LO STERCO DEL DIAVOLO - Jacques Le Goff

Commercio, istituzioni, usi e costumi, istruzione...
Avatar utente
Veldriss
"IL CREATORE"
"IL CREATORE"
Messaggi: 5345
Iscritto il: 21 ottobre 2008, 10:55
Località: Sovere (BG)
Contatta:

LO STERCO DEL DIAVOLO - Jacques Le Goff

Messaggio da leggere da Veldriss »

3. LA SVOLTA DEI SECOLI XII-XIII: IL DECOLLO DELLA MONETA E DEL DENARO

Durante questo periodo, sotto molti punti di vista cruciale per la storia delle società medievali, si sono verificati cambiamenti fondamentali che hanno avuto un impatto decisivo anche sull'uso e sulla concezione del denaro. I principali sono i seguenti: l'evoluzione del lavoro del mercante, che da itinerante diviene sempre più un imprenditore sedentario; la ripresa della vita urbana, con le città che diventano grandi creatrici e consumatrici di denaro; il ritorno alla monetazione aurea; la legittimazione del profitto nella pratica mercantile e le prime riflessioni per giustificarlo, pur entro certi limiti e condizioni; il lento passaggio dalla condanna assoluta dell'usura e degli usurai a una certa indulgenza verso il guadagno, gli interessi e le persone che si arricchiscono; la maggiore circolazione della moneta e la sua regolamentazione, grazie al rafforzamento dei poteri pubblici, soprattutto monarchici; la promozione dell'immagine del lavoro; lo sviluppo dell'insegnamento e della pratica del diritto. Paradossalmente, l'incremento del numero dei ricchi e la crescente tolleranza verso l'uso e l'accumulo di denaro coesiste, o meglio si sviluppa in stretto rapporto, con l'elogio della povertà, la proliferazione delle iniziative di beneficenza ai poveri e l'assimilazione dell'immagine dei pauperes alla figura di Cristo. L'inizio del secolo XIII è insieme il tempo della canonizzazione del ricco mercante cremonese sant'Omobono (nel 1204, a dire il vero malgrado la sua ricchezza) e della glorificazione della povertà da parte di san Francesco d'Assisi.

LO SVILUPPO DEL COMMERCIO
Lo sviluppo del commercio a lungo raggio - che deve poco alle crociate, imprese militari senza grandi profitti per la cristianità - si concretizza nel superamento dei piccoli mercati locali o regionali grazie all'istituzione e al successo, si può ben dire internazionale, di alcune grandi fiere. L'esempio meglio conosciuto, e senza dubbio il più importante nei secoli XII e XIII, è quello delle fiere della regione della Champagne, che si susseguivano per tutto l'anno: a Lagny in gennaio-febbraio, a Bar- sur-Aube in marzo-aprile, a Provins in maggio-giugno (l'evento principale era quello di maggio), a Troyes in estate (il culmine era la fiera di San Giovanni, che durava dal 24 giugno fino a metà luglio), di nuovo a Provins in settembre-ottobre (con la fiera di Sant'Aiolo come momento di maggior richiamo), e infine ancora a Troyes in novembre-dicembre (soprattutto in occasione della fiera di San Remigio). I conti di Champagne, nel cui territorio si tenevano le fiere, vigilavano sulla legalità e sulla correttezza delle transazioni, agendo come garanti delle operazioni commerciali e finanziarie. Allo scopo vennero nominati dei funzionari specifici, sovente dei borghesi con un mandato pubblico di controllo su quanto avveniva nelle fiere, che restarono operativi fino al 1284, anno in cui il re di Francia acquisì il controllo diretto della Champagne e trasferì l'incarico a funzionari regi. La serietà dei controlli sulle operazioni finanziarie e sull'onestà dei cambi conferirono a queste fiere il ruolo di embrionali clearing-houses. Il ruolo delle fiere quali occasioni per concludere accordi e saldare debiti divenne così sempre più importante nella vita economica e sociale del Medioevo. Esse offrirono non solo opportunità di arricchimento ai mercanti, ma anche nuovo impulso alla circolazione del denaro contante.

LO SVILUPPO DELLE CITTÀ
Un'altra causa della ripresa della circolazione del denaro fu lo sviluppo delle città. Certo, la moneta non era sconosciuta in ambito rurale: i signori, nel quadro della cosiddetta economia feudale, richiedevano sempre più spesso ai contadini che le rendite venissero pagate non solo in prodotti o prestazioni, ma anche in denaro, la cui quota in queste forme di riscossione era in costante aumento.
Se dunque non è corretto parlare di «economia naturale» in contesto rurale, a maggior ragione ciò vale per la città.
L'uso del denaro nello spazio urbano venne incoraggiato dallo sviluppo dell'artigianato, che stimolò l'acquisto di materie prime e la vendita di prodotti finiti, il ricorso a manodopera salariata - come ha ben mostrato Bronislaw Geremek relativamente alla Parigi dei secoli XIII e successivi. L'aumento del livello di vita delle popolazioni urbane generò nuove disparità sociali, questa volta tra borghesi ricchi e cittadini poveri. Se le crocia te non stimolarono che in misura minima il commercio con l'Oriente, il loro finanziamento drenò una quantità rilevante delle ricchezze signorili, il che comportò un calo dell'importanza economica dell'aristocrazia rispetto alla borghesia che invece si andava arricchendo. Il periodo dell'edificazione delle grandi cattedrali (secoli XII-XIII), che uno stereotipo suggeriva realizzata con lavoro gratuitamente offerto a Dio, determinò in realtà una pesante uscita di liquidità dalle finanze ecclesiastiche e cittadine rallentando di fatto il ritmo di crescita della ricchezza urbana, come mostrerò più avanti, benché sia impossibile accettare la tesi di Roberto Sabatino Lopez, secondo il quale le cattedrali avrebbero «ucciso» l'espansione dell'economia monetaria. Al contrario, sembra piuttosto che la costruzione di cattedrali, chiese e castelli in pietra - mentre la maggioranza delle dimore urbane era in legno - abbia alimentato e non prosciugato l'economia monetaria. L'attività dei mercati urbani acquistò dinamismo e divenne quotidiana, con la conseguente necessità di edificare luoghi appositi, che ancora oggi colpiscono i visitatori, per ospitare questi nuovi spazi in cui si praticava un commercio basato sul denaro. Nella Parigi di Filippo Augusto (1180-1223), iniziative grandiose come la costruzione delle mura e dei mercati al coperto dimostrano la crescente disponibilità di contante in circolazione.
L'ottenimento di privilegi fiscali da parte delle città ridusse l'importanza di quelle rendite signorili che frenavano il dinamismo economico e la diffusione del denaro. Il denaro fu il collante delle associazioni che si formarono sia all'interno delle città, le gilde, sia tra diverse città che traevano dal commercio il proprio benessere, le hanse. Alcune regioni della cristianità conobbero un inedito sviluppo urbano e commerciale che permise loro di ottenere ricchezza e potere maggiori, nonché un'immagine di prestigio rispetto alle aree in cui la crescita era inferiore e il denaro circolava meno.
Il successo premiò due regioni in particolare. La prima è il Nord-est dell'Europa, dalle Fiandre ai paesi baltici: le città si arricchiscono inizialmente grazie al commercio di tessuti, ma presto le loro produzioni artigianali - e quasi industriali nel settore tessile - aumentano e diversificano l'offerta. Esse vanno a costituire una rete di scambi al cui interno cresce la circolazione del denaro. Questa rete di centri urbani, per citare soltanto i più ricchi, include Arras, Ypres, Gand, Bruges - la più potente - Amburgo, Lubecca, fondata nel 1158, fino a Riga, fondata nel 1201, e Stoccolma, fondata intorno al 1251.
A queste città occorre aggiungere Londra, che diventa una forza economica proprio inserendosi nel circuito anseatico. La seconda regione dominante è l'Italia settentrionale, Toscana compresa, e più in generale lo spazio mediterraneo. I centri maggiori sono Milano, Venezia, Genova, Pisa, Firenze e, a un secondo livello, Cremona, Piacenza, Pavia, Asti, Siena e Lucca.
Genova, tra le altre cose, è lo snodo di un grande mercato di schiavi provenienti dalla Spagna, dove avanza la reconquista e sono attivi trafficanti catalani e maiorchini, e dalle regioni del Mar Nero. È proprio sul Mar Nero, a Caffa, che nel 1347 una nave genovese imbarcherà verso l'Europa il virus della peste bubbonica. Nel frattempo, a Venezia si sviluppa dal secolo XIII una vera industria del vetro, concentrata principalmente sull'isola di Murano.
A questo duplice propulsore si aggiunge il risveglio delle città della costa atlantica, in particolare La Rochelle, che il re di Francia conquista nel 1224, e Bordeaux, dove, dopo l'insediamento degli inglesi nel Sud-ovest della Francia, si sviluppano la cultura e il commercio del vino, da allora straordinaria fonte di ricchezza per la regione. L'Inghilterra, peraltro, non importa solo i vini di Bordeaux; sono apprezzati anche quelli del Poitou esportati da La Rochelle. Nel 1177, trenta navi che trasportano in Inghilterra vino del Poitou naufragano nella Manica al largo di Saint- Valéry-sur-Somme.
In rapporto alle campagne, che non vivono più significativi progressi dopo il secolo XII2, le città sono luoghi di grande dinamismo: nell'ambito del lavoro, in virtù dei progressi tecnologici che permettono di sfruttare l'energia dei mulini cittadini per la metallurgia, la conceria e perfino la produzione della birra; e in ambito sociale, poiché, con la parziale eccezione dell'Italia in cui i nobili conservano dimore urbane, sono i mercanti a diventare i «signori» delle città, con i loro traffici e i loro salariati. Una volta trasformatisi in imprenditori, essi approfittano della promozione dell'idea di lavoro, in passato disprezzato come conseguenza del peccato originale, per affermare il loro dinamismo economico e sociale. Questo sviluppo urbano è uno dei motori fondamentali dell'espansione della moneta nei secoli XII e XIII - anche se forse bisognerebbe parlare di monete, al plurale, dal momento che non esiste un mercato monetario e l'impiego del denaro non ubbidisce ad alcun sentimento identitario.

IL BISOGNO DI DENARO
Se l'incremento dell'impiego del denaro è il frutto della crescita economica urbana, esso supera però i confini citta dini. È il caso del mercato dei tessuti e dei tendaggi, che genera importanti flussi di acquisti, vendite e scambi perfino all'esterno della cristianità. Questo settore è il solo a raggiungere un livello quasi industriale e fornisce uno stimolo decisivo alla circolazione del denaro; a prosperare sono soprattutto i commercianti di Fiandre e Hainaut, anche se una parte della produzione tessile, che rimane in gran parte individuale pur beneficiando di notevoli progressi tecnologici, è in effetti localizzata nelle campagne. Anche i castelli potrebbero aver ospitato la produzione tessile, almeno se si accetta come un riflesso della realtà storica un celebre passo deH'frec ed Enide di Chrétien de Troyes (1170 circa), che descrive le vessazioni subite da un gruppo di lavoratrici della seta in un laboratorio castellano.
Ciò che vale per il tessile si applica anche all'edilizia, che vede ridursi l'apporto del legno a vantaggio di pietra e metallo. Per limitarsi a un esempio solo, tra i secoli XI e XV l'estrazione e la commercializzazione della pietra di Caen raggiungono livelli industriali che necessitano un crescente ricorso al denaro. Nel complesso lo sfruttamento delle cave ha contribuito assai più di quello delle foreste al rilancio dell'economia monetaria3. Gli archeologi medievali francesi, sul modello dei colleghi polacchi, hanno cominciato a interessarsi del mondo rurale e hanno scoperto che spesso anche le abitazioni contadini non erano costruite in legno, ma in pietra, come dimostrano gli scavi coordinati da Jean-Marie Pesez nel villaggio borgognone di Dracy, in Còte-d'Or4.
Vale la pena osservare che la svolta dei secoli XII-XIII segna l'apogeo, ma anche il principio del declino del ruolo degli ordini monastici nello stimolare la circolazione del denaro.
Alcuni monasteri, in particolare quelli nella sfera di influenza di Cluny, sono stati tra i primi prestatori di denaro ai laici che] necessitavano di liquidità; in seguito, tuttavia, la domanda di contante diventa così alta da escludere dal gioco i monasteri.
Di fronte alla crescita della domanda di denaro la cristianità si scopre priva di adeguate risorse interne di metal-i lo prezioso, malgrado lo sfruttamento di nuove miniere e la diffusione nell'Europa orientale e settentrionale di monete in] argento di grande valore e anche di pezzi aurei bizantini e isla-j mici. Per tale ragione il progresso dell'economia monetaria nel' secolo XII resta limitato, mentre per gli storici è ancora difficile stabilire con precisione l'importanza del denaro a quest'epoca.
La scarsa collaborazione interdisciplinare tra economisti e numismatici, insieme all'ambiguità delle poche fonti scritte, che] spesso non permettono nemmeno di capire se si stia parlando di monete reali o di valuta di conto, rende questo periodo della storia del denaro un territorio ancora da esplorare. Molte cose! cambiano nel secolo XIII: l'aumento della documentazione m soprattutto, i progressi reali dell'economia monetaria dopo la grande svolta vissuta dall'Occidente cristiano tra 1150 e 1250, consentono agli studiosi di muoversi con maggiore sicurezza.

"tratto da
LO STERCO DEL DIAVOLO
Il denaro nel Medioevo
di Jacques Le Goff"
Avatar utente
Veldriss
"IL CREATORE"
"IL CREATORE"
Messaggi: 5345
Iscritto il: 21 ottobre 2008, 10:55
Località: Sovere (BG)
Contatta:

Re: LO STERCO DEL DIAVOLO - Jacques Le Goff

Messaggio da leggere da Veldriss »

4. IL DUECENTO, SECOLO FELICE DEL DENARO

Nel 1988 lo storico inglese Peter Spufford ha pubblicato un libro diventato un classico, Money and its Use in Medieval Europe. Spufford, ispirandosi a Fernand Braudel che aveva parlato di un «lungo secolo XVI», dedica la parte centrale della sua opera a ciò che chiama «la rivoluzione commerciale del secolo XIII», precisando che il suo lungo XIII secolo va dal 1160 al 1340 circa. È appunto di questo lungo secolo XIII che qui si discute, un periodo che si configura come un autentico apogeo dopo la fase preparatoria del secolo XII e prima delle difficoltà e dei conflitti che perturberanno l'economia monetaria nella seconda metà del Trecento: un lungo «secolo felice».

IL DIBATTITO INTORNO AL DENARO
Un segno visibile della nuova centralità del denaro si trova nel dibattito che si accende intorno al tema del prestito a interesse, che per la Chiesa è ancora usura, e nell'atteggiamento ambivalente della stessa Chiesa nei confronti degli usurai, oscillante tra il rafforzamento dell'ostilità tradizionale e l'ab-l bozzo di una certa indulgenza. Il secolo XIII è infatti l'epoca in cui il dibattito teorico sul denaro è più intenso in ambito] ecclesiastico. La presenza del denaro nella teologia e nella predicazione si deve in massima parte alla nascita e all'affermazione di nuovi ordini religiosi attivi non nelle campagne, ma nelle città - gli ordini mendicanti, i principali dei quali sono domenicani e francescani - al fatto che la predicazione urbana preferisce il volgare al latino - raggiungendo così una larga massa di fedeli - e all'insegnamento universitario che, affrontando problemi direttamente concernenti la vita concreta dei cristiani, elabora sintesi, chiamate Summae, nelle quali trova spazio anche una discussione intorno al ruolo del denaro. La stessa fondazione delle università si situa all'interno del contesto intellettuale, economico e sociale che vive in termini problematici la crescente presenza del denaro nella cristianità medievale.
Consideriamo, a titolo di esempio, una serie di sermoni settimanali tenuti perlopiù in volgare, ovvero in tedesco, da Alberto Magno ad Augusta (Augsburg) nel 1257 o nel 1263.
Alberto, uno dei maggiori intellettuali scolastici del suo secolo, è un domenicano che dopo gli studi a Padova e Colonia consegue il titolo di maestro in teologia all'Università di Parigi tra il 1245 e il 1248. In seguito insegna allo Studium di Colonia, dove tra i suoi allievi c'è Tommaso d'Aquino, e predica in diverse città della Germania fino alla morte, che lo coglie a Colonia nel 1280. Alberto Magno è il primo grande interprete cristiano dell'opera di Aristotele. Il sermone settimanale in oggetto, sette prediche pronunciate in ciascun giorno della settimana, ha per tema il commento di sant'Agostino a una frase del Vangelo di Matteo (5, 14): «voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte». Questi interventi elaborano un elogio teologico della vita urbana.
Alberto sottolinea il ruolo positivo dei mercanti e dei ricchi, che forniscono tutto ciò di cui una città ha bisogno; essi permettono da un lato di sfamare i poveri e dall'altro di abbellire la città con splendidi monumenti. Nella sua lista dei peccati capitali (la sequenza nella quale teologi, moralisti e predicatori del Medioevo dispongono i peccati è una delle migliori espressioni del loro atteggiamento nei confronti dell'ordine sociale e dell'etica) Alberto mette al primo posto, da intendersi come peggiore, la lussuria, mentre l'avarizia è solo al terzo. L'eccellente storico americano Lester K. Little, nel suo pregevole libro del 1978, Religious Poverty and the Profit Eeonomy in Medieval Europe, ha giustamente fatto notare che per Alberto Magno l'immagine terrena del Paradiso non è il chiostro monastico, ma la piazza centrale della città. Il teologo integra così nella sua riflessione l'ascesa simultanea della città e del denaro.
L'altra faccia della medaglia di questo fenomeno è il considerevole incremento dei poveri in ambito urbano. Michel Mollat, il grande storico dei poveri nel Medioevo, ha sottolineato che, pur non mancando poveri nelle campagne, sono soprattutto le città a ospitare la massa degli indigenti. Egli porta l'esempio di Firenze, anche se le fonti permettono delle valutazioni credibili solo per il secolo XIV Tornerò sul legame, solo in apparenza contraddittorio, tra l'aumento della circolazione del denaro e quello delle attività caritatevoli praticate in forma monetaria. La causa va evidentemente cercata nella disuguaglianza della distribuzione della nuova ricchezza monetaria un dato che nelle società del passato si ripropone con regolarità.

NUOVI INVESTIMENTI URBANI
L'espansione dell'economia monetaria comporta forse più inconvenienti che vantaggi per l'aristocrazia rurale, ma è per le città che il fabbisogno finanziario comincia a rappresentare un vero problema. Lo sviluppo dell'artigianato e del commercio arricchisce principalmente gli individui o le famiglie, mentre dopo la loro emancipazione, fenomeno che si compie sostanzialmente nel XII secolo, le città devono far fronte a una serie di spese riguardanti la comunità, le persone e le figure istituzionali (borgomastri, scabini, funzionari) necessarie a rappresentare il potere pubblico. I centri urbani sono quindi costretti a dotarsi di strumenti fiscali adeguati. La prima voce di costo è costituita dalla costruzione, o più spesso dal restauro, delle fortificazioni che proteggono la maggior parte delle città in questi tempi di violenza tra principi e signori. Come abbiamo visto per Parigi, o ad esempio per Ypres, la ripresa degli scambi incoraggia la realizzazione di un mercato coperto, spazio che non solo agevola le transazioni, ma arriva quasi a fare concorrenza alla cattedrale come immagine simbolica della città. Non a caso, nel 1305, i consoli di Agde devono accordarsi con il vescovo prima di edificare nella piazza principale il mercato «più grande e più esteso che vi possa essere costruito».
Allo stesso modo, la costruzione all'interno delle mura cittadine di forni, cantine, torchi e soprattutto mulini, sovente difficile con i soli investimenti privati, rende necessario un intervento pubblico. È di nuovo il caso di Agde, dove tra 1218 e 1219 la città e il vescovo partecipano direttamente ai costi per la costruzione di mulini sul fiume Hérault. Numerose città sono parimenti obbligate a realizzare a loro spese acquedotti, pozzi, canali, fontane. Nel 1273 il borgomastro di Provins fa portare dall'esterno delle condotte d'acqua nelle case e nelle strade; dieci anni dopo la città ottiene dal re il diritto di instai ire quattro nuove fontane a spese degli abitanti. Il secolo XIII anche l'epoca in cui cominciano a essere progettate le sedi amministrative destinate a diventare i municipi. I primi esempi appaiono già alla fine del secolo precedente, è il caso di Tolosa, come avviene a Bruges, le spese correnti di una municipalità comprendono il pagamento delle indennità ai membri del Coniglio cittadino e degli stipendi fissi annuali, detti pensioni, ad alcuni funzionari. Si devono poi aggiungere i compensi per sergenti incaricati di svolgere il servizio di polizia, le spese per gli abiti ufficiali dei membri del Consiglio e per le livree ei dipendenti municipali, per i vini pregiati da offrire agli ospiti d'onore - costume destinato a evolversi nelle bustarelle allungate ai personaggi di cui si sperava di ottenere i favori; inoltre, secondo R. de Roover, i costi per il servizio prestato ai corrieri erano considerevoli. Infine, le politiche della carità implicavano la creazione e il mantenimento di ospedali e lebbrosari, come Jacqueline Carile ha ben mostrato analizzando a «municipalizzazione e laicizzazione» degli ospedali di Narlona.
Un altro caso, sempre studiato da Jacqueline Carile, riguarda le spese per la realizzazione dei ponti. Molte città erano cresciute in riva ai fiumi, così, da Roma a Parigi, la costruzione ei ponti fu fin dalle origini uno dei principali obblighi dei poteri urbani, nonché una delle loro maggiori voci di costo.
Quando, nel 1144, il conte di Tolosa fondò la nuova città di Montauban, stabilì che gli immigrati che erano in procinto di trasferirvisi avrebbero dovuto costruire a loro spese un ponte sul Tarn. Il Medioevo è l'epoca che segna il passaggio, variamente rapido e capillare, dal legno alla pietra come materiale per i ponti. Il ricorso al nuovo materiale implicava certo costi iniziali superiori, ma il legno non era necessariamente economico a medio termine, considerando che era esposto al rischio degli incendi e più sensibile della pietra agli effetti devastanti delle piene. Emblema e strumento della diffusione del denaro, i ponti di Narbona furono costruiti nel 1275, 1329 e 1341. Il primo venne chiamato Ponte Nuovo perché sostituì un precedente Ponte Vecchio, che per gli storici di Narbona è sia un ponte del secolo XII sia un antico ponte romano. L'ultimo, costruito dopo che il Ponte Nuovo era stato danneggiato dall'inondazione del 1307, abbinava una piattaforma in legno di rovere a pilastri in muratura. Il finanziamento dei ponti fu garantito dai signori di Narbona e da diversi notabili cittadini, ai quali i ponti risultavano particolarmente utili, ma soprattutto da due pedaggi riscossi da un privato, vincitore di una gara di appalto basata su offerte al rialzo. Le offerte per questo pedaggio furono particolarmente alte perché interessavano soprattutto mercanti e artigiani di condizione agiata. Il re, benché lontano, dovette intervenire a più riprese per autorizzare spese relative alla costruzione o alla manutenzione dei ponti, iniziative che si collocano al culmine dello sviluppo economico e sociale delle città che ha caratterizzato il lungo XIII secolo.
I saperi tecnici e le dotazioni tecnologiche erano molto ridotti rispetto a oggi, il che faceva del Medioevo un'epoca assai sensibile a catastrofi come inondazioni, incendi e frane; la frequente necessità di riparare i danni, tuttavia, comportò un crescente ricorso al denaro. Una storia delle catastrofi naturali medievali, ben abbozzata da Jacques Berlioz, è ancora da scrivere con precisione ed è una lacuna da colmare per gli storici. Se la Chiesa e il popolo sono i principali finanziatori dei lavori pubblici urbani di Narbona, nondimeno il ruolo del visconte è decisivo per quanto riguarda il conio delle monete utilizzate nella città e nella regione circostante. Gli abitanti di Narbona avevano un tale interesse che la moneta fosse di buona qualità che nel 1265 il visconte Amalrico I, in risposta alle richieste inoltrategli dai consoli della città, si sentì in dovere di impegnarsi formalmente con un'ordinanza a «mantenere e preservare durante tutta la sua vita la nuova moneta che suo padre aveva di recente coniato».

GRANDI CANTIERI DELLE CATTEDRALI
Di tutti i grandi lavori infrastrutturali e di manutenzione, i cantieri che nel secolo XIII hanno assorbito più denaro sono quelli delle cattedrali gotiche. A lungo la storiografia ha divulgato il mito delle cattedrali prodotto della fede, di una religiosità tanto fervente che i potenti avrebbero procurato gratuitamente le materie prime necessarie, così come gratuitamente sarebbe stata prestata la mano d'opera, si trattasse di operai di condizione servile concessi dai loro signori o di nomini liberi che offrivano il loro lavoro a Dio. Le ricerche più accurate di alcuni storici della seconda metà del Novecento hanno invece dimostrato che l'edificazione di una cattedrale era una spesa assai gravosa. All'ammirazione per questi capolavori architettonici si aggiunge ormai la consapevolezza che una delle ragioni del mancato decollo dell'economia europea nel pieno Medioevo, insieme alle crociate e alla frammentazione delle valute, è stato proprio il costo delle cattedrali.
Lo storico nordamericano Henry Kraus ha dedicato a questo problema un bel libro, uscito nel 1979 con l'eloquente titolo Gold Was the Mortar. The Economics of Cathedral Building. In modo inevitabilmente approssimativo e difficile da trasporre in criteri di valutazione attuali in ragione della limitatezza e dell'imprecisione dei documenti, Kraus ha studiato il sistema di finanziamento dei cantieri di alcune grandi cattedrali: Parigi, Amiens, Tolosa, Lione, Strasburgo, York, Poitiers e Rouen.
Notre-Dame di Parigi venne finanziata soprattutto dalla Chiesa, che vi investì le proprie rendite e il ricavato della vendita di una parte delle sue proprietà e di altri beni temporali, nonché le donazioni in denaro dei suoi ricchi vescovi e i contributi che il capitolo impose a più riprese durante il periodo dei lavori, ovvero la fine del XII secolo. Il vescovo fondatore Maurizio di Sully, morto nel 1196, lasciò un lascito di cento lire per l'acquisto del piombo necessario alla copertura della navata. Verso il
1270 il ricco canonico Giovanni di Parigi finanziò il completamento del transetto. Il vescovo più generoso fu Simon Matiffas de Buci, le cui donazioni superarono le 5000 lire.
Ad Amiens il grosso dei costi sostenuti, tra 1220 e 1250, fu coperto dai contributi dei borghesi, ma il vescovo Goffredo d'Eu partecipò mettendo in vendita parte dei suoi beni. Contemporaneamente, il vescovo proibì qualsiasi donazione ad altre chiese finché fosse rimasto aperto il cantiere della cattedrale. Alla fine del XIII secolo, per completare i lavori, la città ricorse a prestiti ingenti che innalzarono significativamente il suo indebitamento. Il comune, inoltre, obbligò i domenicani a vendergli due case che possedevano all'interno della cinta urbana - mentre la loro sede era al di fuori - perché nell'area intendeva costruire un mercato i cui ricavi sarebbero andati a coprire le spese della cattedrale. Il denaro offerto dai mercanti che si erano arricchiti con il commercio del guado valse loro, in segno di ringraziamento, una scultura che li rappresentava.
Tolosa non arrivò a possedere una cattedrale degna dell'importanza della città perché né i borghesi né la Chiesa misero a disposizione un investimento adeguato. Altri edifici sacri avevano assorbito l'interesse e il denaro di cittadini e clero: nel secolo XII la superba chiesa benedettina di San Saturnino (Saint-Sernin) e le chiese dette della Daurade e della Dalbade, queste ultime finanziate dai numerosi artigiani e commercianti attivi nel loro quartiere, in primo luogo la gilda o confraternita dei coltellinai. Poi venne il periodo durante il quale Tolosa fu il centro della persecuzione dei catari, fase certo non favorevole alla costruzione di una grande cattedrale.
Alla fine del Duecento, quando il vescovo Bertrand de l'IsleJourdain (in carica dal 1270 al 1286) ripropose la costruzione di una cattedrale, ad attirare i principali investimenti erano ormai le chiese degli ordini mendicanti, in particolare quella dei domenicani, detta dei giacobini, che per i tolosani rappresentò un'alternativa alla cattedrale.
La realizzazione della cattedrale di Lione, in realtà una ricostruzione iniziata nel 1167, propone la medesima accoppiata di finanziatori, il clero e i borghesi. Nessuna delle due categorie, però, dimostrò continuità nel rendere disponibili risorse, lasciti e donazioni; si dovette dunque attendere fino agli ultimi decenni del Cinquecento perché la cattedrale di San Giovanni fosse finalmente ultimata. Per contro, l'entusiasmo dei cittadini di Strasburgo per la loro cattedrale, il nuovo edificio gotico che prese il posto di quello romanico danneggiato da un incendio, permise il completamento del progetto entro la metà del secolo XIII, mentre la sontuosa facciata venne realizzata tra il 1277 e il 1298. Anche l'edificazione della cattedrale di York, per la quale gli arcivescovi si dimostrarono i più attivi, alternò fasi di accelerazione a periodi di rallentamento dei lavori.
A Poitiers, curiosamente, dopo la presa del Poitou da parte dei francesi nel 1242, si ebbe una lunga interruzione dei lavori che durò per tutta la durata del governo di Alfonso di Poitiers (morto nel 1271), fratello del re Luigi IX il Santo.
A Rouen la costruzione della cattedrale fu sostenuta sia dai sovrani inglesi Plantageneti sia dai francesi Filippo Augusto, Luigi Vili e Luigi IX. La generosità di quest'ultimo era divisa tra gli stretti rapporti intrattenuti con il vescovo di Rouen, Eudes Rigaud, e la simpatia per gli ordini mendicanti. Come molte cattedrali medievali, quella di Rouen non fu terminata che a cavallo tra i secoli XV e XVI, periodo in cui venne elevata anche la celebre «Torre del Burro», battezzata così in quanto finanziata con le offerte raccolte dalle indulgenze quaresimali acquistate da borghesi buongustai.
Accanto alle rendite ecclesiastiche e alle donazioni borghesi, a inizio XIII secolo apparve una nuova istituzione specificamente pensata per razionalizzare la gestione dei finanziamenti dei cantieri delle cattedrali; il suo nome fu in Francia fabrique e in Italia opera. Essa è incaricata di incamerare le entrate, in genere irregolari e di importo variabile, di garantire il finanziamento costante del cantiere, di fissare un budget che contempli una copertura generale dei costi e ne definisca al meglio i dettagli. Secondo Alain Eriande-Brandenburg «svolge il ruolo di indispensabile regolatore dell'avvio e dell'avanzamento di un cantiere importante [...], e mette ordine a una realtà di cui si sa fino a che punto potesse essere anarchica».
Lo studio più completo dell'opera di una cattedrale italiana è il saggio di Andrea Giorgi e Stefano Moscadelli dedicato a Siena. L'opera di santa Maria di Siena è un'istituzione precoce, menzionata per la prima volta in un documento del 1190. Nel XIII secolo le offerte all'opera della cattedrale presero la forma di lasciti testamentari e donazioni in denaro, ma la base finanziaria del suo buon funzionamento e del sostentamento del cantiere della cattedrale proveniva dal monopolio sugli introiti della cera offerta alla cattedrale o per essa acquistata. Gli importi erano versati perlopiù in contante. Tale privilegio è stabilito con precisione da un testo giuridico del 1262, noto come Constituto. Alla fine del Duecento fu infine formalizzata la costituzione di un patrimonio dell'opera destinato a finanziare il cantiere della cattedrale; esso comprendeva terreni e vigne nelle campagne dei dintorni, le rendite del mulino di Ponte di Foiano (a partire dal 1271), aree forestali per l'approvvigionamento di legname, alcune cave di marmo e, nel XIV secolo, immobili urbani acquisiti a ritmo crescente.
Le fonti permettono di calcolare con una certa precisione la quota delle entrate dell'opera utilizzate per il pagamento delle giornate di lavoro dei capomastri e degli operai.

IL RICORSO A NUOVI FINANZIAMENTI
Al fine di far fronte alle nuove e rilevanti spese, derivanti da investimenti e amministrazione, le città erano di norma autorizzate dal potere regale o signorile a prelevare delle imposte. Secondo Charles Petit-Dutaillis, all'inizio del Trecento le città «possedevano case che cedevano in affitto, piazze, spazi commerciali, canali, a volte mulini, dai quali ricavavano piccole rendite [...]. Incassavano multe, diritti signorili sui trasferimenti di proprietà, tasse d'ingresso nelle corporazioni; mettevano in vendita cariche e funzioni pubbliche». Tutte queste entrate aggiuntive, però, precisa Petit-Dutaillis, erano del tutto insufficienti: «spesso coprivano meno [di] un quinto del bilancio. I restanti quattro quinti, ad esempio ad Amiens, provenivano da imposte annuali accettate dalla popolazione e variabili a seconda dei luoghi». I consigli cittadini ricorrevano quindi sia a tasse sul reddito - imposte dirette che allora si usava chiamare tattles, «taglie» - sia a imposte indirette sulle attività economiche variamente denominate, ma il cui appellativo generico era aides, «aiuti». Nella Bruges di inizio Trecento esistevano tre tipi di aides, detti anche maltótes, «esazioni», letteralmente «prelevate a torto»: del vino, appaltato a dei cambiavalute, della birra e dell'idromele. Le tre maltótes generavano intorno all'85°/o delle entrate fiscali comunali. La riscossione di queste tasse, ovviamente assai impopolari, risultava spesso difficile, con la conseguenza che le città erano costrette a indebitarsi. A tal proposito Patrick Boucheron ha parlato di una «dialettica del prestito e dell'imposta». Si ha evidenza di un debito pubblico dal primo momento in cui i conti delle amministrazioni urbane sono documentati - il che significa nella seconda metà del secolo XIII nelle Fiandre, nella Francia del Nord e nei paesi dell'Impero, e durante il XIV secolo nell'Italia comunale, in Provenza, in Catalogna e nella regione di Valencia. I problemi derivanti dalla gestione di spese e imposte stimolarono le città a sviluppare, a imitazione dei mercanti, un sistema di contabilità, di cui si comincia a trovare traccia alla fine del Duecento - per esempio nel 1267 a Ypres e nel 1281 a Bruges. La tenuta dei conti era affidata alla responsabilità di un tesoriere, di solito un borghese benestante che in caso di deficit garantiva anticipi delle somme dovute attingendo al proprio capitale. I registri della contabilità non erano scritti in latino, ma in volgare, e furono tra i primi documenti redatti su carta, materiale che cominciava a essere venduto alle fiere della Champagne. Ci sono pervenuti registri contabili della città di Lilla scritti su carta per gli anni 1301 e 1303.
L'amministrazione finanziaria di una città medievale è di solito basata su una carta di franchigia. Come ha scritto Lewis Mumford, «per le città, la carta di franchigia era la condizione di una organizzazione economica efficace». La celebre raccolta di Costumi di Lorris del 1155, ad esempio, stabilisce che nessun abitante della parrocchia avrebbe pagato tasse sui prodotti destinati al consumo personale né sul grano frutto del suo lavoro né pedaggi a Etampes, Orléans, Milly o Melun.
Con il rafforzamento dei poteri centralizzati, come la contea di Fiandra o il regno di Francia, le finanze urbane furono sottoposte a controlli sempre maggiori. Re e conti pretesero che venissero stilati bilanci nei quali, però, quando il testo è giunto fino a noi, è difficile discernere tra riferimenti a denaro reale e semplici valutazioni monetarie. Uno dei più formidabili sforzi di controllo delle finanze urbane fu l'ordinanza emessa nel 1279 dal re di Francia Filippo l'Ardito su richiesta del conte Guido di Dampierre. Agli scabini di tutte le città fiamminghe si ingiungeva di presentare un rendiconto annuale della gestione delle loro finanze al conte, o ai suoi rappresentanti, e a tutti gli abitanti interessati, in particolare i delegati del popolo e della comunità borghese.
Queste innovazioni resero il denaro sempre più protagonista nella vita delle città medievali. Se la prima ambizione dei borghesi è di essere liberi, in particolare di amministrarsi autonomamente, le loro altre preoccupazioni riguardano in un modo o nell'altro il denaro. Per quanto non estranei al sistema feudale, essi sono ormai mossi dal desiderio di ricchezza, che perseguono fornendo ai nobili e ai contadini alle loro dipendenze il denaro di cui hanno bisogno, i primi per acquistare nel mercato urbano beni di lusso, i secondi per pagare ai signori parte delle rendite dovute e per comprare articoli non reperibili in campagna. I borghesi, d'altro canto, assumono servitori e impiegati che ricevono lo stipendio in contanti, come ha ben mostrato Bronislaw Geremek relativamente a Parigi.
Queste risorse monetarie, lo ha spiegato Roberto Sabatino Lopez, provengono dal commercio e dall'industria. È evidente che nel corso del secolo XIII solo le città inserite in grandi reti commerciali riuscivano e disporre di una liquidità adeguata. I prodotti scambiati su larga scala erano cereali, vino, sale, cuoio e pelli, tessuti di alta qualità, minerali e metalli. L'espansione della circolazione monetaria coinvolgeva comunque anche città di medie dimensioni, come Laon, definita una «capitale del vino», Rouen, importante porto di esportazione del vino grazie ai privilegi concessi dai re d'Inghilterra nella seconda metà del XII secolo e rinnovati dai sovrani francesi nel secolo successivo, o Limoges, in cui c'era una me des Taules, «via delle tavole», che ospitava stabilmente i banchi dei cambiavalute.

L'IMPATTO SOCIALE DELLA CIRCOLAZIONE MONETARIA
Un altro impulso alla circolazione del denaro venne dai consumi. Per riprendere una vecchia definizione del grande storico tedesco Werner Sombart, «è una città ogni agglomerato di persone la cui sussistenza dipende da prodotti agricoli provenienti dall'esterno»; nel Medioevo questi prodotti sono acquistati dai cittadini sempre più per mezzo di pagamenti in denaro. Uno storico più recente, David Nicolas, che ha analizzato il ruolo dei consumi nello sviluppo urbano delle Fiandre, ha osservato che le terre fiamminghe «non erano sufficienti ad assicurare la sussistenza delle proprie città»; di conseguenza, per i centri urbani era vitale assicurarsi il controllo dell'approvvigionamento di cereali al fine di mettersi al riparo dai rialzi dei prezzi nella frequente eventualità di una penuria di beni sul mercato. Ancora una volta, lo ribadisco, si evidenzia che non ha senso contrapporre un'economia rurale che funzionerebbe in assenza di denaro e un'economia urbana che si vorrebbe invece estranea a una presunta economia feudale non monetaria.
Le frequenti fluttuazioni di prezzo, di cui avrò l'occasione di riparlare, contribuiscono ulteriormente a far entrare l'economia medievale, e in special modo quella urbana, in un sistema di prezzi tipico delle economie basate sul denaro, anche quando i prezzi indicati sulle fonti non corrispondono a denaro reale ma solo a stime fiduciarie espresse in valuta.
Quest'uso del denaro non è limitato agli strati superiori della popolazione urbana. È stato calcolato che a metà del Trecento molti cittadini poveri di Gand spendevano quasi metà del loro salario nell'acquisto di grano; nel complesso, dal 60°/o all'80°/o del loro intero bilancio famigliare era dedicato ai fabbisogni alimentari. Va anche osservato che gli uomini del Medioevo, soprattutto nelle città, consumavano sorprendenti quantità di carne. Si tratta di un fenomeno insieme culturale ed economico, le cui ragioni non sono ancora completamente chiare, ma da cui consegue che nelle città medievali i macellai sono numerosi, influenti e sovente odiati. A Tolosa nel 1332 c'erano 177 macellai su circa 40.000 abitanti, ovvero uno ogni 226 abitanti; nel 1953 la città contava 285.000 abitanti e 480 macellai, vale a dire uno ogni 594 residenti.
La struttura della società urbana dipendeva in larga misura dalla circolazione e dall'impiego del denaro. È in questa prospettiva che si manifesta la diseguaglianza sociale, ai nostri occhi come a quelli degli uomini del secolo XIII, e che la ricchezza monetaria diventa in misura sempre maggiore indicatore e strumento di potere. Il Duecento fu il secolo del patriziato, cioè di un numero limitato di famiglie che detenevano una quota significativa di potere - un potere che sempre più coincideva con la ricchezza economica. Quest'ultima, a sua volta, traeva origine da tre fonti principali: una, tradizionale, consisteva nel possesso di terre in campagna e di case in città, la seconda veniva dal commercio e la terza derivava da privilegi e pratiche fiscali. I borghesi ricchi cercavano di eludere il pagamento delle imposte indirette, le aides. È stato calcolato che ad Amiens i 670 abitanti più agiati rappresentavano un quarto della popolazione, ma pagavano meno di un ottavo dell'aide sul vino. Il denaro entra di prepotenza nei trattati giuridici che si moltiplicano nel corso del secolo XIII, periodo in cui rinasce il diritto romano, trova una forma stabile il diritto canonico e viene messo per iscritto il diritto consuetudinario. Nel capitolo 1, «Sugli abitanti delle buone città», dei Costumi del contado di Clermont nel Beauvaisis, completato nel 1283 dal regio balivo Filippo di Beaumanoir, si legge:
«Nelle città molti conflitti nascono a causa delle tasse, poiché avviene spesso che i ricchi che ne governano gli affari dichiarano meno di quello che dovrebbero per sé e per i parenti e tendono ad esentare gli altri ricchi allo scopo di essere a propria volta esentati; in tal modo tutte le imposte ricadono sulla massa dei poveri».
È stato scritto che «le finanze erano il tallone d'Achille delle comunità urbane. Nel secolo XIII, epoca in cui cominciano a essere valorizzati i numeri e i calcoli, i borghesi reggitori della città, che erano sovente mercanti e operatori finanziari, avevano imparato a fare bene i conti». E anche ad arricchirsi profittando della circolazione monetaria e incoraggiandola.
È tuttavia difficile parlare di ricchi nello stretto senso del termine e ancora di più - tornerò sul problema - di capitalisti. Queste persone restano dei potentes, compresi i mercanti e i banchieri italiani studiati tra gli altri da Armando Sapori e Yves Renouard. Ricorderò il celebre esempio di Jehan Boinebroke, un commerciante di tessuti attivo a Douai alla fine del Duecento. Di lui tratta George Espinas in un libro considerato un classico, ma che porta un titolo a mio avviso anacronistico, Les origines du capitalisme. L'autore si sofferma in particolare sul controllo che costui esercita sul popolino della città.
Senza dubbio il suo potere deriva in primo luogo dal denaro che presta e dai rimborsi indebitamente maggiorati che esige senza alcuno scrupolo dai suoi debitori; ma la sua forza si regge anche su altre basi: Boinebroke dà lavoro, sia presso di lui che a domicilio, a operai e operaie «che paga poco, male o per niente», praticando il truck system, il pagamento in natura - il che, per inciso, dimostra che la vita economica e sociale non era ancora completamente monetarizzata. Egli è anche proprietario di numerosi appartamenti dove abitano i suoi operai, i suoi clienti, i suoi fornitori, la cui dipendenza nei suoi confronti esce così rafforzata. È stato osservato che in una città come Lubecca, grande centro della Hansa fondata nel secolo XII, gli immobili economicamente rilevanti - granai, depositi, silos, forni, mercati - appartengono a un numero ridotto di mercanti influenti. Boinebroke, infine, dispone di potere politico e lo sfrutta cinicamente. L'emergere del lavoro salariato e del ruolo del denaro è una delle principali cause degli scioperi e delle proteste popolari che agitano le città dal 1280 circa in avanti. Proprio nel 1280 Jehan Boinebroke ricopre la funzione di scabino e di concerto con i colleghi, appartenenti alla sua medesima categoria sociale, reprime «con spietata determinazione» un tumultuoso sciopero dei tessitori.
A partire dalla fine del secolo XII si assiste a una crescente sensibilità dei cittadini per il valore economico del tempo. Si fa strada l'idea che il tempo è denaro. Nel secolo seguente il valore economico, anche monetario, del lavoro, compreso quello manuale, occuperà una posizione sempre più centrale. Il lavoro salariato urbano non si afferma per caso. «Chi lavora ha diritto alla sua ricompensa»: questa frase del Vangelo di Luca (10,7) è citata di frequente. C'è però un diritto che le comunità urbane non si vedranno mai riconosciuto, quello signorile e regio di battere moneta. Nel corso del Duecento, tuttavia, per assicurare il buon funzionamento dell'economia e proteggere i loro beni, i borghesi chiederanno a più riprese che i signori garantiscano almeno la stabilità della moneta, come abbiamo già visto essersi verificato a Narbona.
Prima di lasciare le città che hanno assistito all'affermazione del denaro durante il lungo XIII secolo, merita di essere segnalato, accanto a un fenomeno sociale eclatante come la contrapposizione tra ricchi e poveri, un aspetto secondario tanto inatteso quanto significativo. Si tratta dell'accesso di alcune donne alla gestione dei soldi, e anche alla ricchezza; lo si evince da documenti preziosissimi per la Parigi di inizio Trecento, i registri di riscossione della taille, la principale imposta urbana di quegli anni. Una delle ricchezze dell'economia parigina era lo sfruttamento delle cave di gesso, nei cui paraggi si trovavano anche delle fungaie, presenti fino a molto tempo dopo il Medioevo. Tra i maggiori contribuenti parigini tra fine XIII e inizio XIV secolo figurano donne proprietarie di alcune di queste cave. Ad esempio, la signora Marie la Plàtrière (la «Gessaia») e i suoi due figli risultano tassabili per un importo di 4 lire e 12 soldi, Houdée la Plàtrière per 4 soldi e Ysabel la Plàtrière per 3 soldi; nell'elenco compaiono altre donne, il che ha permesso a Jean Gimpel di sostenere, non senza un filo di esagerazione, che «il ruolo delle donne nel successo della "crociata" delle cattedrali è stato decisivo».

"tratto da
LO STERCO DEL DIAVOLO
Il denaro nel Medioevo
di Jacques Le Goff"
Avatar utente
Veldriss
"IL CREATORE"
"IL CREATORE"
Messaggi: 5345
Iscritto il: 21 ottobre 2008, 10:55
Località: Sovere (BG)
Contatta:

Re: LO STERCO DEL DIAVOLO - Jacques Le Goff

Messaggio da leggere da Veldriss »

5. SCAMBI, DENARO, MONETA

NELLA RIVOLUZIONE COMMERCIALE DEL SECOLO XIII
La maggior parte dei medievisti sono concordi nel ritenere che nel lungo XIII secolo l'Occidente abbia conosciuto uno sviluppo degli scambi interni ed esterni tale da far parlare di «rivoluzione» commerciale. Ne ho già accennato, ma vorrei tornare sui rapporti tra questa rivoluzione e il denaro, perché il loro significato travalica il solo aspetto economico.
Il margravio Ottone di Meissen, il cui tesoro fu depredato dai boemi nel 1189, rappresenta a tal proposito una figura emblematica. Soprannominato «il Ricco», e nel suo caso il termine esprimeva davvero effettivamente più l'agiatezza che il potere, la sua fortuna è valutata da annali coevi in 30.000 marchi d'argento, accumulati soprattutto in forma di lingotti. Si stima che se tanta ricchezza fosse stata convertita in pfennige, ossia nella moneta di piccolo taglio più diffusa all'epoca in quella parte della Germania, l'operazione avrebbe prodotto qualcosa come dieci milioni di pfennige. L'uso che egli fece di parte del suo patrimonio illustra l'atteggiamento verso il denaro dei ricchi di quel tempo. Ottone acquistò possedimenti, sovvenzionò la costruzione delle nuove mura di cinta a Lipsia, Eisenberg, Schatz, Weissenfels e Freiberg, nelle cui vicinanze si trovava un'importante miniera. Infine donò 3000 marchi d'argento al monastero di Zella affinché fossero distribuiti alle chiese dei dintorni per la salvezza della sua anima. Il suo comportamento esemplare illustra i principali usi del denaro nel XIII secolo e la mentalità di coloro che si arricchivano e arrivavano a possederne molto. In primo luogo, in una società ancora essenzialmente fondata sulla terra, la ricchezza fondiaria rimaneva un obiettivo centrale; in secondo, in un periodo di espansione urbana, il problema della sicurezza delle città era fortemente sentito; infine, quel denaro che, come si vedrà meglio più avanti, avrebbe potuto destinare il margravio all'Inferno venne destinato a opere pie finalizzate alla salvezza della sua anima.

LO SFRUTTAMENTO DELLE MINIERE
In generale, la crescente diffusione del denaro per rispondere alle esigenze di un commercio in ripresa fu resa possibile grazie all'apertura di nuove miniere e dall'intensificarsi dell'estrazione di metalli argentiferi. La produttività delle miniere di argento nell'Europa del Duecento non toccò i livelli che avrebbe raggiunto nei due secoli seguenti, ma fu migliorata da innovazioni tecniche provenienti soprattutto dalla Germania e talvolta diffuse direttamente da minatori tedeschi. La miniera inglese di Carlisle, ad esempio, operò sotto la direzione di tedeschi dal 1166 al 1178, mentre diciotto minatori tedeschi risultano attivi in Sardegna nel 1160. Una quota considerevole dell'argento estratto in questi giacimenti aveva come terminale Venezia, potenza finanziaria che poteva contare sulla presenza di un Fondaco dei Tedeschi. La sede dell'ordine dei Templari, a Parigi, invece, si approvvigionava in parte anche con l'argento della miniera di Orzals, in Rouergue.
Tra le miniere più importanti, nuove o meglio sfruttate che in passato, c'erano quelle della regione di Goslar, che fornirono tra l'altro ad Alberto Magno il materiale per lo studio sui minerali concretizzatosi nel trattato De mineralibus. Oltre a quelle di Goslar meritano di essere menzionate le miniere di Freiberg, Friesach in Tirolo, Jihlava in Moravia, Volterra, Montieri presso Siena, e Iglesias in Sardegna, dove si faceva sentire l'influenza di Pisa. Nel 1257 i genovesi catturarono una nave pisana che trasportava 20.000 marchi d'argento, per un peso di circa tre tonnellate, che vennero investiti nell'ampliamento dell'arsenale del porto ligure. Nuove miniere d'argento furono scoperte anche nel Devon, in Inghilterra. Il possesso e lo sfruttamento delle miniere fu l'oggetto di innumerevoli discordie.
I margravi di Meissen si assicurarono a lungo il controllo su quelle di Freiberg, i vescovi di Volterra su quelle di Montieri.
In Toscana e nella Sardegna dominata dai pisani le miniere finirono nelle mani di compagnie che assumevano minatori salariati, ad esempio le «Compagnie di fatto d'argentiera» a Montieri e le «Communitates fovee» a Massa Marittima. Il re d'Inghilterra tentò per un breve periodo di gestire direttamente le miniere del Devon, ma dovette presto rassegnarsi a concederle a imprenditori privati. Accadeva anche, soprattutto in Italia, che i minatori riuscissero a esercitare un controllo sulle compagnie che sfruttavano le miniere dove lavoravano, proprio come in agricoltura alcuni contadini mantennero o conquistarono l'indipendenza diventando proprietari o possessori di terreni allodiali. È proprio nelle miniere che per la prima volta, in ciò che diventerà l'industria, fa la sua comparsa il fenomeno dell'autogestione da parte degli operai.

LA CIRCOLAZIONE DEL DENARO IN EUROPA
Relativamente al secolo XIII, Peter Spufford ha tentato di stimare quali fossero nelle diverse regioni d'Europa il livello di circolazione del denaro e il suo impatto su ciò che oggi definiremmo bilancia dei pagamenti. Tra i documenti sui quali si è basato, che includono fonti letterarie, tesori giunti fino a noi e liste contabili di monete, figurano due testi risalenti alla fine del nostro periodo di riferimento e che in qualche modo ne rappresentano l'esito e il compendio: uno è un taccuino ricco di annotazioni compilato verso il 1320, il veneziano Zibaldone da Canal; l'altro, meglio strutturato, quasi un vero trattato, è la Pratica della mercatura scritta intorno al 1340 dal mercante fiorentino Francesco Pegolotti.
Nel 1228 i veneziani costruirono sul Canal Grande un edificio destinato ad accogliere i mercanti provenienti dalla Germania, il citato Fondaco dei Tedeschi, iniziativa che favori il costante afflusso di monete coniate con l'argento delle miniere dell'Europa centrale, le più produttive dell'epoca. Lo Zibaldone annota che la produzione monetaria a Venezia dipendeva ormai dall'«arcento che vien d'Alemagna». L'argento tedesco non era esportato solo in Italia, ma anche nelle regioni renane, nel Sud dei Paesi Bassi e nella Champagne, da dove raggiungeva il resto della Francia e serviva essenzialmente per l'acquisto di derrate alimentari. Nell'Ile-de-France se ne ha notizia nell'ultimo decennio del secolo XII. I mercanti anseatici trasportavano questo argento sia verso est, attraverso il Baltico, sia verso ovest, soprattutto in Inghilterra. Un documento del 1242 dimostra che a Londra affluivano grandi quantità d'argento dalle Fiandre e dal Brabante e monete straniere da numerose città tedesche e fiamminghe, su tutte Colonia e Bruxelles.
Nel corso del Duecento la monarchia francese si rafforzò e riuscì tra l'altro a mettere le mani sulle fiere della Champagne grazie al matrimonio tra il futuro Filippo il Bello e Giovanna di Champagne, celebrato nel 1284. La Francia divenne così esportatrice di monete, in primo luogo verso l'Italia.
Nel 1296 un terzo delle tasse riscosse dal papato in Toscana era composto da monete francesi. Alla fine del XIII secolo la circolazione del denaro tra l'Italia e il Nord dell'Europa ricevette nuovo impulso dall'apertura di rotte marittime regolari organizzate da Genova, Venezia e Pisa; una delle principali merci trasportate era appunto l'argento, in forma sia di lingotti che di monete. In rapporto al numero e alla frequenza del transito di queste navi una città come Bruges conosceva in giugno e dicembre una fase di «strettezza», vale a dire carenza di argento, mentre agosto e settembre erano i mesi della «larghezza».
L'autore della Pratica della mercatura, Francesco Pegolotti, rappresenta un caso esemplare di funzionario di banca attivo nel quadro istituzionale e geografico del lungo XIII secolo. Era il rappresentante all'estero dei celebri banchieri fiorentini Bardi, per i quali diresse dal 1315 al 1317 la filiale di Anversa e dal 1317 al 1321 la filiale di Londra, prima di trasferirsi a Famagosta, nell'isola di Cipro. La sua professione lo portò a occuparsi del commercio di varie derrate, pellicce, rame di Goslar, lana d'Inghilterra diretta a Venezia, storioni salati venduti ad Anversa, carbonato di rame trasformato in moneta ad Alessandria. La Toscana era abbondantemente rifornita di argento proveniente sia dall'Europa centrale, sia dalla locale Montieri, sia da Iglesias - ricordo che il metallo sardo aveva come terminale la vicina Pisa. I toscani facevano fruttare l'argento sia rivendendolo a prezzo maggiorato, sia investendolo in produzioni manifatturiere, come la seta di Lucca. I milanesi convertivano in lingotti l'argento che acquistavano e con esso finanziavano produzioni aventi come materia prima da un lato il metallo e dall'altro il cotone.
Accanto agli scambi tra Italia ed Europa settentrionale si erano aperte nuove rotte commerciali tra Italia del Nord, compresa la Toscana, e Oriente - Costantinopoli, Palestina, Egitto. L'argento europeo era tanto una merce quanto una fonte di finanziamento per i fondachi che i mercanti orientali possedevano a Venezia, San Giovanni d'Acri e Alessandria. Le principali monete esportate in Oriente nel secolo XIII erano le sterline inglesi, i denari tornesi di Francia e i grossi veneziani. L'aumento della quantità di moneta circolante è una diretta conseguenza del crescente volume dei traffici tra Oriente e Occidente gestiti dai mercanti italiani. Di straordinaria importanza fu l'importazione di due prodotti orientali, il cotone coltivato nella Siria del Nord e le spezie arabe e indiane. Il loro trasporto era assicurato da pisani, veneziani e genovesi, che facevano base ad Alessandria, Damietta, Aleppo e San Giovanni d'Acri. L'argento europeo finanziava così il commercio di beni orientali su lunghissime distanze. Al commercio con regioni relativamente vicine, come la Russia per le pellicce e l'Asia Minore per l'allume, si aggiunsero nel corso del lungo XIII secolo contatti con la Cina per la seta, l'India per le spezie e il Golfo Persico per le perle. I prodotti elencati provano che una delle cause della maggiore circolazione del denaro in Occidente fu un'emergente passione per i beni di lusso presso l'aristocrazia e l'alta borghesia.
Anche la Chiesa diede un contributo alla diffusione del denaro. In primo luogo lo Stato pontificio conobbe uno sviluppo economico, di cui riparlerò, tale da suscitare l'indignazione di molti cristiani, in particolare i francescani e i loro seguaci.
A cavallo tra i secoli XII e XIII, apparvero diversi testi che denunciavano l'eccessiva confidenza del papato con i soldi - è il caso dei romanzi satirici Le besan de Dieu e Le roman de caritè, e soprattutto il parodistico Vangelo secondo il marco d'argento.
All'inizio del Trecento, con il trasferimento della sede pontificia ad Avignone, i papi approfittarono della posizione geografica della città, più centrale rispetto a Roma, per rafforzare la pressione finanziaria su Chiesa e cristiani. Durante il pontificato di Giovanni XXII (1316-1334) le entrate della Santa Sede toccarono in media i 228.000 fiorini fiorentini all'anno.
Questa cifra suona enorme e agli occhi di molti cristiani tanta ricchezza rendeva i papi degli adoratori di Mammona piuttosto che apostoli del Signore; eppure, tale importo era inferiore alle entrate annuali del comune di Firenze ed era meno della metà di quanto il fisco francese e inglese incassavano nei medesimi anni. Si trattava comunque di somme importanti, che ad esempio permisero la costruzione del Palazzo dei papi di Avignone, ma bisogna anche osservare che una quota significativa delle entrate della Camera apostolica ripartiva per l'Italia, dove il papato era impegnato in difficili conflitti. Come si vedrà, nel Medioevo la guerra richiedeva l'impegno di ingenti risorse finanziarie, e perlopiù in contanti. La guerra anglo-francese di fine XIII secolo, preludio alla guerra dei Cento Anni, costrinse i sovrani di Francia e Inghilterra a sostenere costi enormi: tra 1294 e 1298 Edoardo I spese 750.000 sterline per stipendiare le truppe, difendere la Guascogna contro Filippo il Bello e garantirsi l'appoggio o almeno la neutralità di numerosi signori francesi. Per tornare ad Avignone, al denaro riscosso e speso dalla Camera apostolica si devono aggiungere le rendite e le spese dei cardinali della curia, che raggiunsero livelli notevoli.
Un'altra tipologia di spesa direttamente connessa alla religione durante il lungo secolo XIII fu il finanziamento delle ultime crociate. A determinare significativi spostamenti di denaro c'erano infine i pellegrinaggi, su scala sia prevalentemente regionale, come quello a Rocamadour nella Francia meridionale, sia internazionale, come quello a Santiago de Compostela, dove affluivano pellegrini da tutta Europa, compresi la Scandinavia e i paesi slavi.
La pressione finanziaria che avevano esercitato le crociate su monarchia e nobiltà francesi venne rilanciata dalle mire di conquista in Italia, alle quali Luigi IX il Santo si era sottratto, ma che coinvolsero invece suo fratello Carlo d'Angiò, suo nipote Carlo di Valois e molti ricchi aristocratici. Le ambizioni italiane, che presero il posto di quelle mediorientali, prolungarono e incrementarono il dissanguamento delle ricchezze francesi. Contemporaneamente si ebbero movimenti di denaro dall'Inghilterra verso la Germania. A inizio Duecento il re inglese Giovanni Senza Terra destinò rilevanti aiuti finanziari a suo cognato, l'imperatore Ottone IV, lo sconfitto della battaglia di Bouvines. A Enrico III, invece, l'alleanza con Federico II, cui diede in sposa sua sorella Isabella, costò, oltre a una dote ricchissima, anche la partecipazione finanziaria alle operazioni belliche dell'imperatore in Germania e nelle due Sicilie. Un ulteriore esempio del drenaggio di contante dall'Inghilterra alla Germania è fornito dall'appoggio inglese all'arcivescovo di Colonia, del quale era ritenuto importante il sostegno politico e che nel 1214 trasferì a Roma una somma del valore di 500 marchi costituita per la maggior parte da sterline. Come se non bastasse, nello stesso periodo l'economia monetaria inglese fu turbata dalla presenza nel mercato insulare di false sterline coniate sul continente.
Mentre in Europa s'intensificava la produzione dell'argento, quella dell'oro fioriva in Africa del Nord, le cui esportazioni verso l'Europa (il Medio Oriente restava il principale mercato dell'oro) fino al secolo XIII erano tesaurizzate ma non convertite in moneta. L'oro africano, ribattezzato «oro del Sudan», proveniva soprattutto dal Sud del Marocco, precisamente dalla regione a nord del Sahara il cui centro era Sijilmasa, fondata nel secolo Vili quando venne aperta la rotta subsahariana. Questo oro era esportato in forma di polvere, ovvero oro nativo in grana fine. Una percentuale minore raggiungeva Timbuctù in forma di lingotti, ma il grosso era trasformato in monete nei laboratori del Maghreb musulmano. Una parte dell'oro finiva nel califfato di Cordova, da dove piccole quantità penetravano poi nei regni cristiani della Spagna settentrionale e in special modo in Catalogna. Quando nel 1170 l'ultimo dei califfi almoravidi di Spagna, Mohamed ben Saad, cessò di coniare monete d'oro a Murcia, il re di Castiglia Alfonso Vili inaugurò a Toledo la produzione dei propri morabetinos, o marabedis, alcuni dei quali finirono nelle tasche dei mercanti italiani che li fecero conoscere in patria. Come si vedrà meglio più avanti, verso la metà del Trecento l'afflusso dell'oro del Sahara nelle terre cristiane poco a poco cessò. Nel frattempo, però, in Europa il conio aureo interrotto da Carlomagno era ripartito.

CONIO, ZECCHE E VARIETÀ DI MONETE
Grazie allo sfruttamento di nuove miniere di argento e di piombo argentifero cominciarono a circolare in Europa quantità crescenti di monete argentee. La grande regione mineraria di Freiberg, ai piedi dell'Erzgebirge in Sassonia, vantava nel 1130 appena nove zecche, che nel 1198 erano già diventate venticinque e nel 1250 quaranta. In Italia si osserva il medesimo dinamismo, particolarmente intenso in Toscana, dove si trovavano le miniere di Montieri e le Colline metallifere. Verso il 1135 la Toscana ospitava soltanto la zecca di Lucca, alla quale nei due decenni successivi si aggiunsero Pisa e Volterra. Intorno al 1180 ne fu aperta una nuova a Siena, decisiva per la futura prosperità della città. Nell'ultimo decennio del secolo XII, infine, venne il turno di Firenze e Arezzo. In Italia settentrionale, alle antiche zecche di Milano, Pavia e Verona si aggiunsero tra 1138 e 1200 Genova, Asti, Piacenza, Cremona, Ancona, Brescia, Bologna, Ferrara e Mentone. Nel Lazio, dalle quattro zecche attive nel 1130 si passò alle ventisei del 1200, di cui una nella città di Roma.
Le regioni francesi nelle quali sorsero le principali zecche furono l'Artois e soprattutto la Linguadoca, grazie alle iniziative dei vescovi di Maguelonne, nella loro veste ufficiale di conti di Melgueil, i cui denari valicarono addirittura i Pirenei.
Nella Francia centrale non si ebbero molte nuove emissioni, ma aumentò notevolmente la quantità di moneta circolante, come i denari tornesi coniati dall'abate di San Martino di Tours, i denari parìsis usciti dalle zecche regie e i provinois dei conti di Champagne, i cui possedimenti entrarono a far parte del regno di Francia alla fine del Duecento.
La seconda metà del XIII secolo vide consolidarsi il predominio del pfennig di Colonia in area renana, mentre le monete coniate nei Pesi Bassi si espandevano nelle Fiandre. In Inghilterra il dominio delle grandi zecche di Londra e Canterbury non impedì l'apertura di una serie di piccole officine negli anni 1248-1250, 1279-1281 e 1300-1302. In Boemia, infine, va segnalato lo straordinario sviluppo di Kutnà Hora.
Il buon funzionamento delle nuove zecche implicava una riorganizzazione del lavoro e un aumento di personale, composto da direttori, maestri, controllori, tecnici e operai. L'organizzazione di tali opifici divenne il prototipo delle varie nuove manifatture che sorgevano nelle città. Questa è una delle ragioni per cui i signori e i sovrani, ad esempio in Francia Filippo Augusto, misero sotto il proprio controllo le zecche poste all'interno della loro giurisdizione. Nella Venezia di fine XII e inizio XIII secolo i dogi riuscirono ad affrancarsi dall'ingerenza imperiale sul conio delle monete. È forse questo il momento giusto di rammentare che gli uomini del Medioevo avevano mutuato dal latino i due significati del termine ratio, che designava sia la ragione che il calcolo. Nel secolo XIII il perfezionamento delle tecniche di conio e la diffusione del denaro contribuirono a radicare l'uso del secondo e far progredire i procedimenti di razionalizzazione e calcolo. Il denaro fu di fatto uno strumento di razionalizzazione3. A Venezia e Firenze la direzione delle zecche era assimilata a un incarico di pubblica magistratura. In Francia, i responsabili degli opifici regi stipulavano con le autorità monetarie un contratto di affitto in cui si definivano le quantità da coniare, i ricavi spettanti rispettivamente al re e al concessionario, le specifiche tecniche e i margini di scarto ammissibili nella produzione. Ogni operazione era soggetta a controlli, pesate e collaudi, e imponeva la tenuta di registri, la maggior parte dei quali non è purtroppo giunta a noi, da parte dei responsabili, o dei loro subordinati, e dei funzionari che rappresentavano l'autorità regia.
Le somme di denaro immesse in circolazione conobbero una crescita considerevole, almeno là dove i documenti - purtroppo rari - ci permettono di ipotizzare delle cifre. Dal 1247 al 1250 dai laboratori di Londra e Canterbury uscirono circa 70 milioni di nuovi penny, per un valore di 300.000 sterline. È probabile che a metà Duecento circolassero in Inghilterra intorno ai 100 milioni di penny, corrispondenti a circa 400.000 sterline. Una generazione dopo, tra 1279 e 1281, le medesime zecche coniarono 120 milioni di nuovi penny, equivalenti a circa
500.000 sterline. Si è già detto che Edoardo I era stato in grado di spendere 750.000 sterline per la guerra di Guascogna.
In Francia, negli anni 1309-1312, sui quali siamo informati, la zecca di Parigi produsse 13.200 lire tornesi in monete, Montreuil-Bonnin 7000, Tolosa 4700, Sommières-Montpellier 4500, Rouen 4000, Saint-Pourcain 3000, Troyes 2800 e Tournai 2300. Nel corso del secolo XIII i principali governanti che possedevano un monopolio rilasciarono concessioni parziali a imprenditori indipendenti: Alfonso di Poitiers, fratello di Luigi IX, affittò la zecca di Montreuil-Bonnin con un contratto che prevedeva il conio di 8 milioni di denari; un altro fratello del re, Carlo d'Angiò, appaltò per cinque anni il conio di 30 milioni di tornesi. Le persone che prendevano in concessione la produzione monetaria non erano necessariamente tecnici, spesso erano semplici investitori stranieri, sovente «lombardi», vale a dire mercanti e banchieri dell'Italia settentrionale. Nel 1305 la zecca del Périgord venne affittata a due fiorentini per cinque anni concordando il conio di 30 milioni di denari tornesi.
Questa diffusione del conio monetario in vari Stati europei nel corso del Duecento non frenò l'utilizzo di lingotti di metallo prezioso nei pagamenti importanti, sia a livello locale che internazionale. L'impiego dei lingotti conobbe un notevole incremento nel Trecento. Dopo essersi insediati ad Avignone, i papi pretesero spesso che le chiese dei diversi paesi europei inviassero le somme dovute in lingotti, più facili da trasportare delle monete. Sotto il pontificato di Giovanni XXII (13161334) i pagamenti in lingotti d'argento furono così numerosi che il totale degli importi ricevuti dal papa è stato stimato in oltre 4800 marchi d'argento. Le crociate di Luigi IX il Santo, a metà del secolo XIII, furono esse pure in buona parte sostenute economicamente dai lingotti d'argento. I lingotti circolarono in abbondanza nelle Fiandre e in Artois, in Renania e in Linguadoca, nella valle del Rodano e perfino in Italia, dove certo non mancava la moneta e maggiore era la presenza del denaro. È in lingotti d'argento, ad esempio, che Pisa pagò i 20.000 marchi pretesi dai genovesi dopo la vittoria sui rivali toscani nella celebra battaglia della Meloria nel 1288.
In tutta Europa la circolazione dell'argento in forma di lingotti crebbe parallelamente al bisogno di liquidità delle monarchie e degli Stati, anche là dove la gente comune ne faceva un uso minimo nella vita quotidiana, come in Danimarca, Polonia e Ungheria. Alla fine del Duecento nelle grandi aree commerciali della cristianità era ormai decisivo per i governi regolamentare e tassare la circolazione e la monetarizzazione dei lingotti d'argento; a Venezia ciò avvenne nel 1273 e nei Paesi Bassi nel 1299.1 lingotti erano perlopiù resi identificabili dall'impressione di emblemi civici di garanzia. Nell'Europa del XIII secolo le tipologie principali di lingotti in circolazione erano tre, che si differenziavano per una percentuale più o meno alta di metallo puro. Al di fuori dell'area di cui ci stiamo occupando, modelli di origine asiatica prevalevano nel Mediterraneo e nel Mar Nero, mentre un terzo è attestato nell'Europa del Nord. In Russia ne circolavano due tipi, detti rispettivamente di Kiev e di Novgorod.
Un ulteriore segnale dell'accresciuto bisogno di denaro nel commercio all'interno della cristianità fu la comparsa di nuove monete a più elevato contenuto d'argento, i grossi, che apparvero dapprima in Italia settentrionale, un fatto che non sorprende considerato il ruolo dominante di questa regione negli scambi internazionali4. Nel 1162 Federico Barbarossa aveva emesso a Milano un denaro imperiale che conteneva il doppio di argento rispetto ai suoi predecessori, ma il primo vero grosso fu coniato a Venezia tra 1194 e 1201. In grossi vennero pagati i 40.000 marchi d'argento dovuti dai crociati alla Repubblica di Venezia. Il peso e il valore del nuovo grosso, fissato in ventisei piccoli, si articolarono in un autentico sistema monetario che collegava piccoli e grossi sàYiperpero bizantino. La scelta veneziana fu imitata da Genova a inizio Duecento, da Marsiglia nel 1218, dalle città toscane intorno al 1230 e infine da Verona, Trento e Tiralo. Nel 1253, a Roma vennero emessi dei grossi del valore uguale a un soldo, ovvero dodici denari. Carlo d'Angiò, nei suoi Stati dell'Italia meridionale e a Napoli, si adeguò alla tendenza italiana e coniò i carlini, o gillats, che fecero concorrenza ai matapani veneziani. Luigi IX lo seguì a ruota emettendo il grosso tornese nel 1266. Solo nei primi anni del Trecento furono coniati nei Paesi Bassi e in Renania dei grossi con una minore percentuale d'argento, in coerenza con un commercio meno florido. In Inghilterra l'emissione del primo grosso dovette aspettare il 1350. Per contro, le maggiori città del Mediterraneo, come Barcellona e Montpellier, possedevano un grosso d'argento già a fine XIII secolo.
Se il grosso d'argento fu senza dubbio la nuova moneta più utile e utilizzata, nell'Europa cristiana l'avvenimento decisivo nell'evoluzione dell'economia monetaria del secolo XIII fu senza dubbio la ripresa del conio aureo - che si era conservato solo in aree marginali, e in deboli quantità, in funzione delle relazioni con Bisanzio o con il mondo islamico: è il caso di Salerno, Amalfi, Sicilia, Castiglia e Portogallo. Ricordo che la materia prima di queste monete era polvere d'oro africano, proveniente da Sijilmasa, nel Marocco meridionale, e lavorata a Marrakech, Tunisi e Alessandria, in zecche che Luigi IX il Santo tentò di attaccare e distruggere nel corso delle due crociate che capitanò.
Le prime monete d'oro prodotte in Europa furono gli augustali dell'imperatore Federico II, realizzati a partire dal 1231 in Sicilia. Si trattava però ancora di monete di natura «marginale», dipendenti dall'oro africano e dai legami con i territori bizantini e musulmani. Le prime vere nuove monete auree europee apparvero nel 1252 a Genova e Firenze: il genovino d'oro e il fiorino, recante impresse le immagini di san Giovanni Battista e del giglio. Dal 1284 Venezia coniò i suoi ducati, che non conobbero rivali nel bacino del Mediterraneo, con le immagini di Cristo e di san Marco nell'atto di benedire il doge. Le monete d'oro emesse intorno al 1260 dai sovrani di Inghilterra e Francia non ottennero invece il successo sperato.
Le immagini simboliche rappresentate su queste preziose monete entrarono nell'immaginario medievale.
Non va poi dimenticato che nel XIII secolo si diffuse, soprattutto nelle città, un terzo livello di circolazione monetaria, quello delle monetine di basso valore confacenti alle necessità della vita quotidiana e comunemente definite «monete nere». Già a inizio Duecento il doge veneziano Enrico Dandolo fece coniare dei mezzi denari, detti oboli. Alla fine del lungo XIII secolo la moneta prodotta in maggiore quantità a Firenze era il quattrino, il cui valore, quattro denari, equivaleva più o meno al costo di una pagnotta. Queste monetine divennero l'abituale strumento delle elemosine, sempre più praticate nel XIII secolo in virtù di un'evoluzione sociale e culturale cui contribuì in misura rilevante la predicazione degli ordini mendicanti. Nel regno di Francia - Luigi IX il Santo fu un grande distributore di elemosine ai poveri - il denaro parìsis diventò il «soldo dell'elemosiniere» per antonomasia.
Così, al conio argenteo si aggiunse finalmente quello aureo e venne ripristinato il bimetallismo, o meglio, per riprendere la definizione scrupolosa di Alain Guerreau, il trimetallismo, dal momento che gli storici hanno sovente trascurato l'importanza delle monete di basso valore, i cosiddetti biglioni, di solito a base di rame, prova che l'impiego del denaro si stava estendendo a tutti gli strati della popolazione e a un crescente numero di transazioni di modesta entità. Contrariamente a un'idea ancora diffusa, infatti, neppure le campagne restarono escluse da questa tendenza e dunque nella sua seconda fase (descritta da Marc Bloch) il feudalesimo finì per accogliere anche l'economia monetaria. Dal 1170 i censi e le nuove imposte risultano perlopiù fissati in denari o comunque espressi in valore monetario, è il caso, ad esempio, della Piccardia. Tra 1220 e 1250, in numerose regioni europee la gran parte dei tributi derivanti dalla produzione agricola sono ormai calcolati e pagati in contanti. In realtà, a riprova che l'uso della moneta è sempre collegato a trasformazioni sociali, ciò vale soprattutto per i contadini agiati che riescono a migliorare la propria posizione acquistando terreni - benché, come vedremo, non esista nel Medioevo un vero mercato della terra. Se si aggiunge che un numero crescente di prodotti vengono pagati in «moneta nera», si comprende come nel XIII secolo il denaro abbia recuperato in pieno la sua funzione di riserva di valore. Parallelamente, si osserva la ricomparsa e il rilancio della tesaurizzazione, il cui limite estremo è senza dubbio raggiunto dal tesoro di Bruxelles, composto di 140.000 pezzi sepolti intorno al 1264. In questi tesori il numero di denari, vale a dire di pezzi di uso corrente, appare in costante aumento. Se la circolazione monetaria resta frammentata, essa almeno si organizza meglio su base regionale, con il rapporto tra le diverse emissioni presenti che tende a stabilizzarsi. Relativamente alla Germania, i numismatici hanno definito il lungo XIII secolo «l'epoca delle monete regionali».
Questa regionalizzazione della circolazione monetaria determina la comparsa di una nuova categoria di cambiavalute professionisti; essi diventano così numerosi da occupare un ruolo centrale nella società. La ricchezza e il prestigio che raggiungono sono tali da permettere loro, ad esempio, di sponsorizzare due delle splendide vetrate della cattedrale gotica di Chartres. Uno dei più antichi statuti della corporazione dei cambiavalute a noi noti è stato redatto a Saint-Gilles nel 1178 e conta 133 nomi. Il romanzo cortese Galeran de Bretagne ci ha lasciato una vivace descrizione dei cambiavalute di Metz verso il 1220: Si sont li changeurs en la tire Qui davant eulx ont leur monnoye: Cil change, cil conte, cil noie, Cil dit: «C'est vois», cil: «c'est mençonge» Onques yvres, tant fust en songe, Ne vit en dormant la merveille Que puet cy veoir qui veille.
Cil n 'y resert mie d'oysensez Qui y vent pierres précieuses Et ymages d'argent et d'or.
Autre ont davant eulx grant trésor De leur riche vesselmenf.
Eppure, i membri fiorentini della professione ottengono uno statuto soltanto nel
1299, mentre a Bruges i cambiavalute pubblici hanno appena quattro uffici; a Parigi, pur appartenendo all'elite urbana, fatto testimoniato dal posto che occupano nelle processioni e nelle parate regie, i cambiavalute non dispongono di una propria organizzazione e il loro lavoro è tenuto sotto stretta sorveglianza. Come si avrà modo di ribadire in altre sezioni di questo studio, nel Medioevo l'impiego del denaro e la condizione dei professionisti del suo utilizzo oscillano tra la diffidenza e l'ascesa sociale. Quando la diffidenza si trova a essere rafforzata da un secondo fattore, essa può tradursi in disprezzo e perfino in odio, come in effetti accadde agli ebrei. I giudei furono a lungo i principali prestatori di denaro alla gente comune indebitata, ma solo nel momento in cui vennero soppiantati da cristiani e confinati nel ruolo di usurai divennero l'incarnazione del volto malvagio del denaro.
La maledizione della condanna biblica ed evangelica del denaro non li ha ancora abbandonati.

IL RIALZO DEI PRELIEVI FISCALI E LE SUE CAUSE
Questa «invasione» della moneta, che rappresenta in generale un progresso, determinò tuttavia una crescente inflazione, causa di notevoli difficoltà per signori e proprietari terrieri sempre più bisognosi di contante. Re e principi trassero profitto dall'esperienza acquisita prima nei loro possedimenti e poi nei loro regni - grazie a un'amministrazione fidata composta in Francia da prevosti, balivi e siniscalchi - per esercitare sui sudditi una pressione mirata a spillarne più denaro. Non essendo ancora in grado di riscuotere una tassa regolare, essi imposero balzelli e convertirono le rendite in natura in versamenti monetari: questa politica, che fu sistematica nelle Fiandre dal 1187 e nella Francia di Filippo Augusto, gettò le basi del rafforzamento del loro potere. Le città che si erano conquistate l'indipendenza in materia di amministrazione e finanza, come accadde nei Paesi Bassi e in Italia, applicarono la stessa politica. Nel complesso, le città che disponevano di un contado lo sfruttarono a fondo: nel 1280 Pistoia imponeva ai suoi contadini un contributo finanziario sei volte maggiore di quello pagato dai cittadini. A partire dall'ultimo quarto del secolo XII apparve un nuovo costume, sviluppatosi lentamente, che mostra come non necessariamente denaro e feudalesimo fossero incompatibili: alcuni signori concessero ai vassalli dei feudi, chiamati «feudi-rendita» o «feudi di borsa», che non consistevano né in terreni né in servizi ma in versamenti di rendite. Un lontano antecedente di questa pratica è stato scoperto in un documento del 996: la chiesa di Utrecht rese proprio vassallo un cavaliere non donandogli delle terre, ma imponendogli il pagamento annuale di dodici lire in contanti. I «feudi-rendita» si svilupparono rapidamente nei Paesi Bassi dalla fine del XII secolo.
Se da un lato l'economia, in particolare gli scambi commerciali, fu all'origine della crescita della circolazione monetaria, dall'altro l'attività che assorbì più risorse finanziarie fu una pratica semipermanente del Medioevo, la guerra. È ormai dimostrato che i costi umani della guerra furono inferiori a quanto si riteneva in passato, e ciò anche grazie all'accresciuta importanza del denaro che rendeva conveniente fare prigionieri e chiedere un riscatto piuttosto che uccidere i nemici - si pensi al riscatto di Riccardo Cuor di Leone al ritorno dalla Terra Santa o a quello di Luigi IX prigioniero dei saraceni in Egitto, entrambi assai elevati. I costi della preparazione e dell'equipaggiamento di un esercito erano invece certamente enormi.
Il re inglese Giovanni Senza Terra non partecipò alla battaglia di Bouvines nel 1214, ma versò 40.000 marchi d'argento per finanziare l'armata dei suoi alleati. Come brillantemente dimostrato da Georges Duby, l'organizzazione dei tornei, questa grande festa della cavalleria che ha resistito a tutti i divieti della Chiesa, costituiva in realtà un immenso mercato, paragonabile a certe manifestazioni sportive di oggi in cui girano parecchi soldi. Un'altra voce di spesa significativa è rappresentata dal lusso, sempre più apprezzato nelle corti aristocratiche e presso l'alta borghesia urbana. Alla fine del XIII secolo, la crescita delle spese voluttuarie (spezie e cibi raffinati, abiti femminili costosi in seta e pelliccia, compensi di poeti e musici di corte) spinse re, principi e comuni ad emanare leggi suntuarie volte a frenarne gli eccessi. Nel 1294 Filippo il Bello pubblica un'ordinanza che ha per oggetto «gli ornamenti superflui nel vestiario» e per destinatari soprattutto i borghesi, ai quali si vieta di indossare pellicce, monili, pietre preziose, corone d'oro e d'argento e abiti valutati più di 2000 lire tornesi per gli uomini e 1600 per le donne. Nella Toscana del Trecento gli statuti cittadini proibiscono severamente l'ostentazione del lusso in occasione dei matrimoni, si tratti di vestiti, regali, banchetti o cortei nuziali7. Nel 1368 Carlo V vietò in Francia, pare senza grande successo, le famose scarpe alla polacca. La cattedrale di Amiens, costruita nel XIII secolo, ospita, una significativa statua, che ho già avuto modo di menzionare, raffigurante due mercanti di guado, un prodotto ricavato da un'erba tintoria che conobbe in quell'epoca un formidabile successo in seguito alla crescente domanda di abiti tinti di blu. Ecco la moda, il lusso, il denaro che se ne ricava, esibiti in un luogo sacro!

"tratto da
LO STERCO DEL DIAVOLO
Il denaro nel Medioevo
di Jacques Le Goff"
Avatar utente
Veldriss
"IL CREATORE"
"IL CREATORE"
Messaggi: 5345
Iscritto il: 21 ottobre 2008, 10:55
Località: Sovere (BG)
Contatta:

Re: LO STERCO DEL DIAVOLO - Jacques Le Goff

Messaggio da leggere da Veldriss »

6. IL DENARO E LA FORMAZIONE DEGLI STATI

Il processo che la storiografia chiama costruzione dello Stato è uno degli ambiti nei quali si osserva meglio il successo del denaro nell'apogeo del lungo XIII secolo. Nei secoli XIII e XIV lo Stato non è ancora del tutto svincolato dal feudalesimo del resto non lo sarà definitivamente che con la Rivoluzione francese; tuttavia, il potere della monarchia, la comparsa di istituzioni rappresentative, lo sviluppo del diritto e dell'amministrazione segnano una tappa decisiva nella sua formazione.
Il rafforzamento dello Stato si manifesta con particolare energia nel settore fiscale, in cui il ruolo del denaro è ovviamente primario. A sostegno delle proprie finanze principi e re possono contare su varie entrate signorili, rendite dirette dei propri possedimenti, benefici derivanti dal monopolio sul conio monetario e, appunto, sulla riscossione delle imposte.

L'AMMINISTRAZIONE DELLE FINANZE
Il più precoce e centralizzato degli Stati, nonché il meglio rifornito di denaro, è quello pontificio. Verso la Santa Sede convergono innanzitutto le rendite delle terre e delle città direttamente sottoposte al potere papale, ovvero ciò che si usa definire patrimonio di San Pietro. Il papa, inoltre, riceveva da tutta la cristianità una speciale decima, che in realtà non finiva concretamente nelle casse pontificie, ma serviva a garantire ovunque la sussistenza del clero, la conservazione dei luoghi di culto e l'assistenza ai poveri. L'incremento generalizzato delle spese monetarie compromise il regolare pagamento della decima, tanto che il canone 32 del IV Concilio Lateranense, nel 1215, ne ribadì in modo formale il carattere obbligatorio, fissando anche l'importo minimo da pagare alla Chiesa. La Camera apostolica, riorganizzata proprio nel XIII secolo, gestiva per conto del papa e della curia pontificia le diverse entrate fiscali che alimentavano le finanze della Chiesa, i censi di tipo feudale e i frutti della riscossione dei benefici, con o senza un beneficiario diretto.
Negli ultimi anni del secolo XI la curia pontificia aveva per un certo periodo affidato la gestione delle sue finanze al potente ordine di Cluny, ma nel XII il papato riconsegnò alla diretta amministrazione della curia la riscossione e il trasferimento di censi, decime, rendite e donazioni. Al vertice della Camera apostolica Innocenzo III (1196-1215) pose un cardinale che risiedeva, come il papa, nel palazzo del Laterano. Nacque così la figura del camerarius, il cardinale camerlengo, incaricato di dirigere l'amministrazione del fisco, del patrimonio fondiario dello Stato pontificio e dei palazzi papali. Nel 1311, il Concilio di Vienne decretò che alla morte di ogni papa il collegio cardinalizio avrebbe nominato un nuovo camerlengo destinato a restare in carica per il periodo di vacanza del soglio apostolico.
Nella gestione delle finanze pontificie i papi del XIII secolo non esitarono ad appoggiarsi a banchieri esterni alla Chiesa, che ricevettero prima il titolo di «cambiavalute della camera» (campsor camerae) e poi, dal pontificato di Urbano IV, di «mercante della camera» o «mercante del signor papa» (mercator camerae, mercator domini pape). Gregorio IX (12711276) ammise in curia i banchieri Scotti di Piacenza, sua città natale. Alla fine del Duecento i più importanti banchieri pontifici incaricati di regolare tutti i pagamenti della Camera erano i Mozzi, gli Spini e i Chiarenti. Il costante aumento del bisogno di liquidità obbligò anche il papato a procurarsi nuove entrate; uno dei sistemi escogitati fu la vendita delle indulgenze, pratica resa possibile dal riconoscimento dell'esistenza del Purgatorio, sancita come dogma dal II Concilio di Lione del 1274. Come è noto, il commercio delle indulgenze fu una delle cause dello scisma luterano nel XVI secolo. La sistemazione ottimale del sistema finanziario e fiscale della Chiesa ebbe luogo nel Trecento, durante il periodo avignonese. La crescente attenzione al denaro da parte della Santa Sede indusse Luigi IX il Santo a indirizzare un'infuocata missiva che accusava il papato di essersi trasformato nel tempio di Mammona - una prova evidente sia dell'affermazione dell'economia monetaria sia delle resistenze che incontrava.
Nel corso del secolo XIII, nelle maggiori monarchie cristiane andò lentamente strutturandosi un'amministrazione speciale delle finanze regie. Come in altri ambiti, la più precoce fu la monarchia britannica, che trasferì e affinò in Inghilterra le pionieristiche istituzioni nate nel ducato di Normandia.
Così Enrico II Plantageneto (1154-1189), giustamente definito il primo «re finanziario d'Europa», organizzò un'amministra zione, ben descritta da Richard Fitzneale nel suo Dialogus de Scaceario del 1179, che prese il nome di «Scacchiere» perché utilizzava un grande tavolo a forma di scacchiera (il gioco degli scacchi, importato dall'Oriente, prese piede proprio nel XII secolo). Lo Scacchiere era diviso in due dipartimenti, uno che riceveva e versava le somme di denaro, e un altro incaricato di verificare conti e cifre. A capo dello Scacchiere c'era un tesoriere, carica ricoperta da un ecclesiastico fino a tutto il XIV secolo; subito sotto di lui c'erano quattro «baroni dello Scacchiere» e due deputy-chamberlains. I conti venivano registrati su rotoli, i rolls, rimasti in uso con continuità dai tempi di Enrico IL Secondo Jean-Philippe Genet quella inglese è stata «la più precoce amministrazione creata dalle monarchie occidentali, e una delle più sofisticate».
Il problema del fisco monarchico è affrontato da Giovanni di Salisbury, consigliere di Enrico II, nel suo celebre Policraticus, il primo grande trattato politico sull'arte del governo del Medioevo. Non si tratta per lui di una questione economica - una visione che nella sua epoca non esisteva ancora - ma di giustizia. Il re deve garantire e controllare la circolazione del denaro non nel suo interesse ma in quello di tutti i sudditi del regno. Ad essere importante non è tanto la ricchezza dello Stato quanto il buon governo che persegue l'interesse comune.
La fiscalità monarchica è dunque concepita come un problema di etica politica, non di economia.
L'unificazione monetaria della Bretagna, avvenuta alla fine del XII secolo, rappresenta un altro caso precoce di politica monetaria da parte di un principe: il denaro con la croce ancorata e il denaro di Guingamp ne furono gli strumenti. La Catalogna e l'Aragona nel 1174, la contea di Tolosa nel 1178 offrono due esempi analoghi.

IL CASO FRANCESE
I re di Francia non furono altrettanto pronti nell'organizzazione delle finanze del regno, il cui riordino cominciò seriamente solo all'inizio del Duecento, sotto Filippo Augusto, e fece grandi progressi durante il regno di Luigi IX il Santo. Solo alla fine del secolo XIII da un ramo della corte regia viene creata la Camera dei conti, che si struttura meglio sotto Filippo il Bello (1285-1314) e riceve la sua forma definitiva con l'editto di Vivier-en-Brie, emanato da Filippo V nel 1320. La Camera aveva due funzioni principali, verificare i conti e controllare il funzionamento dell'amministrazione dei beni dello Stato nel suo complesso.
La maggior parte delle risorse finanziarie del sovrano proveniva dal demanio regio. Secondo un'espressione dell'epoca, il re «viveva del suo». Durante il XIII secolo, comunque, guadagnarono importanza anche altre fonti di reddito, come le imposte derivanti dall'esercizio della sovranità (patenti regie, patenti di nobiltà), dall'amministrazione della giustizia e dal conio della moneta. Avendo riscontrato l'insufficienza di tutte queste rendite rispetto alle necessità di uno Stato in espansione, Filippo il Bello cercò di introdurre tasse permanenti e nel contempo di ottenere entrate straordinarie. Un tentativo di tassare le esportazioni, i mercati e le scorte fu accolto da forti resistenze perché comportava controlli fiscali a domicilio; questa imposta, ribattezzata maltòte, si risolse in un fallimento. Il sovrano pensò allora a imposte dirette sulle ricchezze acquisite, sui redditi, sul gruppo famigliare o sulle unità residenziali (il cosiddetto focatico). Nessuno di questi tentativi funzionò; in sostanza, lo Stato medievale non riuscì a conseguire l'obiettivo di ottenere fonti di finanziamento stabili e adeguate a sostenere la sua trasformazione in Stato moderno. Il denaro si rivelò così il tallone d'Achille dell'edificio monarchico, in Francia e più in generale nell'Europa cristiana.
La Francia del secolo XIII, e in particolare quella del regno di Luigi IX il Santo (1226-1270), offre un buon esempio dell'azione del potere centrale negli ambiti più direttamente correlati all'economia monetaria, come il finanziamento delle molteplici iniziative monarchiche, l'organizzazione delle finanze regie e il conio monetario - il monarca era un produttore di monete di tipo speciale, in quanto dotato di un'autorità superiore o addirittura di un monopolio sul conio. Gli interventi fondamentali di Luigi IX in campo monetario ebbero luogo nel suo ultimo decennio di regno, quando il nuovo ruolo del denaro, e le problematiche che ne derivavano, erano ormai evidenti nell'intera cristianità.
Gli interventi di Luigi IX si servono dello strumento dell'ordinanza, un importante atto ufficiale di governo che da solo illustra la posizione di primo piano che il denaro occupava nelle preoccupazioni di una monarchia del XIII secolo. È appunto con una serie di ordinanze che Luigi IX riorganizzò sia la produzione che la circolazione della moneta in Francia, definendo il ruolo del sovrano in questo specifico ambito. Secondo Marc Bloch, la più importante fu l'ordinanza del 1262, che fissava due principi basilari: la moneta del re ha corso in tutto il regno, mentre quella dei signori che possiedono il diritto di battere moneta lo può avere solo entro i confini dei loro domini. Nel 1265, due ulteriori ordinanze precisarono gli intenti della precedente. La fondamentale ordinanza del luglio 1266 decretò la ripresa del conio del denaro parisis e l'avvio della produzione del grosso tornese. Infine, l'ultima, andata perduta e datata tra 1266 e 1270, formalizzò la creazione dello scudo d'oro, di cui si riparlerà.
Luigi IX non aveva però aspettato il 1266 per interessarsi al ruolo del denaro nel suo regno. Non aveva coniato che denari tornesi, ma si era nondimeno preoccupato di garantire alla sua moneta un corso privilegiato in Francia e aveva emesso una serie di misure relative alla circolazione monetaria - di cui fornisco un elenco basato sulle ricerche di Etienne Fournial.
1. Nel 1263 fu stabilito che i denari tornesi e parisis, questi ultimi mai più coniati dopo la morte di Filippo Augusto (1223), dovevano circolare ed essere accettati nei versamenti di somme dovute al re.
2. Nel 1265 il rapporto tra il valore delle due monete venne fissato a due tornesi per un parisis.
3. In un'epoca in cui la contraffazione era frequente, il re vietò le monete che imitavano le sue, vale a dire i denari prodotti in Poitou, in Provenza e a Tolosa; era un segnale che la monarchia francese, radicata al Nord, intendeva imporsi anche nelle regioni meridionali.
4. «Siccome il popolo ritiene che non ci siano sufficienti tornesi e parisis» viene provvisoriamente autorizzata la circolazione di nantois, angevins, mansois e anche delle sterline inglesi, ma a un tasso fissato dalla tesoreria regia; il mancato rispetto della condizione avrebbe comportato prima il pagamento di un'ammenda e poi la confisca. Il divieto imposto alle monete baronali, meridionali o inglesi che fossero, non esprimeva solo l'ambizione di affermare il primato del conio regio, ma anche la volontà di migliorare l'approvvigionamento di metallo prezioso delle zecche regie. Non dimentichiamo che durante il Medioevo la cristianità visse sotto il peso di una certa carestia monetaria dovuta essenzialmente alla penuria e al rapido esaurimento dei giacimenti di metalli pregiati.
Le principali riforme monetarie di Luigi IX emanate nell'ordinanza del 24 luglio 1266, il cui testo originale è purtroppo perduto, sono le seguenti: 1. la ripresa del conio del parisis; 2. la creazione del grosso tornese; 3. la creazione dello scudo d'oro.
Le ultime due misure dimostrano che per rispondere all'espansione del commercio la Francia adottò, pur se con un po' di ritardo rispetto alle grandi città italiane, le due più significative riforme monetarie del XIII secolo, vale a dire la creazione di monete d'argento di alto valore e la ripresa del conio aureo. L'iniziativa più importante fu senza dubbio la produzione del grosso tornese. Questa moneta non raggiungeva il valore di quella d'oro, ancora troppo alto per la maggior parte dei mercati occidentali, ma rispondeva bene alle esigenze economiche francesi nel contesto di quella che è stata definita «la rivoluzione commerciale del XIII secolo». Il successo del grosso tornese, il cui valore corrispondeva a circa 12 denari tornesi, fu rafforzato dalla decisione di vietarne il conio all'aristocrazia. Il grosso di Luigi IX, il cui regno acquistò dal secolo XIV coloriture quasi mitiche nella memoria dei francesi («le bon temps de monseigneur Saint Louis»), sarà conosciuto anche come il «il grosso dalle due o tonde», perché le o di Ludovicus e turonus erano di dimensioni maggiori rispetto alle altre lettere della legenda. Il tornese fu a lungo valutato più degli altri grossi e resistette ai cambiamenti monetari di fine Duecento e Trecento. Al contrario, il prematuro scudo d'oro non riuscì mai ad affermarsi.
Luigi IX non apportò innovazioni alla gestione del tesoro reale, ma continuò ad appoggiarsi alle figure del tesoriere regio, creata nel XII secolo, e dei cambiavalute ufficiali, introdotti da Luigi VII; in generale, si rispettò la decisione di quest'ultimo di affidare il tesoro reale alla sede parigina dell'ordine del Tempio. Di nuovo, si osserva la rilevanza del ruolo svolto nel Medioevo centrale dai grandi ordini religiosi come gestori finanziari per conto dei capi di Stato. Era stato il caso, da inizio secolo XII, della gestione delle rendite e delle finanze della curia pontificia da parte dell'ordine cluniacense, e fu il caso della funzione svolta dai templari per la monarchia francese tra la metà del secolo XII e il 1295, data in cui il tesoro reale venne revocato al Tempio e trasferito prima al Louvre e poi nel palazzo reale della Cité, ricostruito al principio del Trecento. È venuto il momento di chiedersi come fossero concretamente gestite le finanze statali nel XIII secolo.
Il regno di Francia era suddiviso in regioni, dette baliati, al cui interno le finanze erano affidate alla responsabilità del balivo. Egli riscuoteva le imposte sulle transazioni immobiliari, i diritti di albergheria, i pagamenti in natura dei comuni, le tasse regie chiamate regalie, i diritti di sigillo per i documenti validati dal sigillo del sovrano, i versamenti delle comunità ebraiche, e infine le rendite forestali fino all'istituzione, nel 1287, di una specifica amministrazione delle acque e delle fo reste. A partire dal 1238, il balivo è autorizzato a utilizzare la cassa regia per pagare i compensi concessi dal re sugli introiti del baliato e le opere, vale a dire la costruzione o il restauro di castelli, palazzi, case, granai, prigioni, mulini, strade e ponti appartenenti al re.
Il più antico documento a stimare la ricchezza del re di Francia, precisamente quella del demanio regio che era una fondamentale fonte di rendite per il sovrano, è un testo del prevosto della chiesa di Losanna datato 1222; la fortuna che Filippo Augusto aveva ereditato da Luigi VII vi è valutata in un reddito mensile di 19.000 lire, ovvero 228.000 lire su base annua, mentre quella che stava per lasciare al figlio, il futuro Luigi Vili, è stimata in 1200 lire parisis al giorno, vale a dire 438.000 all'anno. Questi numeri rendono, nel regno di Francia, la monarchia di inizio XIII secolo seconda per ricchezza solo alla Chiesa. Nel corso del Duecento, il re di Francia riesce a riscuotere un'imposta sulle merci vendute ai mercati e alle fiere, il tonlieu. Egli, inoltre, riceve i pagamenti degli innumerevoli pedaggi che ricadono sui viaggiatori, le loro merci, i loro veicoli e gli animali da trasporto. Questi balzelli vengono riscossi come diritti d'accesso a strade, porti, ponti e corsi d'acqua. Anche il permesso di esercitare una certa professione comporta un versamento al re in denaro o in natura, chiamato hauban. Alle casse del re affluiscono poi pagamenti effettuati dai coniatori di monete, autorizzati a tale scopo a fondere lingotti o pezzi usati, e dagli utilizzatori di pesi e misure campione. Il sovrano, infine, eredita i beni di stranieri e figli illegittimi, riscuote una tassa dagli usurai ebrei, e incassa notevoli rendite derivanti dallo sfruttamento delle foreste demaniali per attività che vanno dal taglio della legna alla pesca, dalla costruzione di dighe all'utilizzo dei mulini. I costi del Palazzo reale sono in gran parte coperti dalle imposte sui sigilli. Qualora si trovi corto di denaro, il re può ricorrere alla concessione forzata di prestiti, soprattutto da parte delle città. Come si vede, il sovrano attinge a un duplice filone di rendite, sia come proprietario sia in quanto capo di Stato. I contribuenti che pagavano in contanti e i funzionari della regia tesoreria dovevano conoscere con esattezza i rapporti di cambio tra la moneta che usavano e la lira, che fungeva da riferimento di conto; era dunque necessaria una tabella di valutazione delle diverse monete, che riportava, in parisis e tornesi, le variazioni quotidiane dei loro rapporti con la moneta di conto e le sue suddivisioni. Un autentico sistema di verifica della contabilità statale non sarà predisposto che a inizio Trecento con l'istituzione della Camera dei denari, dal 1320 Camera dei conti; fino a quel momento ufficiali regi e concessionari erano tenuti a consegnare al Tesoro soldi e registri contabili tre volte l'anno, in occasione delle ricorrenze di San Remigio, poi spostata a Ognissanti, Candelora e Ascensione - più precisamente durante l'ottavario di queste feste.
La monarchia capetingia ha organizzato abbastanza presto le sue finanze, o almeno la sua contabilità, ma a noi è giunta solo una minima parte della documentazione - in particolare riguardo al periodo più antico non possediamo che tre prospetti delle imposte del biennio 1202-1203, che gli editori Ferdinand Lot e Robert Fawtier hanno definito il primo budget della monarchia3: vi risulta che l'ammontare delle entrate era stato di 197.042 lire e 12 soldi, a fronte di spese per 95.445 lire.
Luigi IX ha accresciuto il demanio regio incorporando nel 1240 il Maconnais e tenuto sotto scrupoloso controllo, anche contabile, le risorse silvo-pastorali che fornivano un quarto delle entrate del demanio stesso. Sono sopravvissuti i registri degli anni 1234, 1238 e 1248 - il conteggio dei balivi dell'Ascensione del 1248 è considerato un capolavoro di presentazione che servì a lungo come modello. Il regno di Luigi IX conferma quindi l'opinione di Marc Bompaire, secondo il quale «il denaro contribuì alla genesi dello Stato moderno come strumento di prestito privilegiato, fattore di unificazione e fonte di reddito».
Lo studioso rammenta che accanto all'aspetto politico, questa «monetarizzazione» dell'economia favorì effettivamente la diffusione e l'importanza del denaro contante. Lo storico brasiliano Joào Bernardo, nel suo monumentale studio4, sostiene che la diffusione del denaro nel lungo secolo XIII europeo è legata soprattutto alla transizione dalle signorie famigliari personali a una famiglia statuale artificiale e impersonale. Il denaro, nella sua interpretazione, è un fattore determinante di trasformazione sociale.
Al di là delle questioni schiettamente economiche, Luigi IX il Santo è un cristiano del suo tempo che si preoccupa in primo luogo della salvezza della propria anima e, in quanto re, di quella dei suoi sudditi. Il suo impegno a dotare il regno di una moneta forte è diretta conseguenza della sua volontà di sostenere la giustizia anche negli scambi commerciali. Egli certamente conosce e condivide la definizione di Isidoro di Siviglia: moneta viene da monere, avvertire, poiché essa mette in guardia contro ogni tipo di frode, nel metallo e nel peso. La sua è una lotta contro la «cattiva» moneta - la moneta fasulla, falsa, o falsificata, defraudata - e una tensione verso la «buona» moneta, «sana e leale». Grazie a questa buona moneta, che affluisce in quantità crescente, il sovrano può soddisfare uno dei suoi auspici, la carità, una virtù che, come vedremo, assu me una posizione centrale nella società del XIII secolo. Il re è un grande distributore di elemosine, una parte in natura, ma un'altra parte in denaro. Anche in questo ambito si osserva un incremento della circolazione monetaria.

UN ORGANISMO ORIGINALE, LA HANSA
La Hansa è un organismo che, senza essere uno Stato, a partire dal secolo XII divenne una grande potenza cristiana, economica, sociale e politica, decisiva nella partecipazione dell'Europa settentrionale e nord-orientale alla rivoluzione commerciale del lungo XIII secolo. La Hansa prende corpo con la fondazione nel 1158 della città di Lubecca, porta dell'Occidente verso l'Est. La città divenne, e rimase, il cuore della Hansa: un'associazione dei mercanti delle principali città commerciali di questa area geografica, che soppiantarono i colleghi fiamminghi e di alcuni centri tedeschi, soprattutto quelli di Colonia, particolarmente numerosi e attivi. In effetti, una prima associazione di mercanti tedeschi si era formata nel XII secolo nell'isola svedese di Gòtland, il cui maggiore centro, Visby, era una città duplice dove coesistevano e collaboravano un'associazione di mercanti tedeschi e un'altra di scandinavi.
Visby fu una concorrente di Lubecca e nel XIII secolo divenne la base d'appoggio dei mercanti tedeschi che trafficavano in Russia. Ogni anno essi depositavano a Visby la cassa della filiale che avevano fondato a Novgorod, ma dalla fine del XII secolo Lubecca ottenne il riconoscimento della sua superiorità su Visby, come del resto sulle altre città tedesche.
A informarci sulla Hansa del XIII secolo provvedono i registri dei crediti tenuti in diverse città, come Lubecca, Amburgo e Riga. Le spettanze della Hansa appaiono basse nel solo settore inglese. Nel complesso gli anseatici seppero imporre ai partner locali condizioni a sé favorevoli per quanto riguarda il pagamento dei debiti, indizio della crescente importanza del credito nel commercio. Essi ricevevano anche ricompense per il salvataggio di marinai e mercanti in caso di naufragio. Ma soprattutto essi ottennero delle importanti riduzioni sulle tariffe doganali, una minuziosa definizione delle tasse da pagare e la garanzia che le imposte in vigore non avrebbero subito ritocchi e non ne sarebbero state introdotte di nuove. Un esempio celebre è quello delle tariffe accordate agli anseatici dalla contessa di Fiandra nel 1252.
Nello spazio anseatico si diffuse capillarmente il ricorso al credito, sovente ricalcato sulle prassi italiane, all'avanguardia in questo ambito. Alla fine del XIII secolo le città ricorsero a registri di credito che conferivano alle operazioni una garanzia di ufficialità. Lo stimolo fornito dagli anseatici all'incremento della circolazione del denaro, tuttavia, venne ostacolato nelle regioni orientali dalla persistenza del baratto e della «moneta di cuoio», ovvero l'uso della pelle di martora come unità di pagamento. A Pskov e Novgorod l'introduzione della moneta metallica non riuscì, tanto che alla fine del XIII secolo fu proibita la vendita a credito. In materia monetaria gli anseatici conobbero successi e fallimenti. Fu un successo la precoce acquisizione da parte delle città del diritto di battere moneta - con l'eccezione di alcuni centri della Westfalia e della Sassonia, dove rimase appannaggio dei vescovi; per contro, si rivelò impossibile ridurre il numero delle monete in uso nei vasti territori della Hansa, con conseguenti costi supplementari per le operazioni di cambio e inevitabili complicazioni per il commercio nel complesso. Circolavano contemporaneamente marchi di Lubecca, di Pomerania, di Prussia, di Riga, talleri brandeburghesi a est, fiorini renani a ovest. In generale, le monete di conto più diffuse erano il marco di Lubecca, il grosso fiammingo e, in posizione secondaria, la sterlina inglese. Gli anseatici erano fortemente legati alle monete d'argento e, a partire dalla seconda metà del Duecento, cercarono di ostacolare l'espansione di quelle d'oro nei territori di loro interesse.
Il caso della Hansa, in definitiva, illustra come nel Medioevo il denaro abbia contribuito a far nascere ed evolvere entità economiche e politiche originali.

"tratto da
LO STERCO DEL DIAVOLO
Il denaro nel Medioevo
di Jacques Le Goff"
Avatar utente
Veldriss
"IL CREATORE"
"IL CREATORE"
Messaggi: 5345
Iscritto il: 21 ottobre 2008, 10:55
Località: Sovere (BG)
Contatta:

Re: LO STERCO DEL DIAVOLO - Jacques Le Goff

Messaggio da leggere da Veldriss »

7. PREZZO, INDEBITAMENTO E USURA

Il crescente fabbisogno di denaro, che dal secolo XII condizionò tutti nell'Occidente medievale, si scontrò con la relativa debolezza della massa monetaria in circolazione, ma ancora di più con l'inadeguatezza delle risorse pecuniarie dei singoli. A doversi indebitare furono in primo luogo i contadini, in quanto la vendita dei prodotti agricoli, di basso valore unitario e limitata a mercati locali o regionali, portava loro poco contante.
Solo dal secolo XIII si svilupparono coltivazioni «industriali» come il guado o la canapa, con la conseguente rivalutazione degli utensili e un aumento di prestigio dei loro produttori, i fabbri: fu proprio nel XIII secolo che apparvero i cognomi legati alla professione di fabbro, come Favre, Fèvre o Lefèvre in francese, Fabbri o Ferrari in italiano, Smith in inglese, Schmitt o Schmidt in tedesco - senza contare lingue oggi minoritarie come il bretone, in cui è diffuso il cognome derivato dal nome celtico del fabbro, Le Goff.

IL PRESTITO A INTERESSE TRA EBREI E CRISTIANI
L'indebitamento contadino è difficile da studiare nel dettaglio; è stato comunque osservato che nei Pirenei orientali del secolo XIII molti agricoltori avevano per creditori degli ebrei. L'aumento della domanda di contante contribuì alla fortuna degli ebrei, ma spesso in misura ben più modesta rispetto alle voci che correvano. In effetti, in un contesto di bisogni ridotti, fino al secolo XIII a prestare soldi erano state soprattutto le istituzioni monastiche. Fu quando l'impiego del denaro si urbanizzò che gli ebrei cominciarono a svolgere un ruolo importante come prestatori di denaro, dal momento che secondo l'interpretazione che veniva data dell'Antico Testamento il prestito a interesse, almeno teoricamente, era vietato tra cristiani da un lato e tra giudei dall'altro, ma ammesso tra cristiani ed ebrei: questi ultimi, esclusi dall'agricoltura, trovarono in alcune professioni urbane, come la medicina, una fonte di reddito che ebbero poi l'opportunità di incrementare prestando soldi ai cristiani. Se in questo libro non si parla molto di ebrei è perché nelle regioni europee in cui la circolazione del denaro è stata più intensa, essi sono stati ben presto (tra XII e XIII secolo) sostituiti da cristiani e scacciati da alcune importanti regioni di questa Europa: dall'Inghilterra nel 1290 e dalla Francia nel 1306 e ancora nel 1394. Come si vede, malgrado l'effettiva esistenza di ebrei che prestavano a breve scadenza e ad alto tasso d'interesse, l'immagine dell'Ebreo usuraio non è tanto un dato di realtà quanto un fantasma che preannuncia l'antisemitismo del secolo XIX.
Ovviamente il prestito implicava il pagamento di un interesse da parte del debitore. La Chiesa, però, vietava il prestito a interesse a un debitore cristiano da parte di un creditore cristiano. I passaggi scritturali invocati a supporto di questa posizione sono: Mutuum date, nihil inde sperantem, ovvero «prestate senza sperare nulla» (Luca, 6, 35); «Se il tuo fratello si trova in difficoltà ed è inadempiente verso di te, tu lo sostenterai come ospite e residente e vivrà presso di te. Non prenderai da lui denaro per interesse o profitto. Temerai il tuo Dio e tuo fratello vivrà presso di te. Non gli darai il tuo denaro per ricavarne interesse, né per ricavarne profitto gli darai il tuo cibo» (Levitico, 25, 35-37), «Non esigerai interesse da tuo fratello: interesse per denaro, interesse per viveri, interesse per qualsiasi cosa per cui si può esigere un interesse. Dallo straniero potrai esigere un interesse, ma da tuo fratello non lo esigerai» (Deuteronomio, 23, 20-21). Il Decreto di Graziano, compilato nel XII secolo e fondamento del diritto canonico, stabilisce che Quicquid ultra sortem exigitur usura est, «Tutto ciò che viene riscosso al di là del capitale è usura».
Il Decreto esprime chiaramente l'atteggiamento della Chiesa di fronte all'usura nel secolo XIII: è usura tutto ciò che, richiesto in restituzione di un prestito, eccede lo stesso bene prestato; praticare l'usura è un peccato condannato da Antico e Nuovo Testamento; la restituzione maggiorata del valore di un bene prestato è un peccato; il frutto dell'usura deve essere restituito integralmente al possessore originale; praticare prezzi più elevati in una vendita a credito è implicitamente un atto di usura.
Le principali conseguenze di questa dottrina sono le seguenti: 1. L'usura è un aspetto del peccato mortale di cupidigia (avaritia); l'altra forma grave di avaritia è il traffico di beni spirituali chiamato simonia, una pratica in sensibile calo dopo la riforma gregoriana di fine secolo XI.
2. L'usura è un furto, in primo luogo furto del tempo che non appartiene che a Dio, perché essa fa pagare il tempo trascorso tra prestito e rimborso. L'usura, dunque, fa nascere un nuovo tempo, il tempo dell'usuraio. E questo il momento di segnalare che il denaro ha profondamente modificato il concetto e l'esperienza del tempo nel Medioevo, un'epoca in cui convivevano molteplici vissuti del tempo, come ha mostrato Jean Ibanès. L'aumento della circolazione del denaro ha cambiato le principali strutture della vita quotidiana, della morale e della religione medievali.
3. L'usura è un peccato contro la giustizia, come sottolinea con particolare enfasi san Tommaso d'Aquino3; ora, il Duecento è per eccellenza il secolo della giustizia, la maggiore virtù dei sovrani, come ha dimostrato il re di Francia Luigi IX il Santo nelle sue azioni di uomo e di re.

LA DANNAZIONE DELL'USURAIO
Nel XIII secolo, alla natura diabolica del denaro si aggiunge una nuova componente che gli autori scolastici mutuano da Aristotele, lui stesso una grande scoperta intellettuale di quel periodo. Citando Aristotele, Tommaso dice: nummus non parit nummos, «il denaro non partorisce denari». L'usura si configura così anche come un peccato contro la natura, la quale era ormai agli occhi dei teologi scolastici una creazione divina.
Per l'usuraio, quindi, non c'è possibilità di salvezza, egli è destinato all'Inferno, come dimostrano le sculture che l raffigurano con appesa al collo una borsa piena di soldi il cui peso lo trascina verso il basso. Già papa Leone Magno aveva affermato che «fenus pecuniae, funus est animae», «il profitto del denaro è la morte dell'anima». Nel 1179, il III Concilio Lateranense proclamò che nelle città cristiane gli usurai erano estranei cui doveva essere negata la sepoltura religiosa.
L'usura è come la morte.
I testi del secolo XIII che raccontano la fine orribile di un usuraio sono numerosi.
Ecco, ad esempio, quello che narra un manoscritto anonimo del Duecento: «Gli usurai peccano contro la natura pretendendo di generare denaro dal denaro, come un cavallo da un cavallo o un mulo da un mulo. Per giunta, gli usurai sono ladri, perché vendono il tempo che non appartiene loro, e vendere un bene contro la volontà del possessore non è altro che un furto. Inoltre, siccome non vendono altro che l'attesa del denaro, ovvero il tempo, essi vendono dei giorni e delle notti; ma il giorno è il tempo della luce e la notte il tempo del riposo: di conseguenza essi vendono luce e riposo. Per questa ragione non è giusto che essi ricevano la luce e il riposo eterni».
Nella medesima epoca un'altra categoria professionale conosce un'evoluzione parallela. Si tratta dei «nuovi intellettuali» che insegnano al di fuori delle scuole monastiche e delle cattedrali richiedendo agli allievi il pagamento di un compenso, la collecta. San Bernardo, tra gli altri, li ha fustigati come «mercanti di parole», con la motivazione che essi vendono la conoscenza che, come il tempo, appartiene a Dio. Nel secolo XIII questi intellettuali si organizzano in università che, grazie a un sistema di prebende, garantiscono loro non solo il necessario alla sussistenza ma anche una certa agiatezza, per quanto siano noti anche universitari poveri. In ogni caso, la nuova parola di questi intellettuali è in qualche misura legata al denaro, che si insinua ormai in tutte le attività umane, siano tradizionali o innovative.
In una delle più antiche summae per confessori, quella scritta al principio del secolo XIII da Tommaso di Cobbam (o Chobham), un inglese formatosi all'Università di Parigi, si legge che «l'usuraio pretende di guadagnare senza lavorare, addirittura dormendo; ciò va contro il precetto del Signore, che ha detto: "con il sudore del tuo volto mangerai il pane"» (Genesi, 3, 19). Si intravede qui la comparsa di un nuovo tema, la valorizzazione del lavoro, fondamentale per la fioritura economica del XIII secolo e che inevitabilmente si incrocia con la diffusione del denaro.
Per una larga parte del XIII secolo la sola speranza di evitare l'Inferno per un usuraio era la restituzione degli interessi ricevuti. La forma migliore di riparazione era quella che avveniva prima della sua morte, ma rimaneva la possibilità di una salvezza post mortem prevedendo la restituzione nel testamento. In questo caso sia le responsabilità sia il rischio della dannazione eterna dell'usuraio ricadono sugli eredi o sugli esecutori testamentari. Un racconto esemplare incluso nella Tabula exemplorum, testo della fine del Duecento, narra di un usuraio che al termine della sua vita lasciò, con regolare testamento, i suoi beni a tre esecutori con il mandato di restituire tutto il guadagno illecito. Egli aveva domandato loro cosa temessero di più al mondo. Il primo rispose la povertà, il secondo la lebbra, il terzo il fuoco di sant'Antonio. [...] Dopo la sua morte, però, i tre avidi si appropriarono di tutti i beni del defunto. Di lì a poco, come per maledizione, furono colpiti da ciò che più temevano: povertà, lebbra e fuoco di sant'Antonio.
Possediamo pochi documenti medievali che ci informino su concrete restituzioni di somme guadagnate con l'usura.
Gli storici che non credono troppo al potere di condizionamento della religione sugli uomini ritengono che il loro numero sia stato limitato. Io credo, invece, almeno per il XIII secolo, che l'ascendente della Chiesa sulle coscienze e il terrore delle fiamme infernali abbiano incoraggiato molte restituzioni; non a caso alcuni autori ecclesiastici hanno scritto dei trattati intitolati De restitutionibus per illustrarne le procedure.
Certo è che l'atto della restituzione era considerato uno dei più faticosi da compiere. Ne è inattesa testimonianza una frase di Luigi IX il Santo riportata da Joinville: il re diceva che era una pessima cosa appropriarsi dei beni altrui perché restituirli era così arduo che la sola pronuncia della parola rendere strozzava la gola a causa delle r che contiene, le quali rappresentano i rastrelli del diavolo che sempre trascinano indietro coloro che hanno deciso di restituire i beni altrui. E con astuzia il Maligno inganna ladri e usurai in modo che essi si portano nella tomba ciò che dovrebbero restituire.
La Chiesa del secolo XIII non si accontenta di condannare l'usura all'Inferno, ma la espone alla riprovazione e al disprezzo degli uomini. Un celebre predicatore del XIII secolo, Giacomo di Vitry, racconta quanto segue: Un predicatore voleva dimostrare a tutti che il mestiere di usuraio era talmente odioso che nessuno osava confessare di praticarlo; così durante un sermone disse: «Io voglio darvi l'assoluzione secondo le vostre professioni: si alzino i fabbri!». E si alzarono. Dopo aver dato loro l'assoluzione, disse: «Si alzino i pellicciai!». E si alzarono. E così proseguì chiamando i diversi artigiani, che via via si alzavano. Infine gridò: «Si alzino gli usurai per ricevere l'assoluzione!».
Gli usurai erano i più numerosi, ma si nascondevano per la vergogna. Essi si ritirarono pieni di imbarazzo tra le risate e gli scherni.
Nella cultura medievale, come ha ben mostrato Michel Pastoureau, i simboli regnano sovrani e gli animali forniscono una ricca collezione di modelli per rappresentare il male. L'usuraio è spesso paragonato a un leone che sbrana la preda, a una perfida volpe, a un lupo ladro e famelico. Affidandosi a queste metafore, predicatori e scrittori del Medioevo descrivono l'usuraio come un animale che al momento della morte perde la sua pelliccia, simbolo delle ricchezze sottratte illecitamente. L'animale più utilizzato nella rappresentazione simbolica dell'usuraio è il ragno, una comparazione che l'immaginario medievale sfrutta per attribuire agli usurai l'abitudine di trasmettere di padre in figlio la loro infame professione. Ecco come Giacomo di Vitry racconta i funerali di un usuraio-ragno: Ho sentito un cavaliere riferire di avere incontrato un gruppo di monaci che seppellivano il cadavere di un usuraio. Disse loro: «Vi lascio il cadavere del mio ragno, che il Diavolo si prenda la sua anima. Ma io del ragno avrò la tela, vale a dire il suo denaro». A buon diritto si paragonano gli usurai ai ragni, che si eviscerano per acchiappare le mosche e che immolano al demonio non solo loro stessi, ma anche i propri figli, trascinandoli nel fuoco della cupidigia [...]. Il loro vizio, infatti, continua per generazioni. Alcuni usurai, addirittura, già prima della nascita dei figli destinano loro del denaro affinché possano moltiplicarlo grazie all'usura. Così i loro figli nascono ricchi, ma pelosi come Esaù. Alla loro morte, poi, lasciano il denaro ai propri successori che muovono a Dio una nuova guerra.
Come ha dimostrato Georges Duby ispirandosi ai lavori di Georges Dumézil, la Chiesa medievale ha classificato la società in tre categorie: uomini di preghiera, guerrieri e lavoratori. Giacomo di Vitry, però, ne aggiunge una quarta: Il Maligno ha inserito un quarto genere di uomini, gli usurai. Essi non partecipano al lavoro degli altri uomini e perciò non subiranno il castigo degli uomini, ma quello dei diavoli. La quantità di denaro che hanno guadagnato con l'usura corrisponde alla quantità di legna inviata agli Inferi per bruciarli.
A volte Dio non aspetta la morte per consegnare un usuraio al Demonio e all'Inferno. I predicatori descrivono usurai che all'approssimarsi della fine perdono l'uso della parola e non riescono a confessarsi. Altri muoiono all'improvviso, che per i cristiani del Medioevo è il peggior modo di congedarsi dal mondo, perché non lascia il tempo di pentirsi dei propri peccati.
Un domenicano del convento dei Predicatori di Lione, Stefano di Bourbon, racconta un aneddoto che sembra aver conosciuto una forte diffusione e un grande successo: Nell'anno del Signore 1240, a Digione, un usuraio volle celebrare le sue nozze con grande sfarzo. Fu accompagnato a tempo di musica fino alla chiesa parrocchiale della Santa Vergine. Sotto il portico della chiesa attendeva che la fidanzata desse il suo consenso e, secondo gli usi, il matrimonio fosse ratificato con le parole rituali, prima che le nozze venissero coronate dalla celebrazione della messa e dagli altri riti all'interno della chiesa5. Mentre i due promessi sposi felici stavano per entrare in chiesa accadde che una statua di pietra raffigurante un usuraio trascinato all'Inferno dal Diavolo si staccò e cadde con tanto di borsa sulla testa dell'usuraio in carne e ossa, uccidendolo. La festa si volse in lutto, la gioia in tristezza.
È questo un esempio davvero efficace del ruolo straordinariamente attivo che il Medioevo poteva fare interpretare alle immagini, e in particolare alla scultura. L'arte è qui arruolata nella lotta al cattivo uso del denaro.
Alla storia e alla morte degli usurai l'epoca medievale ha dedicato una vasta letteratura di un genere che potremmo definire thriller. Il denaro e l'usura vi sono trattati alla stregua di armi fatali. Ecco un altro racconto di Stefano di Bourbon: Ho sentito parlare di un usuraio gravemente malato e deciso a non restituire nulla, ma che nondimeno ordinò di distribuire ai poveri almeno il frumento del suo granaio. Quando i suoi servitori si recarono al deposito trovarono i chicchi trasformati in serpenti.
Appena lo venne a sapere, l'usuraio restituì tutto e lasciò scritto che il suo cadavere venisse gettato nudo tra i rettili, nella speranza che se il suo corpo fosse stato divorato dai serpenti quaggiù la sua anima non lo sarebbe stata nell'aldilà. Le sue ultime volontà vennero eseguite. I serpenti divorarono il suo corpo, di cui non restarono che un po' di ossa bianche. Alcuni aggiungono che una volta terminato il loro compito le serpi scomparvero e solo le ossa bianche e nude restarono sul posto.

LA PROGRESSIVA GIUSTIFICAZIONE DEL PRESTITO A INTERESSE
Vorrei ora provare a descrivere come il prestito a interesse, a lungo identificato con il peccato di usura, venne lentamente e a certe condizioni riabilitato nel corso dei secoli XIII e soprattutto XIV e XV. Questa riabilitazione nasce dal desiderio degli usurai di essere considerati buoni cristiani e dalla volontà di una parte della Chiesa di salvare anche i peggiori peccatori introducendo nelle proprie concezioni della vita umana e del la società quegli aggiustamenti che sembravano necessari di fronte ai mutamenti storici in atto, non ultimo la diffusione del denaro. In una società ormai abituata alle pratiche monetarie, si assiste all'evoluzione dei valori fondamentali ai quali obbediva l'esistenza degli uomini e della società cristiana del XIII secolo e in cui ho creduto di ravvisare «una discesa di valori dal cielo alla terra»6. Il primo dei valori che si radicano durante il XIII secolo è la giustizia, sopra alla quale, però, si colloca la caritas, l'amore per il prossimo. Vedremo come la diffusione dell'uso del denaro abbia potuto conciliarsi con l'esigenza di caritas, la quale rinvia piuttosto a un'economia del dono in una concezione però diversa da quella esposta da Marcel Mauss nel suo celebre Saggio sul dono (1932-1934). Si devono poi aggiungere gli effetti della valorizzazione del lavoro, che introdusse nell'impiego e nell'espansione del denaro una nuova particolare dimensione legata alla crescente importanza del lavoro salariato. Mi accontenterò qui di accennare a quello che mi pare essere il principale strumento utilizzato dalla società medievale, e in particolare dalla Chiesa, per evitare che l'usuraio fosse fatalmente e senza speranza votato alla dannazione eterna.
Qualche anno fa ho cercato di spiegare come, in risposta alla grande preoccupazione di tutti i cristiani per la vita ultraterrena, nella seconda metà del secolo XII in Occidente abbia fatto la sua comparsa l'idea di un aldilà intermedio, il Purgatorio. In questa nuova regione dell'aldilà il peccatore subisce, per una durata proporzionale al numero e alla gravità delle sue colpe, una serie di torture espiatorie di tipo infernale, ma grazie alle quali evita la dannazione eterna. A questo punto, quindi, dopo aver sufficientemente espiato o al più tardi al momento del Giudizio finale, anche alcuni usurai dalle colpe non irreparabili possono sperare nella salvezza e, come gli altri artigiani di cui parla Giacomo di Vitry, essere accolti in Paradiso. Il primo esempio a noi noto di salvataggio di un usuraio grazie al Purgatorio compare nel trattato Dialogus magnus visionum ac miracolorum, scritto verso il 1220 dal cistercense tedesco Cesario di Heisterbach; vi si narra la storia di un usuraio di Liegi: Un usuraio di Liegi mori poco tempo fa. Il vescovo ne ordinò l'espulsione dal cimitero. Sua moglie si recò dal papa per implorare che il marito fosse accettato in terra consacrata. Il pontefice rifiutò. Lei allora perorò la causa del suo sposo:
«Signore, mi è stato detto che marito e moglie sono una cosa sola e secondo l'Apostolo l'uomo peccatore può essere salvato dalla fede della sposa. Ciò che mio marito non ha fatto lo farò io, che sono parte del suo corpo.
Sono pronta e entrare in clausura per lui e riscattare i suoi peccati».
Il papa, cedendo alle preghiere dei cardinali, accettò di fare riaccogliere l'usuraio nel cimitero. La donna visse come reclusa presso la sua tomba e giorno e notte pregava Dio per la salvezza dell'anima del marito con elemosine, digiuni, orazioni e veglie. Dopo sette anni il marito le apparve vestito di nero e la ringraziò: «Dio ti renda merito, perché grazie ai tuoi sforzi io sono stato richiamato dalle profondità degli inferi, dove soffrivo le più orrende pene. Se per altri sette anni continuerai ad aiutarmi io sarò salvato». Lei lo fece e al termine di altri sette anni lui si manifestò di nuovo, ma questa volta era vestito di bianco e il suo sguardo felice: «Siano rese grazie a Dio e a te perché oggi sono stato liberato».
Cesario spiega poi che il luogo dove l'usuraio di Liegi ha soggiornato tra la sua morte e la liberazione della sua anima grazie ai sacrifici della moglie altro non è che il Purgato rio. Per quanto sia chiaro che il Purgatorio non è stato creato per salvare gli usurai, ma concepito all'interno di una visione più vasta e rinnovata dell'aldilà, rimane il fatto che la storia narrata nel Dialogus miracolorum evidenzia un nesso tra il Purgatorio e la rilettura del ruolo del denaro nella società. Si può ormai dire, con Nicole Bériou, che nella cristianità l'idea di lucro si collochi «tra vizio e virtù».
Il Purgatorio non è, evidentemente, il principale strumento per salvare gli usurai dalle fiamme infernali. Nel corso del secolo XIII, e fino alla fine del XV, si crearono lentamente le condizioni che resero accettabile la pratica di ciò che la Chiesa chiamava usura. Ricordiamo che allora era classificata come usura la semplice riscossione di un interesse sul denaro prestato. La grande espansione dell'impiego del denaro ha tuttavia come conseguenza la parallela crescita dell'indebitamento presso tutti i ceti che formano la società occidentale del Duecento. Questo indebitamento tocca in modo particolare i contadini, che fino ad allora avevano maneggiato e posseduto contante in misura limitatissima; ora, invece, in quella che Marc Bloch ha chiamato la seconda fase del feudalesimo, molti pagamenti in natura vengono convertiti in imposte monetarie obbligando gli agricoltori a disporre di una certa quantità di denaro. In alcune regioni le campagne furono l'ambito privilegiato dell'arricchimento prima dei prestatori ebrei, e poi dei cristiani che progressivamente ne presero il posto. A operare nelle campagne erano sia prestatori cittadini sia ricchi contadini, sempre cristiani, per i quali il prestito ai colleghi meno fortunati divenne il mezzo per rimpinguare le proprie entrate.
Si consolidò così l'esistenza di una categoria di un ceto contadino ricco.
In termini generali, l'evoluzione delle norme, ecclesiastiche e principesche, e delle mentalità che condannavano l'impiego del denaro andava di pari passo con quella delle norme che regolavano l'attività dei mercanti. Nel secolo XI, grazie soprattutto alle cosiddette «Paci di Dio» e «Paci del Principe», i mercanti furono protetti dalla Chiesa e dai signori, i quali giustificarono il loro atteggiamento appoggiandosi a due argomenti fondamentali. Il primo era l'utilità. Il cristianesimo medievale non aveva mai ben distinto il buono, e anche il bello, dall'utile; a partire dal XII secolo, l'aumento delle esigenze delle popolazioni relativamente a mezzi di sussistenza e bisogni essenziali, fenomeno palpabile soprattutto nelle città, contribuì a enfatizzare l'utilità del lavoro agricolo, apportatore dei prodotti di cui gli altri cristiani avevano bisogno o desiderio. In testa ai prodotti indispensabili c'erano senza dubbio i cereali, necessari per produrre il pane, alimento centrale dell'Occidente, ma non va dimenticato il sale, marino o di miniera, mentre tra i prodotti voluttuari desiderabili le preferenze andavano a spezie, pellicce e seta.

IL LAVORO E IL RISCHIO
La seconda importante giustificazione dell'attività commerciale era l'idea che il lavoro meritasse una ricompensa.
Nell'Alto Medioevo il cristianesimo aveva a lungo disprezzato il lavoro come conseguenza del peccato originale. La terza categoria di persone che rientrava nello schema ternario della società, quella dei laboratores, includeva essenzialmente i contadini, ovvero il livello inferiore della scala sociale feudale.
La posizione dei monaci, principali diffusori di valori morali nell'Alto Medioevo, era peraltro ambigua: la regola di san Benedetto prevedeva sì l'obbligatorietà del lavoro manuale, ma essenzialmente in ottica penitenziale - e comunque molti monaci preferivano lasciare l'incombenza ai fratelli laici. Dal secolo XII, per contro, parallelamente alla valorizzazione della persona e del ruolo femminile, grazie allo sviluppo del culto mariano, il lavoro andò incontro a una decisiva rivalutazione all'interno del sistema dei valori e delle dinamiche del prestigio sociale. L'uomo, che fino ad allora era stato pensato, alla stregua di Giobbe, come una creatura colpevole e sofferente, tornò ad essere, come sottolineavano i commenti alla Genesi, la creatura plasmata da Dio a sua immagine e somiglianza; Dio stesso nel lavoro della creazione del mondo aveva faticato prima di riposarsi il settimo giorno. L'uomo lavoratore divenne così un collaboratore di Dio nella costruzione di un mondo che si sforzava di corrispondere alle aspettative del creatore.
Al di là dei suddetti valori, essenziali per la riabilitazione dei mercanti e ben presto anche degli usurai, i teologi scolastici del XIII secolo elaborarono una riflessione che finalmente fissava i principi in grado di legittimare l'esistenza di una ricompensa finanziaria per i prestatori di denaro, riconoscendo in sostanza un valore ai soldi prestati e l'accettabilità dell'interesse.
La prima giustificazione, che dai mercanti si estese ai prestatori, era basata sulla constatazione che essi si accollavano un rischio. Su questo punto mi allontano dalle posizioni di Alain Guerreau, di cui in generale apprezzo le brillanti interpretazioni della società medievale. Sylvain Piron ha dimostrato come il termine resicum abbia fatto la sua comparsa presso i notai e i mercanti mediterranei a cavallo dei secoli XII e XIII.
La parola entrò nel vocabolario e nella riflessione dei teologi scolastici grazie alla mediazione del domenicano catalano Raimondo di Penafort, che se ne servì a proposito del «prestito marittimo» (foenus nauticum)9. Malgrado le vie di terra fossero costellate di pedaggi imposti da signori o, peggio, infestate dai briganti che rendevano oltremodo insicuro l'attraversamento delle foreste, gli uomini del Medioevo provarono a lungo un particolare timore nei riguardi del mare, considerato il luogo pericoloso per eccellenza, come esplicitano dipinti ed ex-voto.
Quando non minacciava direttamente la vita del mercante, il mare metteva a rischio il buon esito della consegna delle merci; di fatto, allora, la frequenza dei naufragi e della pirateria legittimava la richiesta di un interesse che compensava l'alto livello di rischio corso. La maggiorazione dei prezzi era indicata da eloquenti espressioni come damnum emergens, periculum sortis, ratio incertitudinis.
Ulteriori motivazioni dell'accettabilità dell'interesse erano la rinuncia a trarre beneficio dal denaro prestato durante la durata del prestito (lucrum cessans) e la ricompensa per il lavoro del quale il denaro era la conseguenza [stipendium laboris).
Se dunque la sua legittimazione si affermò lentamente e a fatica - contro l'usura continuarono a essere pronunciate pesanti condanne e richiami all'Inferno - là dove il prestito a interesse fu tollerato si verificò l'incontro con un altro principio fondamentale, l'idea di giustizia. Essa si concretizzava nella definizione di un tasso di interesse ragionevole, che raggiungeva livelli del 20°/o che oggi appaiono comunque elevati.
Nella visione della Chiesa della seconda metà del Duecento il prestito a interesse oscillò fra la tradizionale condanna radicale e la nuova tendenza a giustificarlo entro certi limiti. Il dissidio si osserva bene nel trattato De usuris, scritto alla fine del XIII secolo dal domenicano Gilberto di Lessines, probabilmente discepolo di Alberto Magno: L'incertezza e il rischio non possono cancellare la natura del lucro, vale a dire l'usura, ma dove c'è davvero incertezza e non calcolo il valore del rischio può rientrare nell'equità della giustizia.
Nella seconda metà del Duecento, all'Università di Parigi, i problemi concernenti il denaro e l'usura furono oggetto di dibattito nel corso dei quodlibet, discussioni che permettevano di affrontare ogni tipo di argomento, compresi quelli attinenti l'attualità. Tra gli anni 1265 e 1290 il più celebre maestro dell'Università di Parigi del periodo, Giovanni di Gand, discuteva di redditi temporanei o perpetui con Matteo di Acquasparta, Gervasio di Mont-Saint-Eloi, Riccardo di Middleton e Goffredo di Fontaines. Il problema centrale era naturalmente capire se si trattasse o meno di usura. I pareri erano discordi, ma la discussione indica che, a partire dalla questione specifica dell'usura e delle sue implicazioni, le nuove pratiche economiche basate sull'impiego e sulla valutazione del denaro entravano nella prospettiva etica della riflessione teologica10.1 problemi che preoccupavano i teologi tormentavano addirittura i commercianti e i prestatori desiderosi, in quanto cristiani, di arricchirsi scampando le fiamme dell'Inferno. Ho descritto in passato le loro ansie in un libro intitolato La borsa e la vita.
Nulla illustra meglio il cambiamento di mentalità riguardo al denaro di un esempio tratto dal superbo libro di Chiara Frugoni L'affare migliore di Enrico: Giotto e la cappella Scrovegni. La studiosa vi analizza l'emblematica svolta nella rappresentazione di sé della famiglia Scrovegni operata con la costruzione della cappella decorata dagli affreschi di Giotto, commissionati da Enrico Scrovegni a Padova all'inizio del Trecento. Gli Scrovegni sono un caso padovano di nuovi ricchi affermatisi durante il lungo XIII secolo. Dante pone il padre all'Inferno tra gli usurai, mentre il figlio Enrico continua ed espande gli affari paterni, ma nello stesso tempo esprime la sua caritas edificando una cappella dedicata alla Vergine e ai poveri in cui Giotto modifica l'ordine di rappresentazione dei vizi e delle virtù. Enrico, che muore in esilio a Venezia per ragioni puramente politiche, lascia dietro di sé l'immagine di un grande benefattore: per l'usuraio si aprono le porte del Paradiso.
All'interno della Chiesa i più sensibili alle nuove problematiche poste dal denaro furono gli ordini mendicanti, domenicani e soprattutto francescani. Il dibattito si ampliò fino a diventare, in forme nuove, uno dei grandi temi del Medioevo.
Nell'ambito dell'alimentazione c'era il grande combattimento tra Carnevale e Quaresima; in quello del denaro si ebbe la sfida tra Ricchezza e Povertà.

"tratto da
LO STERCO DEL DIAVOLO
Il denaro nel Medioevo
di Jacques Le Goff"
Avatar utente
Veldriss
"IL CREATORE"
"IL CREATORE"
Messaggi: 5345
Iscritto il: 21 ottobre 2008, 10:55
Località: Sovere (BG)
Contatta:

Re: LO STERCO DEL DIAVOLO - Jacques Le Goff

Messaggio da leggere da Veldriss »

8. NUOVE RICCHEZZE E NUOVE POVERTÀ

Il combattimento cui si è fatto cenno in chiusura del precedente capitolo riguarda forme di ricchezza e povertà non tradizionali, ma nuove. Il Duecento è un secolo che vive quella che ho definito «discesa di valori dal cielo alla terra». La ricchezza è nuova: non è più quella della terra, dei signori e dei monasteri; è quella dei borghesi, dei mercanti, di coloro che sono chiamati usurai e stanno per diventare banchieri. È una ricchezza espressa in valore monetario, che si tratti di moneta reale o di conto.
Questa ricchezza, inoltre, ha un significato sociale e non solo un'importanza squisitamente economica. I nuovi ricchi prendono posto accanto ai potenti della società cristiana anche perché al cospetto della loro nuova ricchezza si delinea una nuova povertà che contribuisce a indirizzare le loro attività non più verso l'ambito della cupidigia e del peccato, ma verso il territorio della caritas e della virtù. Per tutto il XIII secolo il denaro fu la posta di una partita tra vizio e virtù, come ha ben illustrato Nicole Bériou. Già nel 1978, lo storico nordamericano Lester K. Little aveva spiegato come nell'Europa medie vale povertà religiosa ed economia del profitto avessero trovato il modo di coabitare1. Il denaro si era da tempo insinuato nell'immaginario cristiano. All'inizio del secolo XII Goffredo di Vendóme aveva paragonato l'ostia consacrata a una moneta del miglior conio: la forma rotonda dell'ostia ricordava quella della moneta così come la capacità del denaro di equivalere a un valore era paragonabile al dono dell'ostia di anticipare la salvezza. Ai tempi dei Padri della Chiesa, sant'Agostino aveva descritto Cristo come mercante ideale il cui sacrificio aveva riscattato l'umanità, il «mercante celeste»; ma è dal XII secolo, e a maggior ragione nel XIII, che nella cristianità si affermò un'inedita concezione della ricchezza.

NUOVI POVERI
Alla nuova ricchezza fece da contraltare una nuova povertà, non più una conseguenza del peccato originale, né la miseria di Giobbe, ma un'indigenza portatrice di valore, legata al cambiamento dell'immagine di Gesù nella spiritualità cristiana. Gesù era sempre meno ciò che era stato nei primi secoli del cristianesimo, il Dio-uomo risorto e vincitore della morte, e sempre più l'uomo-Dio che aveva offerto all'umanità il modello della povertà, simboleggiato dalla sua nudità.
All'interno dei movimenti che dopo il Mille avevano cercato di far rinascere il cristianesimo primitivo e promosso il ritorno al tempo degli apostoli, la fonte di ispirazione principale era stata il sogno della riforma della Chiesa, di un rinnovamento realizzato per mezzo del ritorno alle origini «seguendo nudi il Cristo nudo». Come la nuova ricchezza era frutto del lavoro, la nuova povertà era l'esito di uno sforzo, di una scelta: era una povertà volontaria. Non si può comprendere l'affermazione del denaro nella società medievale se non si distingue tra povertà subita e volontaria.
Gli studi di Frantisele Graus hanno mostrato come nell'Alto Medioevo esistessero poveri nelle campagne, ma sono le città i luoghi in cui nel Medioevo la povertà si estende e si radica. E pertanto normale che siano i nuovi ordini religiosi a farsi carico della lotta alla povertà, scegliendo, al contrario dei predecessori, la città come spazio d'azione: esemplare è il caso dei francescani.
Francesco d'Assisi si identifica con il rifiuto del denaro, in tutte le accezioni del termine3: rinnega il padre mercante, si presenta nudo come Gesù, vive nella povertà, prega tra i poveri. Va sottolineato che, paradossalmente, i denigratori della nuova ricchezza, nell'intento di promuovere il valore della nuova povertà ottennero un risultato ambiguo, per non dire opposto. Little ha osservato che nel 1261 l'arcivescovo di Pisa, predicando nella chiesa dei francescani, proclamò Francesco d'Assisi protettore dei mercanti. Giacomo Todeschini si è spinto oltre, ipotizzando che l'esperienza di Francesco abbia favorito l'incontro tra la povertà e quella cultura urbana, incentrata sul denaro, che si andava sviluppando nell'Italia centrale e settentrionale. Secondo Todeschini, nel corso del XIII secolo i francescani elaborarono una riflessione volta a definire e giustificare la crescente ricchezza dell'ordine che li traghettò dalla povertà volontaria alla società di mercato. La tesi di Todeschini si appoggia soprattutto sul trattato De contractibus, scritto intorno al 1295 dal francescano nativo della Linguadoca Pietro di Giovanni Olivi (1248-1298).
Ancora più interessante, in quanto radicato nella vita quotidiana, è un registro del convento dei frati minori di Padova e Vicenza (relativo agli anni 1263-1302), che elenca depositi, vendite, acquisti e altri contratti stipulati dai francescani delle due città venete; vi si menzionano più spesso prezzi in denaro che acquisizioni e scambi di terreni, segno che i frati minori, pur operando nel cuore stesso della povertà, e sovente con la mediazione di operatori laici, erano meglio integrati nell'emergente economia monetaria che nella tradizionale economia rurale.
Gli ordini mendicanti, su tutti i francescani, erano riusciti a trarre dalla povertà volontaria motivazioni spirituali e sociali capaci di creare un legame tra le nuove ricchezze e i poveri. Grazie alla loro influenza la Chiesa e i potenti laici del XIII secolo s'impegnarono a combattere la nuova ricchezza e promuovere il valore della nuova povertà ricorrendo a particolari forme di quelle opere di carità che, poiché la misericordia degli uomini aveva per fondamento quella di Dio, erano sempre state tra le attività centrali della Chiesa e dei cristiani socialmente ed economicamente più fortunati. Questa misericordia si manifesta in primo luogo come attenzione al corpo, sul modello del corpo di Cristo sofferente ma destinato alla resurrezione. Il secolo XIII conobbe un impressionante incremento nelle fondazioni e nella capacità di accoglienza degli ospedali. Apparsi nell'Alto Medioevo e posti sotto la giurisdizione dei vescovi, gli ospedali godono di un'autonomia giuridica che permette loro di ricevere donazioni e lasciti. Nel XIII secolo, la diffusione del denaro e di nuove forme di carità, dunque, si traduce anche in sostegno agli ospedali. Il fenomeno è accompagnato dalla nascita di ordini religiosi a vocazione ospedaliera. Si sviluppa una doppia rete formata da un lato dagli ospizi, dove i poveri ricevevano cibo e ospitalità per la notte, dall'altro dai centri che accoglievano ammalati, donne partorienti, orfani e bambini abbandonati. La gestione finanziaria degli ospedali era sovente affidata a un amministratore nominato dal vescovo o dai promotori laici dell'iniziativa. Oltre a donazioni e lasciti testamentari, gli ospedali ricevevano sostegni sia in natura (abiti, lenzuola) sia in denaro (frutto di questue ed elemosine). Le dimensioni e la bellezza di certi ospedali costruiti alla fine del Medioevo provano l'importanza delle somme che vi erano investite e fanno immaginare l'alto ammontare delle spese di gestione. Se l'ospedale dell'Alto Medioevo era soprattutto luogo di sosta per viaggiatori, un sorta di ostello, quello dei secoli dal XII al XV è inestricabilmente legato allo sviluppo urbano, come illustrano bene in Francia gli esempi di Angers, Beaune, Lilla e Tonnerre. Ho accennato all'aumento delle elemosine destinate agli ospedali. In effetti, l'evoluzione dell'elemosina è strettamente connessa alla diffusione delle nuove forme di ricchezza e povertà oggetto della riflessione e dell'azione dei francescani.
Il ruolo dei francescani non va tuttavia esagerato, né si possono fraintendere le loro motivazioni e quelle della Chiesa.
Già all'inizio del Duecento, quando per la prima volta viene canonizzato un mercante, nella persona di sant'Omobono di Cremona, venne chiarito che non si trattava di un riconoscimento alla sua professione, bensì al fatto che a un certo punto l'avesse rifiutata abbracciando la povertà volontaria. Lo stesso san Francesco non scese mai a compromessi con il denaro, mentre Pietro di Giovanni Olivi fu un francescano atipico, che peraltro subì una condanna postuma e il cui De contractibus resta un trattato unico nel suo genere. Il testo che ancora rappresenta la posizione della Chiesa di fronte al denaro, e dell'usura in particolare, è il De usuris di Gilberto di Lessines: quest'opera conferma la condanna dell'usura anche se vi fa capolino un fdo di indulgenza. L'essenziale riguardo al denaro, come in ogni altro ambito nel XIII secolo, è la moderazione, lo spirito di giustizia. Lo si vede ancora meglio nella dottrina e nella pratica del «giusto prezzo», sulla quale ritornerò.

IL CONTROLLO DEI PREZZI
Siccome la carestia era una delle grandi paure degli uomini e delle donne del Medioevo, il costo dei cereali, alla base del prezzo del pane, era tenuto sotto controllo dalle autorità municipali. I dati che possediamo, assai incompleti, sembrano indicare un costante rialzo dei prezzi dei cereali durante il XIII secolo, pur con variazioni congiunturali nel corso dell'anno in relazione agli andamenti del clima e dei raccolti: la vita nel Medioevo, e in particolare i consumi alimentari, dipendevano pesantemente dalla natura - la diffusione del denaro nella vita economica e nel quotidiano non correggeva che in misura limitata questo dato di fondo, a riprova della relativa limitatezza dell'impatto del denaro sull'insieme della vita di quest'epoca.
Se il problema dei prezzi, nella pratica, riguarda produttori, venditori e regolatori istituzionali del mercato, esso è comunque trattato con cura da giuristi e teologi nel contesto del dibattito intorno alla giustizia, una preoccupazione centrale nel XIII secolo. Gli storici che si sono occupati di studiare questo tema, come John Baldwin e Jean Ibanès, hanno visto nella transizione dal diritto romano al diritto canonico una trasformazione nell'approccio al problema. In particolare, essa è evidente nel canonista Enrico da Susa, detto Ostiense, morto nel 1270, la cui Summa aurea, scritta verso il 1250, ha esercitato un'influenza decisiva sulle idee e sulle iniziative di diversi papi del XIII secolo. L'Ostiense, dotto sia in diritto romano che in diritto canonico, modifica in modo significativo l'idea di prezzo. I romanisti considerano il prezzo come determinato da un contratto tra le parti, esito di una trattativa che segue una logica propria non subordinata a una qualsivoglia norma esterna; i canonisti elaborano invece la tesi innovativa di un giusto prezzo che esisterebbe in sé, al di là dell'accordo tra le parti, e che dunque farebbe prevalere un principio normativo sulla legge empirica. Nel Medioevo centrale il giusto prezzo è certo, come ha spiegato John Baldwin, quello che in generale si impone concretamente nei mercati locali, ma la sua caratteristica principale rimane la moderazione, fattore che lo avvicina all'ideale di giustizia perseguito dalla società nel suo insieme. Nella realtà quotidiana, i mercanti, soprattutto quelli che si dedicano al commercio a lungo raggio e che oggi definiremmo esportatori, mirano a massimizzare i profitti, il che li espone al rischio di usura e provoca i sospetti, per non dire la condanna, della Chiesa e delle istituzioni laiche. Durante il lungo secolo XIII anche i prezzi, secondo l'espressione di Nicole Bériou, oscillano «tra vizio e virtù».

ASSOCIAZIONI E COMPAGNIE
Nel XIII secolo la necessità di rispondere a una crescente domanda di contante e di instaurare forme di solidarietà tra artigiani e mercanti si traduce in diversi tipi di associazioni, simili alle confraternite che esistono in altri ambiti. Un'opera di eccezionale valore come il Livre des métiers (Libro dei mestieri) di Etienne Boileau, prevosto di Parigi7 alla fine del regno di Luigi IX (1265 circa), ci rivela l'estrema frammentazione delle attività artigianali in mestieri assai specializzati, l'importanza ancora secondaria del denaro nella struttura e nel funzionamento di queste professioni, in cui spesso l'apprendistato è gratuito e dipendente più dalle relazioni sociali che dalle possibilità finanziarie, e infine la stretta regolamentazione della vita economica. La diffusione del denaro ha stimolato il ricorso alla scrittura e alla contabilità, e non è un caso se nel Duecento si assiste a una proliferazione dei manuali di aritmetica. La tendenza alla sedentarizzazione dei mercanti comportò la progressiva riduzione del prestigio delle fiere - che rimasero comunque per il resto del Medioevo importanti spazi di cambio e circolazione del denaro, come dimostra ad esempio la rivalità tra le fiere di Lione e Ginevra nel Quattrocento - e la moltiplicazione di contratti e associazioni che consentivano ai mercanti di estendere le proprie reti commerciali e implicavano il ricorso al denaro, sia in termini di concreti trasferimenti monetari che di prezzi espressi in valute di conto.
Molto diffuso era il contratto di «commenda», chiamato anche societas marìs a Genova e collegantia a Venezia. I contraenti si accordavano per dividere i rischi e i profitti, ma per il resto le loro relazioni erano quelle tra chi presta e chi riceve una somma di denaro8. I tipi di contratto associativo per il commercio via terra erano più numerosi, ma possono essere ricondotti a due modelli fondamentali, la compagnia e la societas terme. Diversamente dal contratto di commercio marittimo, questi accordi erano stipulati per un determinato lasso di tempo, di solito da uno a quattro anni.
Intorno ad alcuni mercanti e a certe famiglie sono cresciute organizzazioni complesse e variamente potenti, abitualmente chiamate «compagnie», ma che erano realtà diverse da ciò che nell'economia contemporanea porta lo stesso nome.
Queste compagnie costituitesi nella Francia del Sud e soprattutto in Italia settentrionale ricevettero dei nomi che mantennero anche quando le loro sedi vennero spostate: cahorsini in Francia, «lombardi», spesso originari di Asti, in Italia del Nord, senesi e fiorentini in Italia centrale. Nella seconda metà del lungo XIII secolo tali compagnie passarono dall'attività di cambio a quella più diversificata, complessa e speculativa di vere e proprie banche. Esse modernizzarono e resero più efficace la contabilità, in particolare il sistema della partita doppia. La principale innovazione tecnica dei banchieri fu la lenta diffusione, a partire dalla seconda metà del Duecento, della lettera di cambio, sulla quale tornerò più avanti'0. Come vedremo, nei secoli XIV e XV il mercato dei cambi divenne assai dinamico e la pratica della speculazione una realtà corrente in gran parte della cristianità.
Oltre ai libri contabili che razionalizzavano le loro attività, i mercanti tenevano, e custodivano con cura, un libro segreto che conteneva informazioni utili e riservate - e che, come ha sottolineato Armando Sapori, è il tipo di fonte mercantile di cui sono giunti fino a noi gli esemplari meglio preservati.
Negli ultimi anni del lungo XIII secolo, vale a dire all'inizio del Trecento, l'impiego e la diffusione del denaro interessavano ormai gran parte dell'Europa, anche se in misura disomogenea, visto che se i Paesi Bassi e la Hansa avevano sviluppato il commercio, essi non avevano avuto però alcuna parte nella formazione delle banche. Parallelamente, tuttavia, comparvero le prime difficoltà e i primi inconvenienti connessi a questa evoluzione dell'economia. I due principali furono i fallimenti bancari e le oscillazioni improvvise del valore delle monete; prima delle grandi rivolte della fine del secolo XIV, questi eventi causarono la più antica, e poco conosciuta, ondata di scioperi e moti urbani che colpirono la Francia verso il 1280 e relativamente ai quali si ignora l'effettivo ruolo svolto dalle nuove problematiche poste dall'uso del denaro.
Le difficoltà delle banche condussero alcune di esse, e non delle minori, al fallimento. L'indebitamento era cresciuto, singoli e compagnie si erano accollati rischi a volte eccessivi, ma soprattutto le banche erano state costrette dalle pressioni politiche a prestare a sovrani, Santa Sede e principi enormi somme rimaste a lungo non rimborsate: questi ingenti crediti gravavano pesantemente sulle riserve delle banche e ne determinarono talvolta il fallimento. Fu il caso nel 1294 dei Riccardi di Lucca, degli Ammannati e dei Chiarenti di Pistoia, e soprattutto, nel 1298, dei Bonsignori di Siena; per le compagnie fiorentine, Bardi, Peruzzi e Acciaiuoli, l'anno fatale fu invece il 1341, quando crollarono sotto il peso delle pretese dei loro clienti, come i re d'Inghilterra che si preparavano alla guerra dei Cento Anni e i papi impegnati nella costruzione del superbo palazzo di Avignone.

"tratto da
LO STERCO DEL DIAVOLO
Il denaro nel Medioevo
di Jacques Le Goff"
Avatar utente
Veldriss
"IL CREATORE"
"IL CREATORE"
Messaggi: 5345
Iscritto il: 21 ottobre 2008, 10:55
Località: Sovere (BG)
Contatta:

Re: LO STERCO DEL DIAVOLO - Jacques Le Goff

Messaggio da leggere da Veldriss »

9. DAL XIII AL XIV SECOLO: LA CRISI MONETARIA

Durante il lungo XIII secolo, come si è visto, la diffusione del contante ha stimolato l'incremento delle spese e degli acquisti; parallelamente, l'aumento dei bisogni faceva a sua volta leva sul denaro. Il fenomenale innalzamento delle spese determinò, oltre alla costante condanna della Chiesa, nuove forme di intervento da parte dei nascenti Stati. Già alla fine del XII secolo il consigliere di Enrico II d'Inghilterra Giovanni di Salisbury, nel suo Policraticus, suggeriva al sovrano di regolamentare l'uso del denaro in funzione dei bisogni dei suoi sudditi, ma correggendo con aggiustamenti il rapporto tra il lavoro e le necessità. Ho già accennato alle leggi suntuarie emanate da Filippo il Bello nel 1294.
Su altri fenomeni che comportavano un forte uso del denaro siamo purtroppo male informati a causa di una documentazione scarsa; in particolare, sappiamo poco dell'aumento in numero e valore dei prestiti, e dunque dell'indebitamento.
Come abbiamo visto, a spingere l'indebitamento verso i limiti della sostenibilità sono quei principi che avviano la riorganizzazione degli Stati e delle amministrazioni senza disporre di risorse finanziarie adeguate e ai quali i banchieri non potevano rifiutare i prestiti.

CAHORSINI, LOMBARDI E CAMBIAVALUTE
A inizio Trecento questi fenomeni erano ancora circoscritti a un numero ristretto di personaggi abitanti in una sola regione d'Europa, l'Italia del Nord. Per qualche tempo i prestatori di denaro sono stati chiamati «cahorsini», perché alcuni provenivano da Cahors, ma dalla seconda metà del Duecento a imporsi è il nome di «lombardi». Se Milano è dalla fine del secolo XIII un grande centro di affari, se Genova e soprattutto Venezia sono divenute luoghi chiave del commercio tra Mediterraneo e Oriente da un lato e Mare del Nord e Paesi Bassi dall'altro, altri centri meno famosi sono comunque importanti sedi di banchieri «lombardi», a cominciare da Asti.
Questi lombardi, presenti un po' ovunque in Europa occidentale, mantennero relazioni complesse e turbolente con i reali di Francia, determinati a ottenere il loro sostegno economico tutelando nel contempo il potere appena conseguito in materia finanziaria. Sotto Filippo il Bello furono prese misure discriminatorie nei confronti dei lombardi, compresi arresti arbitrari. Il re ordinò l'avvio di diverse inchieste contro di loro, in particolare negli anni 1303-1305 e soprattutto 1309-1311. Filippo V (1317-1322) e Carlo IV (1322-1328) pretesero che i lombardi elargissero loro dei «doni». Rovinate dai prestiti non rimborsati dai re di Francia, molte compagnie senesi e fiorentine dichiararono fallimento; il colpo di grazia venne assestato dal finanziamento dei preparativi della guerra dei Cento Anni da parte di Filippo VI (1328-1350).
In Inghilterra e nei Paesi Bassi i lombardi furono nel complesso trattati meglio. David Kusman3 ha studiato il sistema di relazioni di Giovanni di Mirabello (1280 circa-1333), un piemontese stabilitosi nel Nord Europa e, con il nome di Van Haelen, diventato grande banchiere e consigliere del duca di Brabante, dal quale ricevette l'investitura aristocratica; tra 1318 e 1319 Giovanni fu imprigionato per alcuni mesi dal comune di Malines, benché per motivi non particolarmente gravi, a riprova della posizione ancora ambigua del denaro nel primo Trecento. I lombardi occuparono una posizione di primo piano presso i re inglesi tra Duecento e Trecento, rafforzata dall'apertura di filiali londinesi da parte dei Malabaila e della Società dei Leopardi4. Nel complesso, tuttavia, i lombardi furono detestati e criticati in tutte quelle regioni della cristianità in cui il denaro non si era ancora conquistato i crismi della nobiltà e ogni ceto sociale, indebitato o meno che fosse, provava repulsione per i professionisti del prestito. Pur condividendo con gli ebrei l'immagine negativa dell'usuraio, i lombardi non sperimentarono mai la trasformazione in persecuzione dell'ostilità che suscitavano, dal momento che la loro cattiva nomea non si appoggiava su particolari basi storiche o religiose.
A causa della crescente varietà di monete, una funzione indispensabile era svolta dai cambiavalute, della cui comparsa a partire dal secolo XII si è detto in precedenza e che non si distinguevano sempre con facilità dai prestatori di denaro propriamente detti. Essi operavano su un banco o su un tavolo, in botteghe aperte sulla strada, come quelle dei normali artigiani, e raggruppate al fine di agevolare i clienti che spesso e volentieri molti di loro avevano in comune. A Bruges erano posizionati nei pressi della Grand-Place e del grande mercato dei tessuti, a Firenze i «banchi in mercato» dei cambiavalute si trovavano al Mercato Vecchio e al Mercato Nuovo, a Venezia i
«banchi di scritta» erano sul ponte di Rialto e a Genova vicino alla Casa di San Giorgio. Essi assolvevano le due funzioni tradizionali di cambio delle monete e di commercio dei metalli preziosi: il metallo pregiato che ricevevano dai clienti era poi rivenduto alle zecche in forma di lingotti o, più sovente, di argenteria. A dispetto del monopolio teoricamente detenuto dai produttori autorizzati di monete, poteva accadere che essi esportassero personalmente il metallo prezioso, esercitando così una certa influenza sui prezzi della materia prima e sulle loro fluttuazioni.

VARIAZIONI MONETARIE
Le turbative avvertibili nell'ambito dell'economia monetaria dalla fine del XIII secolo si manifestarono tra l'altro in forti oscillazioni del valore delle monete. Trarrò la descrizione di questo fenomeno dal fondamentale Lineamenti di una storia monetaria d'Europa di March Bloch, pubblicato postumo nel 1954. Il corso legale delle monete medievali era di solito fissato dall'autorità pubblica - signori, vescovi e, sempre di più, principi e re - che deteneva i diritti di conio e messa in circolo del denaro. Accanto al corso legale esisteva anche un corso «commerciale» o «volontario», secondario e fluttuante.
Questo doppio registro era rimasto per lungo tempo stabile, ma alla fine del Duecento le autorità monetarie cominciarono a modificare il valore di cambio espresso da un lato in unità monetarie e dall'altro in peso metallico. Tali variazioni potevano agire nei due sensi: si poteva sia rafforzare una moneta, aumentando il peso metallico corrispondente a una data unità monetaria, sia indebolirla. Le variazioni più frequenti e importanti furono indebolimenti, non rafforzamenti - oggi si parlerebbe di svalutazioni. Il sistema di attribuzione di valore alle monete si complicò nel XIII secolo in seguito alla ripresa del conio aureo e all'instaurarsi in Europa del bimetallismo. Il valore delle monete dipendeva dalla combinazione di diversi fattori: la quantità di metallo prezioso, il rapporto di cambio con le altre monete e con la moneta di conto. A partire dal 1270 il prezzo dell'oro aumentò in Francia, ma anche nel regno di Napoli, a Venezia e presso la curia romana. Filippo il Bello, ad esempio, dovette operare un primo aggiustamento nel 1290, ma il rialzo dei metalli preziosi continuò e il sovrano fu costretto ad intervenire di nuovo nel 1295 e nel 1303.
Alcuni tentativi di tornare a quella che veniva chiamata la «buona moneta» fallirono negli anni 1306, 1311 e 1313. Dopo Filippo il Bello si dovette ricorrere a una serie svalutazioni successive tra 1318 e 1330. Tra 1318 e 1322 gli aggiustamenti riguardarono soprattutto il grosso tornese, tra 1322 e 1326 fu il turno dell'«agnello», una moneta d'oro con Yagnus Dei inciso sul dritto coniata da Filippo il Bello e dagli immediati successori; infine, tra 1326 e 1329 l'amministrazione regia non riuscì a evitare una nuova svalutazione, al punto che si disse che la moneta si squagliava.
Queste misure non avevano solo lo scopo di adattare il corso monetario alla realtà economica; per i principi e i sovrani, in particolare per il re di Francia che non disponeva di sufficienti entrate fiscali, esse erano anche un mezzo per incamerare guadagni diminuendo l'indebitamento. Tali interventi, che danneggiavano mercanti e salariati, suscitarono vivaci reazioni ostili al governo. Gli aggiustamenti monetari furono uno dei principali motivi dietro le rivolte popolari e i sommovimenti politici del XIV secolo. Le reazioni a questi provvedimenti, insomma, contribuirono a formare un'opinione pubblica, una delle cui esigenze era che il re garantisse una moneta «buona», ovvero stabile. Non a caso furono gli aggiustamenti valutari che valsero a Filippo il Bello il soprannome peggiorativo di «falsario». In realtà, fino al secolo XV molti atti «falsi» furono fabbricati e fatti circolare senza problemi - si pensi alla falsa Donazione di Costantino, redatta a Roma nel secolo Vili per giustificare l'esistenza di uno Stato pontificio. Durante il Medioevo le imitazioni delle monete bizantine e musulmane circolarono impunemente in tutta Europa. La nozione peggiorativa di «moneta falsa» è strettamente legata alla nascita di Stati che si pretendevano sovrani, concetto postfeudale, e alla progressiva imposizione di un diritto regio sulle monete la cui violazione rappresenta un crimine che in seguito sarà chiamato «lesa maestà». Nei secoli XLV e XV l'usurpazione del monopolio regale sulla battitura della moneta comincia a essere severamente represso, mentre nel Duecento le pene oltremodo crudeli (cavatura degli occhi, bollitura in un calderone) talvolta minacciate nel regno di Francia sono probabilmente rimaste ferme al livello teorico.

LA «VITTORIA DELL'ORO»
La stabilità monetaria dell'Europa fu turbata da quella che Spufford ha definito la «vittoria dell'oro». Per lo storico inglese, dopo il ristabilimento del bimetallismo nel XIII secolo l'oro avrebbe assunto la preminenza sull'argento alterando il rapporto di valore tra i due metalli. A partire dal 1320 venne più intensamente sfruttato il giacimento aureo di Kremnica, in Ungheria, di una certa importanza benché il suo contributo non fosse paragonabile a quello dell'oro proveniente dall'Africa o dall'Oriente. In ogni caso, al principio del XIV secolo la disponibilità d'oro, ungherese o delle tradizionali regioni di approvvigionamento extraeuropee, era considerevolmente aumentata. Il grande centro di convergenza e ridistribuzione era Venezia. L'oro commercializzato dai veneziani riforniva numerose zecche; la più importante era certamente quella di Firenze dove, secondo il cronista Giovanni Villani, attorno al 1340 si producevano dai 350.000 ai 400.000 fiorini d'oro all'anno. In Francia, il conio e la circolazione dell'oro, dopo aver interessato soprattutto Parigi, si diffusero nell'intero regno quando Filippo VI cominciò ad accumulare spese in preparazione della guerra dei Cento Anni. In parallelo, l'oro affluì nella valle del Rodano per alimentare i notevoli costi sostenuti dai papi ad Avignone, su tutti Clemente VI tra 1342 e 1352. Solo alla fine degli anni Trenta del secolo una quantità significativa di monete d'oro raggiunse l'Europa nord-occidentale, pare più per ragioni politiche che commerciali. Come Filippo VI in Francia, Edoardo III d'Inghilterra comprò a peso d'oro le sue alleanze in vista della guerra. A prestargli denaro, lo abbiamo visto, furono i banchieri fiorentini, in particolare i Bardi e i Peruzzi.
Il più costoso degli alleati di Edoardo III fu il duca di Brabante, che ricevette 360.000 fiorini. Il sovrano inglese comprò anche l'aiuto militare dell'imperatore Ludovico il Bavaro, mentre Filippo VI portò nel proprio campo a colpi di moneta sonante il conte di Fiandra e il re di Boemia Giovanni di Lussemburgo.
Grazie a questi pagamenti i lingotti d'oro sostituirono quelli d'argento nelle zecche di Brabante, Hainaut, Gheldria e Cambrai, dove il soldo aureo fece la sua prima apparizione nel 1336-1337. In Germania ai fiorini di Firenze (e alle sue imitazioni) e agli scudi d'oro francesi si aggiunsero le monete d'oro coniate dagli arcivescovi di Colonia, Magonza e Treviri, dal vescovo di Bamberga e da taluni signori laici. Le zecche erano concentrate nelle valli del Reno e del Meno. Nei territori della Lega anseatica la sola zecca a produrre monete d'oro, senza mai abbandonare l'argento, fu quella di Lubecca. L'avvio del conio aureo a Lubecca, dal 1340, non sembra dipendere da ragioni politiche, come era avvenuto altrove, ma semplicemente dalla volontà di rafforzare le relazioni economiche con Bruges.
I pagamenti in oro si estesero ben presto al commercio.
In particolare, un grande prodotto di esportazione medievale come la lana inglese si vendette a prezzi sempre più alti dopo il 1340. Con l'aiuto di specialisti fiorentini appositamente chiamati in Inghilterra, Edoardo III fece produrre una moneta d'oro che battezzò noble, il «nobile». L'Inghilterra cominciò anche a richiedere che fossero pagati in oro i riscatti dei prigionieri aristocratici catturati durante la guerra dei Cento Anni - il caso più eclatante è quello del re di Francia Giovanni II il Buono, fatto prigioniero nella battaglia di Poitiers del 1356.
In Europa centro-orientale, nonostante lo sfruttamento delle miniere ungheresi, la produzione di monete d'oro rimase debole fino al XVI secolo, con l'eccezione del regno di Ungheria, dove la circolazione aumentò in misura proporzionale alle rese dei giacimenti locali. Intanto, a Venezia e Firenze le monete d'oro erano così diffuse da sostituire, a metà Trecento, quelle d'argento come monete di conto prevalenti. L'importazione di oro africano, con in testa quello marocchino di Sijilmasa, continuò a essere intensa, un dato che colpì i grandi scrittori e viaggiatori musulmani, come Ibn Khaldùn e Ibn Battuta, e favorì il lavoro di raccordo dei mercanti arabi tra Sahara, Italia e Spagna. L'approvvigionamento di oro africano permise alle zecche spagnole di coniare dobloni in Castiglia e fiorini d'oro in Aragona.

TENTATIVI DI STABILIZZAZIONE
Com'è immaginabile in una società in cui la dimensione economica era integrata in un sistema politico e religioso onnicomprensivo, le oscillazioni monetarie e i problemi che ne derivarono furono l'oggetto di un trattato di enorme importanza dedicato a ciò che noi oggi chiamiamo economia, uno dei capolavori della scolastica medievale. Si tratta del De moneta del parigino Nicola d'Oresme (circa 1320-1382), che dal 1356 al 1361 fu «gran maestro» del Collegio di Navarra, uno dei più prestigiosi dell'Università di Parigi; qui, prima del 1360, scrisse in latino il suo trattato, di cui poi curò una versione francese.
I contemporanei considerarono quest'opera un lavoro minore in una bibliografia amplissima che comprendeva traduzioni e commentari di Aristotele e trattati di matematica, musica, fìsica, astronomia e cosmologia - nei quali Nicola d'Oresme condanna energicamente l'astrologia, le arti divinatorie e la magia. Eppure, oggi il suo libro più studiato e apprezzato è proprio il De moneta. La natura dell'opera è in primo luogo politica: l'autore vi illustra le controindicazioni delle oscillazioni monetarie, sostiene il dovere dei sovrani di garantire una moneta stabile e insiste sul concetto della moneta non come bene personale del re, che pure detiene la prerogativa di regolamentarla, ma come bene comune del popolo che ne fa uso. È probabile che il De moneta abbia influenzato il re di Francia Giovanni II il Buono nel suo sforzo di ristabilire la moneta «buona», vale a dire stabile: il suo franco aureo, dopo il breve tentativo mal riuscito di Luigi IX, durò per secoli; a esso si affiancarono il grosso d'argento recante il simbolo del giglio e denari tornesi e parisis su piede ventiquattresimo. La decisione del re relativa al franco aureo, presa nell'ordinanza promulgata a Compiègne il 5 dicembre 1360, venne indirizzata ad alti funzionari, balivi e siniscalchi incaricati di seguirne l'applicazione a livello tecnico e amministrativo. Si stabilì che il franco di oro fino avrebbe avuto un valore pari a 60 marchi di Parigi (244,75 grammi) e un corso corrispondente a 20 soldi tornesi: per ogni marco d'oro i cambiavalute riceveranno 60 di questi franchi, per ogni marco d'argento 4 denari 12 grains 108 soldi tornesi, e per tutti gli altri marchi d'argento 4 denari 12 grains 4 lire 18 soldi tornesi; i denari d'oro fino che Sua Maestà, o chi per essa, ha fatto produrre avranno corso per 13 soldi 4 denari parisis dopo la pubblicazione delle nostre ordinanze; i denari bianchi che appartengono alla corona e che avevano corso per 10 denari tornesi non lo avranno che per 4 denari tornesi, e tutte le altre monete d'oro e d'argento saranno rapportate al marco come biglioni.
Anche il figlio di Giovanni II il Buono, Carlo V (13641380), fu attento alla stabilità monetaria: si oppose alle contraffazioni e alle speculazioni e fece circolare capillarmente all'interno del regno una bolla del 1309 di papa Clemente V che prevedeva la scomunica per i falsari. Nel 1370 ordinò che tutte le monete che non rispettavano le norme ufficiali venissero svalutate e fossero utilizzabili solo come biglioni, vale a dire monete nere di bassa qualità e scarso valore. Le svalutazioni, però, continuarono fino al secolo XVI, a dispetto dell'impegno dei sovrani per mantenere la stabilità della moneta - richiesta dagli ecclesiastici per spirito di giustizia, dai mercanti per ragioni di affari e dal popolo per tutti e due i motivi, visto che le svalutazioni conducevano a una riduzione dei salari. Spufford ha calcolato che tra 1300 e 1500 tutte le valute europee si indebolirono, pur se in misura diversa nei vari paesi; nonostante la persistente molteplicità delle monete, infatti, la tendenza al rafforzamento dello Stato fece sì che l'uso del denaro e la determinazione del suo valore s'inquadrassero sempre più in un contesto nazionale. Secondo Spufford i tassi di svalutazione delle valute furono i seguenti, in ordine decrescente: Inghilterra -1,5%, Aragona -1,9%, Venezia -1,9%, Boemia -2,5%, Hansa -2,7%, Roma -2,8%, Firenze -3%, Francia -3,9%, Austria -5%, Fiandre -6,1%, Colonia -16,8%, Castiglia -65%.
L'instabilità monetaria, rimproverata direttamente al principe, aumentò la determinazione delle assemblee che speravano di limitarne i poteri. È ciò che tentarono di fare l'aristocrazia e la borghesia del Brabante nei confronti del duca nel 1314 e le assemblee di lingua d'oli in Francia negli anni 1320, 1321, 1329 e 1333. Nuove svalutazioni, per quanto lievi e di breve durata, accompagnarono in Francia il riaccendersi della guerra dei Cento Anni nei periodi 1417-1422 e 1427-1429. Come ho anticipato, la svalutazione monetaria fu uno dei fattori che indussero le masse urbane e rurali a ribellarsi contro re e signori. E noto che la fine del Medioevo fu un'epoca di rivolte, oltre che di guerre, che turbarono soprattutto Francia e Paesi Bassi, dove i grandi mercanti ebbero un ruolo importante nelle sommosse ponendosi a capo ? a fianco del popolino. E il caso, ad esempio, di Etienne Marcel a Parigi dal 1355 al 1358, del macellaio Caboche, sempre a Parigi, nel biennio 1413-1414, dei Van Artevelde padre e figlio a Liegi, prima nel 1337 e poi nel 1381-1382. Un fenomeno analogo si osserva nelle rivolte degli operai tessili di Firenze, i Ciompi, dal 1375 al 1378, e soprattutto nella Castiglia dei secoli XIV e XV, la regione che sperimentò le maggiori svalutazioni e le rivolte più frequenti e violente: si pensi che nel 1350 un fiorino fiorentino si scambiava per 20 maravedís, mentre nel 1480 il rapporto era di uno a 375. L'Inghilterra, esemplare per come riuscì ad evitare quasi completamente le oscillazioni monetarie, deve la sua stabilità alla continuità dell'esportazione della lana e al fatto che dopo il 1352 il valore della moneta inglese poteva, per legge, essere ritoccato solo con l'approvazione del Parlamento.

LA DEBOLEZZA DEL FISCO
L'attenzione che le autorità dedicavano al mantenimento della stabilità monetaria, con esiti variabili, non trova corrispondenza nell'organizzazione del sistema fiscale. Nel Medioevo il denaro, oltre a servire al commercio e agli scambi quotidiani, ha svolto un ruolo decisivo nell'aumento dei fab bisogni finanziari degli Stati nascenti. La costruzione di Stati centralizzati che progressivamente si appropriano dell'autorità pubblica è un fenomeno di eccezionale rilevanza che si compie nel Medioevo e che nel denaro cerca e in parte trova i mezzi necessari alla sua realizzazione. Ho già accennato alla nascita di questo processo che riceve l'impulso decisivo durante i regni di Enrico II (1154-1189) in Inghilterra e Filippo Augusto (1180-1223) in Francia; nello Stato pontificio le iniziative di Innocenzo III (1198-1216) si consolidano durante il periodo avignonese (1309-1378).
Nel regime feudale classico il re, in quanto primo dei signori, doveva vivere «del suo», cioè delle rendite delle sue proprietà. Per quanto il demanio regio si sia sensibilmente ampliato nei secoli XIII e XIV, esso divenne nondimeno sempre più inadeguato a sostenere le necessità finanziare di uno Stato che impiegava a ogni livello un numero crescente di funzionari. La posizione dei grandi signori e dei sovrani si rafforzò anche nei settori dell'amministrazione, della giustizia, dell'economia - in particolare in ambito monetario; contemporaneamente, l'autentica esplosione del lusso nel vestiario, nelle feste, nei doni, costrinse re e signori a pretendere dai sudditi nuove risorse ricorrendo a ciò che oggi definiremmo globalmente fisco. Un medesimo forte bisogno di liquidità caratterizzò anche quelle realtà che dal XII secolo si erano rese via via più indipendenti e dovevano essere in grado di reggersi su risorse proprie: le città. L'evento che per primo giustificò l'imposizione di tasse straordinarie fu la crociata. Il re di Francia, ad esempio, introdusse un'imposta speciale, la decima, che conservò una volta terminate le crociate; destinata a tutelare l'ordine nel regno, la decima venne divisa con la Santa Sede dalla fine del Duecento, ovvero durante il periodo del soggiorno avignonese dei papi.
I secoli XIV, XV e XVI sono stati segnati da un crollo demografico probabilmente iniziato già nella prima metà del Trecento, caratterizzata dalla grande carestia del 1317-1318 e dal fenomeno definito dagli storici «abbandono dei villaggi».
La crisi demografica venne pesantemente aggravata dall'epidemia di peste bubbonica che dal 1348 devastò l'Europa per alcuni anni. Alle malattie si aggiunsero gli effetti delle guerre, che pesarono non poco sulle finanze di città, principi e Stati.
La fiscalità dei due ultimi secoli del Medioevo risentì di alti e bassi che andavano al di là degli effetti del calo demografico. Gli Stati esigevano entrate maggiori per sostenere il consolidamento del loro potere, ma le resistenze delle popolazioni non consentirono loro di costituire un sistema fiscale stabile prima del XVI secolo. Anche la Chiesa, che sembrava aver implementato le migliori pratiche fiscali, ottenne risultati alterni. Lo sforzo di uniformazione compiuto dalla Camera apostolica e il ricorso a banchieri laici resero i papi di Avignone la maggiore potenza finanziaria della cristianità nella prima metà del XIV secolo. La Santa Sede intrattenne in generale buone relazioni con le città e gli Stati italiani, e per un certo periodo con il regno di Francia; al contrario, l'Impero si oppose energicamente alle pretese pontificie in Germania, mentre il rapporto con la monarchia inglese fu contraddistinto da un costante conflitto in materia fiscale - una situazione che in parte si ripropose nella Francia del Quattrocento. Tra le principali entrate fiscali della Chiesa, le decime risultarono adattabili all'evoluzione del sistema fiscale in quanto scontabili; le annate, invece, che gravavano sulle finanze vescovili ogni volta che il posto di beneficiario era vacante, non erano altrettanto flessibili e finivano per risultare troppo onerose. La tesoreria pontificia dovette perciò adattarsi e spesso concedere pagamenti scaglionati e talvolta anche sconti. Il papato avignonese, infine, incontrò la frequente opposizione degli Stati che consideravano questi prelievi come indebiti sconfinamenti nei propri spazi di potere.
Il caso francese è illuminante riguardo alle difficoltà e all'evoluzione dei sistemi fiscali degli Stati tra XIV e XV secolo. Un abbozzo di organizzazione fu tentato da Filippo il Bello (1285-1316). Il re e i suoi consiglieri provarono innanzitutto a imporre tasse se non regolari, almeno durevoli sulle transazioni commerciali. Nel 1291, «per la difesa del regno», venne decisa una tassa del «denaro per libbra»
applicata a tutti i sudditi per la durata di sei anni. I risultati furono insoddisfacenti, così nel 1295 il re trasferì questa imposta sulla vendita di merci stoccate in magazzino. Anche questa malfate fu un fallimento.
Filippo sperava anche di estendere a livello nazionale alcune tasse sperimentate con successo in alcune città. Tali tasse colpivano la fortuna acquisita o le entrate dei sudditi del regno.
Esse vennero presentate come sostitutive del servizio militare, in realtà mai imposto a tutti i cittadini maschi; il carattere fittizio della motivazione fu palesato dal fatto che le autorità si premurarono di chiarire che la tassa si applicava all'intera popolazione. Queste nuove imposte furono riscosse negli anni 1302, 1303 e 1304. Il re, inoltre, sollecitò in sedi assembleari l'assenso dei grandi del regno, ecclesiastici e laici, e a volte anche delle città più legate alla monarchia, le cosiddette «buone città». La gabella sul sale introdotta nel 1341 dovette essere abolita nel 1356. Gli sforzi per imporre un sistema fiscale monarchico da un lato furono tra le cause delle periodiche rivolte che esplosero tra XIV e inizio XV secolo e dall'altro contribuirono a rafforzare in modo duraturo l'importanza politica delle assemblee, sorta di abbozzo di parlamento, alle quali il sovrano dovette accettare di sottomettere l'approvazione di nuove imposte. Il regno francese non riuscì nemmeno a migliorare significativamente la gestione del sistema fiscale, forse non ci provò neppure. Non si redassero mai dei veri bilanci delle finanze reali e per gli storici è estremamente difficile formulare delle ipotesi in assenza di documenti riportanti prezzi e dati numerici. In ogni caso, a parte il caso dei preparativi di grosse operazioni militari, come durante la guerra dei Cento Anni, la monarchia non stilò mai previsioni finanziarie, prassi utilizzata solo da pochi centri particolarmente orientati all'economia e alla finanza - è il caso di Venezia, come dimostrato da Ugo Tucci.

"tratto da
LO STERCO DEL DIAVOLO
Il denaro nel Medioevo
di Jacques Le Goff"
Avatar utente
Veldriss
"IL CREATORE"
"IL CREATORE"
Messaggi: 5345
Iscritto il: 21 ottobre 2008, 10:55
Località: Sovere (BG)
Contatta:

Re: LO STERCO DEL DIAVOLO - Jacques Le Goff

Messaggio da leggere da Veldriss »

13. GLI ORDINI MENDICANTI E IL DENARO

Torniamo ora ai rapporti controversi che gli ordini mendicanti, il cui nome costituisce già un programma, hanno intrattenuto con il denaro. Questi nuovi ordini - predicatori domenicani, minori francescani - fondati nel XIII secolo e riconosciuti ufficialmente dal pontefice, agiscono al di fuori della cornice episcopale; rifacendosi direttamente all'esempio e alle parole di Gesù nel Vangelo, si prefiggono di contrastare l'eresia e proteggere l'ortodossia cristiana in una società in trasformazione, soprattutto nelle città. Uno dei maggiori problemi con i quali si devono misurare è il confronto tra il cristianesimo radicale che propugnano e il contemporaneo sviluppo di pratiche che implicano in misura crescente il ricorso al denaro.

DALLA POVERTÀ VOLONTARIA ALLA SOCIETÀ DI MERCATO?
L'ordine dei francescani è il più impegnato in un'azione che è insieme di lotta e di dialogo con il denaro. Il fondatore Francesco d'Assisi, figlio di un mercante, si ribella al padre per meritarsi la salvezza e aiutare gli altri a conseguirla; la sua visione e la sua linea d'azione, dunque, implicano un atteggiamento verso il denaro non solo di opposizione, ma addirittura di rifiuto. L'ordine che egli fonda cedendo alle pressioni papali sposerà pertanto la pratica della questua itinerante, che si estenderà, pur in misura minore, anche ai domenicani, da cui il nome di mendicanti. San Francesco e una parte dei suoi compagni esitano tra il ricorso all'elemosina e il lavoro manuale come base dell'esistenza; tale dilemma non riguarda questo saggio, per il quale è invece importante l'atteggiamento dei mendicanti di fronte al denaro; da un lato esso illumina la storia che qui si vuole studiare, dall'altro è da tempo oggetto di dibattito nella storiografia moderna e contemporanea. Spinto dal papa, che preferisce vedere i religiosi riuniti in un ordine, Francesco d'Assisi elabora nel 1221 una prima Regola per la comunità dei suoi frati; nel 1223 viene redatta la versione definitiva, approvata con una bolla dal pontefice, che aveva suggerito direttamente le correzioni da apportare. Significativamente, il capitolo della bolla che ha incontrato le maggiori difficoltà di applicazione si intitola «Divieto ai frati di accettare denaro», definito dalla formula pecuniam aut denarios. Nella prima stesura vi si precisa che i frati non devono avere per il denaro interesse maggiore che per i sassi [quia non debemus maiorem utilitatem habere et reputare in pecunia et denariis quam in lapidibus). La versione definitiva ribadisce fermamente (firmiter) il divieto di ricevere in qualsiasi forma denarios vel pecuniam, direttamente o indirettamente con l'intermediazione di una terza persona. Il capitolo risulta accorciato, scompare l'assimilazione delle monete alle pietre, ma la forza della proibizione è immutata.
Nel mio La borsa e la vita ho cercato di descrivere come la Chiesa abbia tentato di conciliare l'uso del denaro (la borsa) da parte dei buoni cristiani con la salvezza eterna (la vita). Il cuore del problema ruota sostanzialmente intorno al concetto e alla pratica dell'usura. Mi permetto di riprendere qui le idee fondamentali del mio vecchio studio. Vi sottolineavo che il Medioevo si rappresentava in modo assai diverso dal nostro quelle realtà che oggi noi isoliamo nella categoria specifica di economia. Vi citavo il già ricordato Karl Polanyi (1886-1964), grande economista moderno e mio principale ispiratore nello sforzo di evitare ogni anacronismo e comprendere il funzionamento dell'«economico» nella società medievale. In particolare sottolineavo come Polanyi abbia dimostrato che in molte società del passato, compresa quella medievale, «l'economia era incorporata - embedded - nel labirinto delle relazioni sociali». Mi sono permesso questo richiamo perché lo ritengo ancora valido e perché le teorie di Polanyi mi aiutano a chiarire il pensiero di uomini e donne del Medioevo, teologi compresi, intorno a ciò che noi oggi chiamiamo «denaro».
Molti storici moderni e contemporanei ritengono che a partire dall'idea di povertà volontaria gli ordini mendicanti, e in special modo i francescani, abbiano paradossalmente contribuito a elaborare una concezione del denaro che avrebbe preparato il terreno alla «società di mercato». Mi limiterò a segnalare i punti deboli dell'opera sulla quale Giacomo Todeschini, malgrado la sua grande erudizione, fonda la sua interpretazione: il De emptionibus et venditionibus di Pietro di Giovanni Olivi. Questo testo, che abbiamo già incontrato, è stato l'oggetto di animate polemiche: io mi associo a coloro che lo ritengono un trattato che ha occupato una posizione margina le e di scarsa influenza nella sua epoca, un esempio di pensiero eccentrico e fuori dalla norma piuttosto che espressione di un punto di vista diffuso e condiviso.
È invece un dato certo, e fondamentale, che i francescani abbiano fondato, ma solo alla fine del XV secolo, degli istituti di credito finalizzati a fornire le piccole somme di denaro necessarie alla sussistenza dei poveri. Alla fine del Medioevo la nuova povertà era ancora al centro dell'attenzione degli ordini mendicanti. Daniela Rado ha definito il Monte di Pietà «un'istituzione creata per assicurare la disponibilità di prestiti a breve termine alle classi lavoratrici delle città garantendo un po' di denaro in cambio del pagamento di un piccolo interesse». Il più antico di questi peculiari istituti di credito nasce a Perugia nel 1462 su iniziativa del francescano milanese Michele Carcano. L'idea si diffuse nell'Italia settentrionale e poi in tutta Europa. Spesso l'istituzione di un Monte di Pietà era la conseguenza della predicazione di un frate, perlopiù un francescano, cui seguivano la raccolta di un capitale iniziale da parte delle autorità municipali - per mezzo di questue, donazioni, lasciti -, la nomina dei direttori e la stesura di un regolamento. Gli ispiratori dei Monti di Pietà si impegnarono affinché i prestiti fossero gratuiti, ma riuscirono a ottenere solo la concessione di bassi tassi d'interesse, intorno al 5%. I Monti di Pietà subirono vari attacchi da chi vi vedeva comunque una forma di usura, a dimostrazione che alla fine del Medioevo erano ben vivi sia la pratica dell'usura sia il dibattito su di essa.
Nel 1515 papa Leone X mise fine alle polemiche approvando formalmente i Monti di Pietà con la bolla Inter multíplices.

LE PRATICHE CONTABILI DEGLI ORDINI MENDICANTI
Le idee e le pratiche degli ordini mendicanti in materia di denaro sono di indubbia importanza storica. Vorrei trattarle appoggiandomi alle conclusioni emerse dal convegno organizzato da Nicole Bériou e Jacques Chiffoleau Economie et religion. L'expérience des Ordres mendiants, XIIIe-XVe siècles.
Chiffoleau vi ribadisce la specificità delle pratiche degli ordini mendicanti, francescani in testa, di fronte ai nuovi atteggiamenti assunti da alcune categorie emergenti di laici nell'ambito che poi si chiamerà economia. Come già segnalato da Max Weber, tali nuove abitudini esprimono un certo grado di razionalizzazione della vita cristiana nel suo insieme; si tratta di un approccio adottato da monasteri, capitoli delle cattedrali, entourage dei vescovi e soprattutto dallo stesso papato prima che dagli ordini mendicanti, i quali da questo punto di vista innovano meno di quanto sostenuto da certi studiosi.
Da una tavola rotonda tenuta a Roma nel 2003 è emerso che nemmeno la Camera apostolica aveva unificato le sue diverse linee di contabilità4. Nell'uso delle nuove forme di contabilità i francescani danno la priorità a quel principio della povertà volontaria che costituisce il cuore del loro messaggio. Per riprendere le parole di Jacques Chiffoleau, le pratiche contabili dei mendicanti ci paiono oggi più rudimentali rispetto a quelle dei mercanti e degli esattori d'imposta. Esse consistono essenzialmente nel «verificare con sistematicità lo stato della loro povertà annotando le spese per cibo e vestiario, gli eventuali obblighi derivanti da donazioni inattese e dalle rendite regolari sulle quali possono contare». Rispetto alle nuove pratiche gestionali messe a punto tra 1360 e 1380, gli ordini mendicanti continuano a orientarsi verso quella che Max Weber ha chiamato «economia della salvezza». Come è stato magistralmente descritto da Chiara Frugoni relativamente alla decorazione della cappella degli Scrovegni di Padova, il finanziamento di chiese e conventi dei mendicanti, che subisce un'accelerazione nel secolo XIV, proviene essenzialmente da offerte pro mortuis, lasciti e richieste di inumazione all'interno delle loro chiese e dei loro cimiteri. Si tratta di comportamenti assai diversi dagli investimenti nell'edilizia dei laici benestanti. «Le magnifiche chiese e le ricche proprietà immobiliari degli ordini mendicanti della fine del Medioevo», cito ancora Chiffoleau, «non contraddicono, come è stato affermato, le regole di vita dei frati, per la semplice ragione che questi edifici e il mobilio che contengono non appartengono mai davvero completamente a loro. Il convento mendicante non può essere un luogo della cui proprietà godono i soli frati». Le entrate dei mendicanti in tutta Europa provengono soprattutto da rendite appositamente costituite dalle autorità cittadine o centrali nell'ottica della gestione del debito pubblico; esse dunque rientrano tra le iniziative volte alla salvaguardia del bene comune e non tra le proprietà dei frati o del potere politico. La parola pensio, che designa l'insieme delle rendite dei frati, pone l'accento sul fatto che si tratta in sostanza della semplice fornitura di victum et vestitimi; nulla, insomma, che contraddica la pratica della povertà. L'usufrutto delle rendite e dei censi, inoltre, è percepito per conto dei mendicanti da procuratori che agiscono in veste di intermediari, una prassi che tuttavia non basta a convincere né tanti critici dell'epoca, né certi storici di oggi. E significativo che il necessario ricorso dei mendicanti a mediatori per quelle operazioni che risulterebbero contrarie ai voti di povertà volontaria finisce per inserirli nella vita urbana forse ancora più profondamente della loro predicazione e facilita l'esercizio della loro pastorale nel contesto cittadino. Questo non è che un esempio del ruolo del denaro nella formazione della società e dei gruppi sociali nel Medioevo. L'uso del contante stabilisce tra coloro che se ne servono nuovi legami che altrimenti non esisterebbero, oppure rinforza gli esistenti. Nei secoli XIV e XV circa la metà delle entrate dell'ordine francescano deriva dalle richieste di preghiere per i defunti o di sepoltura dentro i conventi. La morte si monetarizza. Il radicamento della credenza nel Purgatorio incoraggia le donazioni in denaro alla Chiesa, anche di minima entità, effettuate grazie alle cassette per le elemosine presenti nella maggior parte delle chiese, dette anche «vasche per le anime del Purgatorio». Ricordo che all'inizio del XII secolo Onorio di Autun paragonava l'ostia consacrata a una moneta necessaria alla salvezza, metafora evidentemente suggerita dalla forma dell'ostia, a riprova che nel Medioevo ad essere essenziale non è ciò che noi oggi chiamiamo denaro, bensì la moneta, diffusa sotto nomi, valori e origini diverse, ma che si è imposta come un nuovo aspetto dell'esistenza.
Il tema della povertà volontaria nei secoli XIV e XV si scontra con la rivalutazione dell'idea di lavoro e con la crescente condanna dei mendicanti non invalidi, contrapposti agli ordini mendicanti, poveri volontari che comunque si affidano sempre meno alla questua.
Come sostengo in questo saggio, al centro dell'economia della salvezza e delle sue implicazioni sociali si collocano «la grazia, la carìtas e il dono». I risultati emersi dal convegno Economie et religion hanno evidenziato che il Medioevo, al contrario di quanto sostiene Alain Guerreau, ha conosciuto il concetto di rischio e che gli stessi frati mendicanti lo hanno incluso, a determinate condizioni, nella loro visione dell'attività umana. Sono invece meno convinto dalla conclusione secondo cui gli storici separerebbero troppo la storia della religione da quella dell'economia. L'evoluzione dei rapporti tra gli ordini mendicanti e quella che oggi definiamo economia monetaria illustra esattamente il contrario: nel Medioevo non si possono separare religione ed economia, ma quest'ultima, e riprendo qui la tesi di Polanyi, è sempre inserita nel quadro delle attività di un'umanità ispirata e guidata dalla religione. A mio avviso, l'errore in cui sono incorsi eccellenti storici come Giacomo Todeschini è di aver basato la propria interpretazione su un ipotetico pensiero economico francescano. Gli insegnamenti e i comportamenti della Chiesa includono, certo, precetti e pratiche che incidono su ciò che per noi è l'economia; tuttavia, dal momento che essa non solo non è percepita come tale, ma di fatto non esiste come tale, le riflessioni e gli atteggiamenti dei francescani assumono un significato diverso e s'indirizzano a qualcosa d'altro. La povertà volontaria non ha un carattere economico, né credo ci si debba limitare a concepirla in prospettiva etica: si tratta piuttosto di un modo di pensare, e ancora di più di agire rettamente secondo gli insegnamenti della Bibbia e delle tradizioni al fine di non attirare la collera del Signore e conquistarsi un posto in Paradiso. È a partire da tali atteggiamenti, che presumono uno stato sociale e una specifica collocazione all'interno del popolo cristiano, che bisogna chiedersi in che misura questa particolare lettura e applicazione degli insegnamenti della Chiesa apra uno spazio per il denaro, o se, per contro, esso vada considerato solo una componente della ricchezza, e non sempre chiaramente percepito. Continuo a ritenere che, benché la parola «ricco» venga sempre più utilizzata, la concezione prevalente resti la dicotomia altomedievale tra potenti e poveri, potentes e pauperes.
Alcuni movimenti religiosi, come gli ordini mendicanti, per meglio enfatizzare lo spirito e i termini con i quali affrontano il problema, hanno affiancato al concetto di «povertà» quello di «povertà volontaria». La scelta di quest'ultima non è un atteggiamento economico, ma un modo di vivere e di pensare.

"tratto da
LO STERCO DEL DIAVOLO
Il denaro nel Medioevo
di Jacques Le Goff"
Rispondi