte secondaria; e ciò forse per la circostanza che le tendenze ascetiche trovarono soddisfazione ad opera di alcuni fondatori di ordini monastici, i quali si ritirarono con i loro monaci nelle solitudini, fabbricandovi, invece di conventi, delle celle separate e misero così i loro compagni nella possibilità di vivere sostanzialmente da eremiti senza rinunziare ad ogni ordine e sorveglianza.
Così ad esempio S. Romualdo, nato a Ravenna verso il 950, fondò parecchi chiostri che consistevano in gruppi di celle di quel genere, ma erano sottoposti ad una regola comune e subordinati ad un superiore; il che valeva ad evitare i peggiori pericoli dell'anacoretismo.
Il più famoso di tali chiostri fu quello di Camaldoli presso Arezzo, i cui monaci ottennero nel 1072 dal papa la conferma della loro regola. A questi frati solitari Camaldolesi somigliavano i Carmelitani, il cui ordine fu fondato sulla fine del XII secolo da un crociato italiano sul monte Carmelo in Palestina, ed i Certosini che S. Bruno di Colonia raccolse attorno a se nel 1086 in una selvaggia gola montana presso Grenoble.
I fondatori di questi ordini di colorito ascetico avevano per lo più conosciuto precedentemente molto del mondo e delle sue opere. S. Romualdo usciva da una nobile famiglia ed aveva avuto non pochi contatti con i grandi della terra, e S. Bruno di Colonia aveva goduto di una posizione assai autorevole a Colonia ed a Reims che allora erano centri importanti della vita pubblica francese e tedesca, aveva fatto degli studi e diretto una scuola, prima di darsi alla vita da eremita.
Ad uomini come questi intendeva alludere Gualtiero von der Vogelweide quando fa deplorare da un eremita i maliche aveva procurati alla chiesa la donazione di Costantino. Ed essi godettero di una particolare fiducia, sicuri come si era che, inaccessibili alla corruzione ed al timore, avrebbero espresso liberamente il proprio giudizio e difesa la causa del giusto. Ed infatti spesso i principi chiesero a essi consigli, e così poterono rientrare in contatto con le vicende della vita, isolandosi dalle quali un cuore umano non può che inaridirsi o smarrirsi.
Oltre questi uomini che liberamente si erano proposto come ideale il più rigido ascetismo, cercarono rifugio nei romitaggi le esistente spezzate, oppresse dal peso di un grave delitto o di una grave colpa, che altra via non trovavano per sfuggire alla miseria e alla vergogna ovvero che altrimenti credevano di doverla far finita con la vita. A quel tempo la si finiva con la vita rinchiudendosi in una cella od in un convento e non come oggi col suicidio appena vi è una banale depressione. Ed indubbiamente la cella risolveva da questo lato dei problemi per i quali l'età nostra non ha saputo trovare una soluzione migliore.
Ma ben diversa era l'influenza che l'ascetismo esercitava su coloro che, ancor giovani e di scarsa intelligenza, si davano alla vita ascetica, spintivi dalla sorte avversa o dalla moda. Costoro, invece di acquistare maggior purezza di sentimenti mistici, divenivano schiavi di un rozzo fanatismo.
Gli antichi anacoreti della Tebaide avevano un proverbio: che cioè un monaco era capace di tenere a bada una legione di diavoli, un eremita dieci legioni.
E quando una volta un ragazzo fu ritenuto dai monaci capace di far miracoli, il vecchio abate lo fece frustare e tener rinchiuso per sette giorni affinché non diventasse troppo orgoglioso e che si prendesse troppo sul serio.
Fu pertanto una fortuna per la chiesa medioevale che l'anacoretismo, ad onta dell'ammirazione delle masse e della venerazione tributata da imperatori e principi ad es. ad un S. Nilo e ad un S. Romualdo, abbia assunto uno sviluppo assai inferiore al monachismo.
La vita claustrale rappresentava una forma di ascetismo più mite, ed evitava quell'inaridimento del cuore che non può a meno di sopraggiungere nell'uomo che non pensa che a sé, che non si preoccupa se non di sé stesso, sia pure che creda di farlo unicamente per la salute della propria anima.
Il monastero imponeva la necessità di occuparsi dei propri confratelli non solo, ma per lo più costringeva anche ad avere contatti di vario genere con l'esterno. Ed è questo anzi il punto che occorre tenere ben presente se si vuol comprendere l'importanza dei monasteri nel Medioevo.
L'originario scopo dei chiostri fu certamente quello di procurare un rifugio alle anime placide che desideravano ritirarsi dal mondo e dedicarsi completamente alla contemplazione delle cose eterne. Se non che i chiostri avevano beni da amministrare e diritti da tutelare. E così ebbero continuamente da fare con città, villaggi e feudatari che confinavano con i loro possedimenti ovvero che illegalmente volevano concorrere all'uso dei loro boschi, delle loro acque, dei loro pascoli, o contestavano i loro diritti. I loro vassalli, advocati, ministeriali spesso si permettevano eccessi che obbligavano il convento ad intervenire, i loro servi pure davano da fare, sia che v o lessero sposare persone della loro condizione soggette ad altro padrone, sia che commettessero dei delitti o viceversa rimanessero vittime di violenze e chiedessero protezione.
Di qui una serie di occupazioni cui anche il più desideroso di solitudine non poté sottrarsi, perché si trattava dei beni della chiesa, o, come si soleva dire, del santo cui era dedicato il convento. Così i conventi divennero centri di aziende agricole che ebbero grandissima influenza sull'economia generale e sul progresso dei popoli. Non pochi di essi vennero fondati a bella posta perché servissero da pionieri dell'esecuzione di grandi opere. Come Bonifacio un tempo aveva fondato nelle foreste della Germania conventi di frati e di monache agli scopi della conversione, conventi nei quali si sviluppò un dilettantismo letterario insieme con un febbrile entusiasmo religioso ed un ardente spirito di proselitismo, così nei secoli X-XIII, quando si intraprese e si conseguì la conversione degli Slavi e dei popoli nordici, i conventi servirono non solo come centri da cui irradiava la predicazione, ma anche come centri di colonizzazione ed esplicarono talune forme di lavoro artistico e scientifico.
Non tutti i conventi celavano dei dotti entro le loro mura, ma di rado vi mancavano completamente persone abili in questo o quel ramo di lavoro e che sapessero leggere e scrivere. Molti conventi in Inghilterra, Francia, Germania, Italia e regioni adiacenti furono spesso le uniche scuole esistenti sopra una vasta estensione di territorio, gli unici custodi della tradizione letteraria e rappresentanti di una forma di letteratura. Gli unici a conservare preziosi manoscritti di ogni epoca.
I monasteri di Fulda, Hersfeld, Corvey, Gandersheim, Quedlinburg, in Sassonia e Turingia, furono nel periodo dal IX al XII secolo, ed ancora nel XIII, centri di vita intellettuale assai superiore a quelli comuni, ed un grande contributo alla colonizzazione dei paesi slavi dettero nel XII e XIII secolo i monasteri dei cistercensi.
Sotto variatissime forme si resero poi benemeriti in Germania i monasteri di S. Gallo, Reichenau, Gembloux, Prum, Magdeburgo e molti altri; e lo stesso deve dirsi per l'Inghilterra, la Francia e l'Italia quanto ai monasteri di Canterbury, S. Eduardo, Bee, S. Albano, Monte Cassino, S. Dionigi, etc.
Se non che dopo due o tre generazioni in un monastero la disciplina di solito decadeva. Ne incontriamo prove talora curiosissime; vicende gravi e futili questioni come quelle che possono agitare comunità di dieci, venti, trenta od anche più persone. Il convento di Schònau vicino ad Heidelberg, in seguito ad una congiura dei conversi, malcontenti perché non erano stati loro forniti gli stivali cui avevano diritto, ebbe a subire vicissitudini così incresciose che in seguito ne fu soppresso il racconto nei manoscritti.
E molti altri conventi sciuparono il tempo e l'attività in analoghe futilità ed in analoghe beghe. Ma non pochi altri subirono ben più serie vicende. Essi furono sconvolti da gravi lotte interne tra partigiani dell'impero e partigiani della Chiesa, o da conflitti dogmatici, o più spesso da tentativi di rigoroso ristabilimento della regola non più osservata con esattezza. Specialmente questi tentativi procurarono spesso ai monasteri i più gravi guai, giacchè celavano delle mire dispotiche o attinenti alle rendite. E non di rado vicini invidiosi approfittarono dell'occasione per piombare sui conventi come avvoltoi, talora sotto la maschera di riformatori, talora senza questa maschera.
Non bisogna credere di trovare nella generalità dei monaci quell'ideale di purità di sentimenti e di santità che ci immaginiamo debba accompagnare una vita dedita alle pratiche di devozione. Queste pratiche diventano un'abitudine e perdono la parte migliore della loro efficacia se non sono congiunte all'energia intellettuale e morale.
Vediamo infatti ancora oggigiorno dei popoli il cui livello morale é assai basso, e che pure passano la loro vita nella stretta osservanza giornaliera di riti e forme religiose. Non bisogna farsi dunque una idea troppo elevata del monaco medioevale, né desumerne il tipo dalle caratteristiche di talune figure ideali del genere.
Lo zelo e l'abnegazione, che in certi momenti prevalgono, non liberano l'uomo dalle sue debolezze, tanto meno poi quando egli si isola, come non può a meno di fare un monaco che vive in un convento, anche se quest'ultimo non rifiuta ogni contatto con la vita.
La clausura monastica é contro la natura. Solo uomini eccezionalmente predisposti per indole alla vita contemplativa possono riuscire a persistervi per tutto il corso di una lunga vita. Forse questo si può dire riguardo a quel Nilo, che visse con un manipolo di eremiti presso Gaeta, ed osò levare con fermezza la voce contro Ottone III ed il suo papa Gregorio V per il duro trattamento fatto all'antipapa.
Ma persino degli spiriti eminenti, ed indubbiamente ripieni di uno zelo altrettanto sincero quanto ardente, come Pier Damiani, Gregorio VII ovvero S. Bernardo, non vi riuscirono, per tacere di altri che, come papa Urbano III, cedettero agli impulsi dell'odio ed al desiderio di vendetta.
In Gregorio VII il dispregio ascetico delle cose terrene si univa ad una indomabile ambizione di dominio, e noi vedemmo che né il suo cuore né le sue mani rimasero monde dalle brutture che affliggono la vita terrena.
Anche peggio si può dire di quell'esercito di monaci che sotto la sua guida mosse in guerra contro l'ordine politico esistente. Dagli scritti del vescovo Bonizo di Sutri, un fervente gregoriano, scritti che per alcuni avvenimenti storici non sono, é vero, una fonte molto attendibile, ma ci riescono preziosi in quanto ci permettono di gettare uno sguardo nella vita di quei tempi, emerge un quadro ripugnante dell'invidia reciproca, dell'ipocrisia e della multiforme miseria morale di questi santi, asceti di carriera.
Lo stesso Bonizo ci dimostra con la sua indole quanto poco giovi la devozione ascetica a preservare l'uomo dalle debolezze proprie della natura umana.
Analoghe impressioni riceviamo leggendo la cronaca dell'abate Ugo di Flavigny, che comincia dall'anno 1090. Da giovane egli aveva accompagnato in Normandia il suo abate, un gregoriano convinto, che si recava colà, incaricato di restaurare nel paese l'autorità del pontefice romano; ma aveva dovuto veder fallire la missione «perché lo stesso papa si lasciò corrompere».
A Roma il denaro aveva ancora una volta trionfato sui principi. Da abate di Flavigny lo scrittore ebbe poi modo di sperimentare quanto poco le azioni dei suoi amici politici, i partigiani del papa, fossero in armonia coi principi che portavano in processione, di modo che egli alla fine, disgustato, si staccò da loro e passò a militare nel partito imperiale.
È impossibile giudicare particolareggiatamente chi nei conflitti tra questi due campi avversi di chierici e monaci avesse la maggior parte di colpa; ma l'impressione complessiva non muta; le loro caratteristiche negative sono innegabili, e per quanto si voglia essere benevoli e riconoscere che il frasario degli scrittori, composto di luoghi comuni, possa aver ingrandito e peggiorato molte cose, pure non si può a meno di arrivare alla conclusione che tra semplici cittadini si vive meglio che non tra santi e persone che pretendono di essere santi.
L'onesto lavoro per i fini della vita terrena che sono più consoni alla sua natura e più proporzionati alle sue forze addestra l'uomo ad essere padrone di sé e lo preserva dal pericolo della presunzione meglio dell'esclusiva contemplazione delle cose eterne e dell'assorbimento della sua attività nel coltivarle.
La stessa chiesa medioevale ha dovuto sperimentare questa verità di fronte al fanatismo di certi gruppi di eretici ch'essa ha fieramente perseguitato, ed anche il protestantesimo ebbe a fare analoghe esperienze di fronte a fanatici ortodossi ed eterodossi che presentano molte somiglianze con i fanatici medioevali.
Le occupazioni della vita ordinaria, la cura assidua degli interessi economici del monastero, e l'insegnamento o la coltivazione di arti e di studi scientifici furono perciò le migliori ausiliarie per mantenere la disciplina nei chiostri. Ma non bastarono a togliere ogni inconveniente. Lo dimostrano già le numerose falsificazioni di documenti in essi perpetrata; e che non si possono scusare dicendo che nel Medioevo non si badava tanto per il sottile a queste cose, giacché secondo il diritto longobardo e franco i falsificatori di documenti erano puniti con il taglio della mano, quando il reato non rivestiva il carattere di tradimento, nel qual caso era comminata la pena di morte.
Se una scusante si vuol cercare alla sconfinata impudenza con cui chierici e monaci hanno accumulato falsi su falsi, si può anzitutto osservare che una parte delle falsificazioni fu operata per sostituire documenti andati perduti in seguito a sottrazioni od incendi, ovvero per procurarsi una prova di diritti non documentati ma realmente spettanti ai conventi e minacciati dalle usurpazioni di potenti vicini; ed in secondo luogo che i laici per lo più non sapevano leggere e scrivere e quindi era grande la tentazione di toglier loro con la penna quanto essi difendevano con la spada.
In realtà peraltro tutto ciò non vale a giustificare il mal fatto. Anche in monasteri famosi per la loro religiosità ed eminenti per l'influenza esercitata sul progresso della cultura, come quello di Reichenau, ed anche in centri principali dell'organizzazione ecclesiastica, come Roma, Reims, Magonza, Treveri, si é falsificato senza limiti e senza riguardi. Questa ondata dislealtà pesa come una grave macchia sulle chiese e sui monasteri del Medio-Evo.
E l'arma della falsificazione fu adoperata, non solo nella lotta contro il potere civile o per abbattere ostacoli che offrivano le leggi civili, ma anche nei conflitti e nelle rivalità fra varie chiese e vari monasteri.
Già la quasi abitudinaria amplificazione delle leggende relative ai santi protettori dei singoli monasteri era in fondo una falsificazione, per quanto più scusabile delle altre. Ogni nuova edizione della leggenda (ed occorreva spesso ricopiarla perché il manoscritto si consumava con la giornaliera lettura che se ne faceva in refettorio) offriva una buona occasione per moltiplicare il numero dei miracoli del proprio santo affinché non apparisse da meno del santo della chiesa vicina o del monastero salito in maggior fama (ovviamente con gli stessi mezzi).
Ma anche in queste frivole rivalità si verificarono fatti poco lodevoli. Il biografo del vescovo Agrizio, che scrisse ai tempi di Gregorio VII, narra:
«L'arcivescovo Bruno di Colonia, fratello di Ottone I, fece rubare il santo chiodo dal reliquiario di S. Elena e lo fece sostituire con uno somigliante. Ma il chiodo, che il custode corrotto dal vescovo cercava di nascondere sul petto, cominciò d'un tratto a sanguinare e coprì di sangue il custode infedele».
Questa assurda storia é tipica per caratterizzare con qual disinvoltura questi costruttori di leggende asserivano le cose più insensate, e nel tempo stesso ci documenta che lo scrittore riteneva capace un vescovo così pio come Bruno di Colonia di rubare delle reliquie.
Né questo é il solo esempio del genere. Il famoso Einhard fece rubare delle reliquie in Roma, e ci racconta come il fedele servitore che per suo incarico compì il furto si preparò all'impresa con preghiere e digiuni per
assicurarsi l'aiuto di Dio, poi penetrò di notte tempo nella chiesa, sollevò la pesante lapide sepolcrale che nascondeva le agognate reliquie e riuscì a fuggire valicando le Alpi con la preda preziosa.
Le menzogne che preti e monaci andavano spacciando sui miracoli delle reliquie furono ripetutamente stigmatizzate dalla stessa chiesa. L'abate Guiberte del monastero di S. Maria a Negent presso Laon, un monaco di eminenti qualità, benché non fosse alieno dal credere ai miracoli e sostenesse egli pure di averne visti fare con l'impiego delle reliquie (era il periodo del trionfo dei gregoriani sull'impero e della prima crociata), assistette a così sfrontate mariuolerie perpetrate da preti e monaci con le reliquie ed i miracoli, che si sentì costretto dalla sua coscienza ad insorgere. Nello scritto «De Sanctis et pignoribus Sanctorum» egli mostrò come bastasse spesso la più piccola occasione perché si cercasse di far credere al miracolo. Così egli stesso vide che, essendo - e chissà sa come - corsa la voce che un anonimo ragazzo da poco morto fosse in odore di santità, i contadi ni dei dintorni cominciarono ad accorrere in massa in pellegrinaggio alla sua tomba ed a portare donativi.
Allora l'abate della chiesa coi suoi monaci fabbricarono dei miracoli compiuti da questo ragazzo per attirare ancora più gente. Furono ingaggiati degli uomini che dovevano fingersi sordi e pazzi o rattrappiti nelle mani e nei piedi e dovevano poi lasciarsi risanare miracolosamente. Fu provveduto a diffondere le notizie di queste guarigioni, mandando in giro con ostentazione le barelle che erano servite a trasportare gli storpi, accompagnate da sfrontati piazzisti incaricati di bandire come al mercato i miracoli.
Di un'altra chiesa lo scrittore narra una analoga gherminella. La chiesa aveva bisogno di restauri, e per procurarsi il denaro necessario fu dato incarico ad un prete di pochi scrupoli di predicare le meraviglie delle reliquie della chiesa e di incitare i contadini a portare il loro obolo per la sua restaurazione. Costui arrivò alla sfrontatezza di mostrare durante la predica a quella povera gente una piccola custodia in cui disse trovarsi un pezzo del pane che Cristo aveva masticato coi suoi propri denti. Se qualcuno non voleva credervi, poteva chieder se era vero all'abate Guiberto che tutti conoscevano come un gran dotto. Guiberto confessa che arrossì di vergogna di fronte a tale richiesta, ma tacque per un riguardo verso le persone che avevano incaricato il prete di predicare.
Alcuni secoli più tardi, alludendo a questo passo di Guiberto, un pio benedettino diede sul XII secolo questo giudizio complessivo: «La cupidigia del denaro (nefanda pecuniarum libido) dominava in quest'epoca ed accecava preti e monaci sino al punto da trascinarli a tentare (con simili trucchi) di rendere più famose le proprie chiese».
Ed il concilio Laterano del 1215 esortò i vescovi a non tollerare «che coloro i quali visitavano le chiese per adorare le reliquie venissero ingannati con miracoli inventati e con falsi documenti, come accadeva in molti luoghi allo scopo di far denaro».
Importa rilevarlo: la riforma della chiesa operata da Gregorio VII e dagli lnnocenzi non eliminò l'inconveniente delle accennate falsificazioni e l'uso di questi trucchi. Anzi le leggende crebbero dinumero e sul mercato delle reliquie fiorirono gli articoli più inverosimili: il latte di Maria, fiori che Maria aveva in mano all'atto dell'annunciazione, denti ed ossa di santi, anche di santi che non erano mai vissuti, ed oggetti assurdi come il coltello con cui gli armigeri avevano stracciato la veste di Cristo, un frammento dell'eclisse egiziana, e dei pretesi residui della circoncisione di Cristo.
Che era stato trovato e ben conservato (come lo poteva essere è un mistero - ma la provvidenza fa questo e altro) il pezzo di prepuzio di Gesù Cristo, toltogli quando - al pari di tutti maschietti ebrei- era stato circonciso. Le discussioni di quegli ecclesiastici in un consesso subito formatosi furono accanite, ma la vinse la corrente che diceva essere una testimonianza inoppugnabile. Sembra che poi questa reliquia si sia moltiplicata e che ben 5 o 6 chiese in giro per l'Europa ne possiedono una. Compresa l'Italia, a Roma dove ne giunse una e fu venerata; precisamente nella chiesa di CALCATA sulla Cassia, alle porte di Roma (vicino all'odierno autodromo di Vallelunga). Lì è rimasta questa reliquia venerata da tutto il paese fino a pochi anni fa (1970) nel giorno appunto della Circoncisione di Gesù Cristo, che come sappiamo cade il giorno 1° Gennaio; e proprio in tale giorno la reliquia veniva mostrata ai fedeli, finchè un bel giorno il parroco della chiesa, comunicò ai propri fedeli che era stata rubata, cosa che molti non credettero e commentarono che essendo diventata quella reliquia un pò imbarazzante (oltre che poco credibile a nostri giorni) era stata messa da parte.
Questo traffico di reliquie assumeva forme sempre più sconvenienti a misura che la disciplina nei conventi diveniva più rilassata, e di solito i monasteri dopo alcune generazioni finivano per cadere nell'indisciplina e nel completo disordine. Ciò avveniva soprattutto nel IX e X secolo perché non esisteva una sorveglianza organizzata sui monasteri. Questi seguivano bensì tutti la regola di S. Benedetto nella forma data ad essa nel IX secolo da Benedetto da Aniane, ma ogni convento si governava da se. È perciò che nel X secolo il chiostro di Cluny nella Borgogna si fece promotore di una riforma che era ispirata ai più alti ideali della vita religiosa e che cercò di assicurare il mantenimento della disciplina nei conventi riunendoli in una congregazione sotto la sorveglianza dell'abate di Cluny. Il sistema servì poi di modello alla formazione di altre congregazioni. Ma il rimedio non giovò a lungo.
Già S. Bernardo ritenne che l'ordine di Cluny rappresentasse un pericolo per la disciplina monastica e cercò di restaurarla fondando l'ordine dei Cistercensi. Sui primi tempi l'ordine diede splendida prova specialmente per il modo come era organizzata la sorveglianza; ma erano appena passate tre o quattro generazioni ed anche quest'ordine era in via di decadenza in seguito alle ricchezze accumulate.
Le speranze dei fedeli si volsero così agli ordini mendicanti, che vennero fondati nei primi decenni del XIII secolo, e che a causa del voto di povertà e del divieto di possedere denaro e beni sembravano dovere essere garantiti contro i pericoli della ricchezza da cui gli altri ordini non avevano saputo difendersi. Con gli ordini mendicanti spunta un nuovo concetto dell'organizzazione monastica; chi voleva entrarvi doveva cioè rinunziare all'appartenenza ad un determinato convento; chi si votava a S. Francesco od a S. Domenico apparteneva all'ordine tutto intero, e quindi poteva essere impiegato dall'ordine in vari paesi e destinato a varie funzioni.
S. Domenico e S. Francesco d'Assisi, i fondatori dei due grandi ordini di frati mendicanti, furono due personalità assai diverse per indole. Erano entrambi di sangue latino, il primo uno spagnolo, il secondo un italiano. S. Domenico fu spinto a fondare il suo ordine dalla constatazione delle vaste proporzioni assunte dall'eresia in Francia e si propose come fine immediato la lotta per la difesa della chiesa.
S. Francesco invece fu spinto da vicende ed inclinazioni personali a perseguire quell'ideale di povertà che aborriva da tutti gli splendori non solo del mondo, ma anche della chiesa cattolica. In lui si nota una tendenza avversa all'organizzazione sociale che richiama alla mente Tolstoi e gli idealisti anarchici dei nostri giorni; ma egli non sconfinò dal campo degli ideali religiosi. Lo circondava l'aureola del santo che trionfa delle tentazioni del mondo, che con la preghiera, la fede e l'amore sconfinato per tutta l'umanità costruisce un ponte tra il cielo e la terra. Egli cominciò la sua carriera con un atto che presenta una somiglianza alquanto sospetta con la leggenda di S. Crispino, e con l'impeto travolgente della sua predicazione e con l'umile amorosa assistenza dei poveri e dei derelitti, e conquistò aisuoi ideali un gran numero di giovani ed anche uomini che avevano fatto già esperienza della vita.
Con l'aiuto dei grandi papi Innocenzo III ed Onorio III, e soprattutto per loro incitamento, S. Francesco formò dei suoi seguaci un ordine, cosa che originariamente non era nelle sue intenzioni. Egli disse d'aver visto nell'estasi un angelo imprimergli le stimate di Cristo, e quando poco dopo morì i suoi seguaci non trovarono più limiti nella loro venerazione.
Appena due anni dopo la sua morte (m. 1226) papa Gregorio XI lo santificò, ed alcune generazioni più tardi il capitolo generale del suo ordine approvò un libro che cercava di dimostrare come S. Francesco fosse stato sotto molti aspetti simile a Cristo ed in alcuni riguardi lo avesse persino superato.
Tutto questo è in armonia col quadro dell'Italia nel XIII secolo che il suo ciclo di eroi, accanto ai tipi dei grandi condottieri come Ezzelino da Romano, degli audaci mercanti, come il doge di Venezia che guidò la crociata del 1203, e dei grandi papi, abbia avuto anche il tipo del santo mendicante.
Il clero ed i vecchi ordini monastici si erano mondanizzati. Le pretese al predominio universale che accampò a quei tempi la chiesa, sotto
Innocenzo III ed Innocenzo IV, non potevano essere mantenute e difese con l'aiuto di simili ausiliari. Perciò la fondazione degli ordini mendicanti sembrò un'àncora di salvezza per la chiesa, e di fatti essi le resero i massimi servigi sia nei riguardi politici, sia nei riguardi della sua vera missione, la cura d'anime e la cultura ecclesiastica, benché anche sotto la forma dell'inquisizione.
I papi li dotarono di estesi poteri ed a loro affluì dapprincipio in massa la più eletta gioventù, specialmente alle università e scuole affini. Ma non era ancor trascorso il XIII secolo, e già contro di loro si vedono levarsi le più aspre accuse ed accumularsi numerose prove che dimostravano come avesse avuto ragione il poeta, che aveva salutato con l'entusiasmo il sorgere di questi ordini, ad esprimere il timore che anch'essi avrebbero probabilmente battuto lo stesso iter tritum, vale a dire seguito quella stessa strada che aveva condotto gli altri ordini monastici al traviamento verso la potenza e la ricchezza, il peccato e la colpa.
Mundus et religio, il clero secolare ed il clero regolare, erano le due classi in cui si accentrava l'esercizio dell'autorità spirituale e il godimento dei privilegi ecclesiastici. Fin da principio tra questi due gruppi, pur legati da vincoli di solidarietà, si produssero in frequenti lotte e rivalità. Precipuamente molti conventi cercarono di sottrarsi all'autorità del vescovo e mettersi alla diretta dipendenza del papa. Ed i papi favorirono volentieri queste tendenze per procurarsi in questi monasteri degli strumenti sicuri per esercitare lontano e direttamente la propria influenza. Così avvenne sin dall'VIII secolo per il monastero di Fulda nell'Assia ed in seguito per molti altri conventi in tutti i paesi. Un passo ulteriore su questa via fu fatto col sottrarre all'autorità dei vescovi gli ordini mendicanti nella loro totalità. Tra questi ordini ed il clero secolare si accese pertanto una lotta i cui inizi risalgono allo stesso XIII secolo, che si rinnovò continuamente e spesso mise in agitazione intere città ed interi paesi, e di cui il famoso conflitto scoppiato verso la metà del secolo tra i dotti domenicani ed i professori dell'Università di Parigi appartenenti al clero secolare non costituisce che un episodio.
E ben più importante fu il perpetuo conflitto provocato dal privilegio concesso ai due ordini di predicare ed esercitare la cura delle anime dappertutto, di seppellire nei propri cimiteri anche gli amministrati delle parrocchie e di seppellire laici rivestiti dell'abito dell'ordine. Con ciò essi sottraevano ai parroci una parte considerevole delle loro rendite e della loro influenza.
In occasione del citato conflitto scoppiato a Parigi papa Innocenzo IV aveva dovuto convenire che i mendicanti, sino allora favoriti col criterio parziale da Roma, si erano resi colpevoli di molte usurpazioni. Ma il suo disfavore non pose affatto fine alla lotta. I mendicanti conservarono i loro privilegi e papa Martino IV li confermò ed ampliò con la bolla Ad fructus uberes, che gettò il clero francese in una fiera agitazione.
I vescovi protestarono che i privilegi dei mendicanti portavano la disorganizzazione nelle loro diocesi e rendevano impossibile di mantenere l'ordine nelle parrocchie. In realtà il motivo principale è che temevano di trovarsi con meno parrocchiani e quindi incassare meno donativi.
Anche ora essi trovarono degli alleati volenterosi nei professori di teologia dell'Università di Parigi e si proposero di prendere energiche deliberazioni quando si adunarono nel concilio nazionale francese del 1290. Ma qui il rappresentante della curia, Benedetto Gaetani, quello che pochi anni dopo salì al papato col nome di Bonifacio VIII, li fulminò in concilio con le sprezzanti parole che “l’unico membro sano dell'organizzazione della chiesa erano gli ordini mendicanti. I vescovi dovevano ubbidire. Roma concedeva i suoi privilegi dopo matura riflessione, Roma non procedeva alla leggera ma con i piedi di piombo (pedes non plumeos sed plumbeos)”.
Il concilio si lasciò intimidire. In sostanza però i vescovi, se non potevano negare che l'organismo della chiesa era afflitto dai mali da capo a piede, avevano ragione a ritenere che questa macchia era comune alla stessa curia ed anche agli ordini mendicanti. Gli ordini mendicanti non difettarono anche nella seconda metà del XIII secolo e nel XIV secolo di uomini eminenti, come i domenicani Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, ovvero i francescani Bonaventura e Ruggiero Bacone; ma non é meno certo che essi non arrecarono quella guarigione dei mali della Chiesa che dà loro si aspettava. Ché anzi essi medesimi rimasero contagiati dagli stessi mali e sotto molti aspetti li aggravarono. Dato ciò, é naturale che i vescovi non potessero tollerare che costoro con i loro privilegi sconvolgessero l'organizzazione ecclesiastica, era naturale che non volessero rinunciare alla sorveglianza sui membri di questi ordini che esercitavano tanta influenza nelle loro diocesi con la predicazione e col confessionale ed in molte occasioni, non esclusi i conflitti tra vescovi ed autorità civile o tra vescovi e città, prendevano le parti contrarie ai vescovi.
Gli ordini mendicanti misero sotto molti riguardi in contatto il clero con il ceto laico e contribuirono perciò notevolmente ad affrettare quell'evoluzione, già prodottasi in seguito al progresso economico e sopra tutto intellettuale del ceto laico, che doveva attenuare, se non sopprimere, l'antitesi tra clero e laici. Questa antitesi aveva le sue origini nella posizione dominante, in quella specie di autorità tutoria, che il clero aveva acquistato sui laici principalmente in materia ecclesiastica e che gli aveva fruttato un complesso di privilegi in fatto di giurisdizione, di imposte e di obblighi personali ed in molti altri riguardi della vita pubblica. Questa posizione privilegiata dei clero, in grazia dei dogmi della chiesa e del metodo dominante di giustificare simili cose con arbitrarie interpretazioni di passi della bibbia e con semplici analogie, era divenuta poi così salda che era ben difficile scuoterla. I conflitti tra i papi ed i vescovi che difendevano la loro indipendenza, lo spirito del diritto romano e l'evoluzione sociale avevano bensì fatto qua e là qualche breccia nella posizione del clero; ma sotto questo aspetto ebbe una particolare importanza il dissidio tra il clero secolare e gli ordini mendicanti. Questi ordini si videro guardati dal popolo come i veri rappresentanti della vita religiosa e si posero perciò sotto vari riguardi in più intimo contatto col popolo.
Soprattutto (a cominciare dal 1221) essi aggravarono al loro ordine in forma meno vincolata sotto il nome di terziari e terziarie numerose persone dei due sessi che desideravano partecipare ai benefici inerenti alla professione ecclesiastica pur rimanendo di condizione laica. Queste schiere di semi-monaci e semi-monache crearono un visibile trait-d’union tra clero e laicato. Anche una quantità di commercianti presero non di rado nel XIII secolo gli ordini minori, perché, dato che chierici e monaci pure loro esercitavano gli stessi commerci, essi non potevano sperare utili dalla loro attività se non si procuravano le stesse esenzioni da dazi ed imposte di cui godevano i loro concorrenti del ceto ecclesiastico.
Gli ordini minori non impedivano loro di continuare nella vita laica e semplicemente offrivano ad essi il modo di fruire di parecchi privilegi del clero. Al processo di parificazione tra clero e laicato contribuì pure l'abitudine invalsa per la quale molti membri di corporazioni ecclesiastiche non prendevano che gli ordini minori ed anche nessun genere di ordini, e la consuetudine di conferire cariche ecclesiastiche anche a ragazzi che non potevano essere in alcun modo ordinati. Ma più che altro agi nello stesso senso la maggior diffusione che l'istruzione andò prendendo tra i laici nel XII e XIII secolo e principalmente la formazione di una vasta classe di dotti comprendente laici ed ecclesiastici.
Sino al XII secolo il clero era stato press'a poco l'unico a saper leggere e scrivere, a conoscere il latino ed a coltivare le scienze teologiche; questo gli aveva assicurata una grande preponderanza sul ceto laico. Nei secoli XII e XIII invece un numero sempre maggiore di laici, favoriti dal fiorire delle Università, ebbe modo di conoscere e trattare con indipendenza di giudizio i metodi ed i risultati delle scienze teologiche e filosofiche, il cui esclusivo possesso aveva circondato il clero di tanto prestigio.
Nelle Università inoltre i dottori di teologia, per lo più eminenti rappresentanti del clero, non costituivano che un gruppo di più vaste corporazioni comprendenti chierici e laici. Tutto ciò peraltro non valse a colmare pienamente il vuoto che separava le due classi, anzi la maggior potenza acquistata dai preti sotto gli lnnocenzi tornò ad acuire le differenze.
Possiamo dire che nel XIII secolo fu semplicemente posta la prima base della futura parificazione; ma l'antitesi tra clero e laici rimase tuttavia una delle caratteristiche più spiccate dell'organizzazione sociale del tempo.
Sarebbe però erroneo credere che i privilegi spettanti agli ecclesiastici, anche di infima origine, a confronto di qualsiasi laico, sia pure il più nobile, abbiano prodotto in seno al clero una parificazione che non teneva conto delle differenze di classe sociale. Certo, uomini di bassa origine pervennero talora alle più alte dignità ecclesiastiche; ma furono casi eccezionali. In complesso invece la Chiesa si è adattata alle esigenze dell'organizzazione sociale medioevale con le sue distinzioni di classi: gli uffici ecclesiastici più elevati e più riccamente dotati non vennero mai conferiti, salvo eccezioni relativamente scarse, che a persone provenienti dalle classi nobili, e molti conventi e capitoli erano riservati per statuto o per consuetudine solo a determinate sfere della nobiltà.
Molti chiostri vennero sin dall'inizio fondati ad esclusivo uso di una famiglia, cioè con lo scopo di dare un idoneo collocamento ed assicurare una rendita sufficiente ai maschi della famiglia che non potevano conseguire un feudo conveniente ed alle donne che non trovavano un conveniente matrimonio. I chiostri insomma facevano l'ufficio delle moderne assicurazioni ed istituti analoghi e servivano quindi a tutelare il mantenimento della vecchia organizzazione di classe.
Il movimento delle crociate ed i bisogni nuovi da esse generati provocarono il sorgere di uno speciale gruppo di ordini monastici, gli ordini cavallereschi ecclesiastici, composti di cavalieri che continuarono a cingere la spada benché avessero fatto voti monastici, e sotto molti riguardi conducessero od almeno fossero obbligati a condurre vita monastica.
L'ordine più antico é quello dei Giovanniti che sembra uscito da una organizzazione di frati serventi dedicatisi alla cura dei pellegrini ammalati degenti nell'ospedale di S. Giovanni. All'inizio del XII secolo nella loro regola venne incluso anche l'obbligo di combattere contro gli infedeli.
Essi acquistarono rapidamente grandi privilegi e ricchezze; nel 1187 dovettero abbandonare Gerusalemme dinanzi alle armi di Saladino, ma si mantennero sino al 1291 a Tolemaide in Siria. Dal 1291 al 1309 difesero Cipro, poi Rodi e dal 1522 in poi Malta.
A queste varie sedi successive é dovuta la varietà di denominazioni che il loro ordine ebbe. A Gerusalemme essi indubbiamente resero notevoli servigi a favore degli infermi ed a vantaggio della chiesa, ma dovettero sostenere pure molte lotte con i vescovi locali ed anche con i litigiosi re. Orgogliosi delle loro ricchezze, del numero dei loro guerrieri e dei loro castelli, delle loro relazioni e dei loro privilegi, questi cavalieri assunsero l'attitudine di una potenza autonoma in seno alla vacillante monarchia gerosolimitana e di fronte al pretenzioso ma debole episcopato locale, col quale vennero a conflitto per avere arbitrariamente trasformato il limitato privilegio loro concesso di celebrare messa anche in tempo di interdetto nel diritto generale di non tener conto degli interdetti emanati dai vescovi.
Questo conflitto ci rivela uno degli espedienti con cui il mondo finiva per sottrarsi alle vessazioni inerenti a questo genere di pene ecclesiastiche, che erano divenute intollerabili in seguito al continuo abuso di tali pene. Da che parte poi stesse la ragione o il torto nelle controversie tra l'ordine degli Ospitalieri ed i patriarchi ed i re di Gerusalemme è impossibile giudicare. Le due parti intanto vi portavano la stessa misura di sentimento d'orgoglio, e la situazione era spesso così complicata che anche un uomo di buona volontà poteva trovarsi costretto ad elevare delle pretese che ad altri sembravano ingiuste.
L'ordine del resto diede prova di abnegazione; esso seppe raccogliere ed organizzare una considerevole massa di forze per la lotta contro l'islamismo.
Lo stesso deve dirsi dei Templari. L'ordine dei Templari fu fondato nel 1119 allo scopo di proteggere coloro che si recavano in pellegrinaggio a Gerusalemme ed in origine ebbe la sua sede nel palazzo reale della città che doveva trovarsi dove una volta sorgeva il tempio di Salomone. L'ordine nel corso dei secoli XII e XIII salì a grande potenza e ricchezza e perciò suscitò ben presto l'invidia dei grandi, così ecclesiastici come laici. Ci si dice che verso la fine del XIII secolo avesse raggiunto il numero di 20.000 cavalieri, fra i quali non pochi uscivano da nobili famiglie e godevano di influentissime relazioni.
Nella lotta contro papa Bonifacio il re Filippo il Bello sollecitò ed ottenne l'appoggio dei Templari; e così pure numerosi altri potenti e semplici cittadini invocarono la protezione dell'ordine, pagandola a prezzo di donativi o di impegni contratti verso di esso. I Templari avevano estesi possedimenti e largo seguito principalmente in Francia; qui l'ordine rappresentava quasi uno Stato nello Stato, le immunità giurisdizionali e gli altri privilegi ed esenzioni dei suoi possessi turbavano e sconnettevano l'organizzazione ecclesiastica ed impacciavano l'attività amministrativa dei funzionari regi.
Re Filippo, che mirava a risollevare in Francia l'autorità della corona, si trovò costretto a preoccuparsi di questo stato di cose, per il quale si sentiva ostacolato nella sua opera dalla politica dell'ordine necessariamente ispirata a criteri indipendenti (giacché l'ordine non era una istituzione francese). E siccome aveva visto che per respingere vittoriosamente le pretese di papa Bonifazio aveva trovato sufficiente sostegno nella nobiltà, nelle città ed in una notevole porzione del clero, così osò ora iniziare quella lotta contro l'ordine che gli deve essere stata prospettata quale necessaria ed imprescindibile da molti dei suoi consiglieri.
Papa Clemente V era in quel periodo in piena balia del re francese e fu costretto a servirgli da strumento per la distruzione dei Templari. Già in materia di politica estera della Francia papa Clemente aveva rappresentato questa parte miserevole, obbligandosi a scomunicare il conte di Fiandra qualora avesse violato il trattato concluso col re Filippo IV ed a non proscioglierlo dall'anatema se non su richiesta del re di Francia.
Anche più servile egli si dimostrò nella questione dei Templari. L'ordine annoverava migliaia di uomini per la giovane età gagliardi e propensi alle avventure cavalleresche ed ai godimenti, per lo più uscenti dalle classi sociali elevate e quindi abituati alla vita propria di queste classi; tutta gente che per il ristagno della lotta contro i maomettani in Oriente era in sostanza disoccupata e viveva in Francia godendosi le ricchezze dell'Ordine.
Nessuna meraviglia perciò che molti di costoro, mettendo un po' nel dimenticatoio la regola dell'ordine, sperperassero in eccessi quell'esuberante energia che non trovava impiego altrove. Ciò offrì il pretesto ad accuse da parte del re, che il papa compiacentemente assecondò, benché entrambi un momento prima nei loro rapporti con l'ordine avessero dimostrato di considerarlo come un potente sostegno della chiesa.
Non è il caso di riferire qui i particolari della terribile tragedia che ne seguì; basterà accennare che nelle fiamme che incenerirono il generale dei Templari, Giacomo di Molay, perì anche in gran parte il papato medioevale. Questi roghi liberarono dai residui del medioevo il terreno su cui sorse poi l'edificio della monarchia della Francia moderna.
A potenza analoga a quella dei due ordini sopra ricordati salì pure l'Ordine Teutonico; e ciò pochi decenni dopo che esso era stato fondato durante la crociata del 1191. Gli imperatori Enrico VI e Federico Il lo dotarono di copiosi privilegi e possedimenti, ed in occasione della conquista e conversione della Prussia quest'ordine contribuì alla colonizzazione tanto quanto pochi re e principi seppero fare.
I Gran Maestri dei tre grandi ordini cavallereschi, i Templari, i Giovanniti ed i cavalieri dell'Ordine Teutonico, ebbero nel XIII secolo una parte importante nei negoziati tra imperatori e papi, intervenendovi spesso come avrebbero fatto dei principi di potenze indipendenti.
Ciò che poi soprattutto va rilevato é che anche questi ordini, data la loro vita semi-monastica e semi-cavalleresca, contribuirono a quel processo che era destinato a cancellare l'antitesi tra clero e laicato e prepararono la via alla più liberale organizzazione della società moderna.
"da http://cronologia.leonardo.it/umanita/papato/cap075.htm"