MEDICINA E CHIRURGIA

Commercio, istituzioni, usi e costumi, istruzione...
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Giovanni da Procida

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Giovanni da Procida (Salerno, 1210 – Roma, 1298) fu un medico della Scuola Salernitana, diplomatico e uomo politico legato alla dinastia sveva degli Hohenstaufen e uno dei familiares di Manfredi[1]. Dopo la caduta della dinastia sveva, fu uno dei protagonisti dei Vespri Siciliani.

Biografia
Membro della famiglia nobiliare dei da Procida, signori dell'isola omonima dal XII al XIV secolo, era il terzo con questo nome (Giovanni III da Procida), figlio primogenito di Giovanni II da Procida e Clemenza Logoteta.
Fu tra i consiglieri di Federico II di Svevia, da cui si vide affidare l'educazione del giovane Manfredi.
Si trovò al fianco di Manfredi fino alla disfatta di Benevento del 1266 dopo la quale, costretto alla fuga, cominciò a viaggiare tra le corti di tutta Europa al fine di dispiegare una grande opera diplomatica finalizzata al ritorno della dinastia sveva sui troni di Napoli e Sicilia e la cacciata degli Angioini dalla penisola italiana.
Fu particolarmente attivo a Roma, a Costantinopoli e in Aragona, dove offrì per lungo tempo i suoi servigi al re Giacomo I d'Aragona e in seguito a suo figlio Pietro III d'Aragona che, avendo sposato Costanza di Hohenstaufen, era tra l'altro anche genero di Manfredi.
Fu quindi tra i principali organizzatori e animatori dei Vespri Siciliani e della guerra che ne seguì, così come fautore dell'intervento di Pietro d'Aragona in Sicilia.
Il 2 febbraio 1283 fu nominato Gran Cancelliere di Sicilia, pur continuando, nonostante l'età, la sua frenetica attività diplomatica tra le diverse corti d'Europa.
Fu in un'ennesima missione diplomatica che Giovanni da Procida morì, a Roma, nel 1298, all'età di ottantotto anni.
Il giudizio storico sulla sua figura, nei secoli successivi, fu spesso controverso: diversi storici, in particolare di parte guelfa, lo videro a lungo come un mero "cospiratore contro l'autorità costituita". Nonostante ciò, a partire dal XIX secolo la sua figura è stata sempre più riabilitata, figurando in tali giudizi come uno dei primi uomini politici e diplomatici nel senso "moderno" del termine.
Nel 1817 Giovanni Battista Niccolini gli dedicò una sua tragedia, inizialmente censurata per il contenuto giudicato di propaganda risorgimentale.

Leggende
Secondo una leggenda, si trovò in incognito, a Napoli, il 29 ottobre del 1268, mentre veniva decapitato Corradino di Svevia e riuscì a raccogliere il "guanto di sfida" che il giustiziato avrebbe lanciato dal patibolo tra la folla poco prima di morire. Questa leggenda fu ripresa da Aleardo Aleardi che la inserì in un canto dedicato a Corradino:

« E vide un guanto trasvolar dal palco
Sulla livida folla; e non fu scorto
Chi ‘l raccogliesse. Ma nel dì segnato
Che da le torri sicule tonaro
Come Arcangeli i Vespri; ei fu veduto
Allor quel guanto, quasi mano viva,
Ghermir la fune che sonò l’appello

Dei beffardi Angioini innanzi a Dio. »
(Aleardo Aleardi, Il monte Circello)

Secondo un'altra leggenda, meno nota, Giovanni avrebbe organizzato l'incidente fra Drouet e la nobildonna che fece scattare la prima scintilla della guerra del Vespro siciliano il 31 marzo 1282, lunedì dopo la Pasqua, sul sagrato della Chiesa del Santo Spirito, a Palermo. La nobildonna sarebbe stata Imelda, figlia di Giovanni, che sarebbe giunta appositamente da Napoli per provocare un incidente che permettesse di avviare la rivolta già organizzata dal padre.

Opere
Liber philosophorum moralium antiquorum

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http://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_da_Procida
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Rogerio Frugardi

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Rogerio Frugardi, conosciuto anche come Ruggero Frugardo, Magister Rogerius Salernitanus, Roggerio di Frugardi (figlio di Frugardo medico a Parma), Rogerius Parmensis (... – ...), è stato un medico italiano. Esercitò l'arte medica presso la Scuola Medica Salernitana probabilmente intorno alla metà del XIII secolo. Scrisse un importante trattato di chirurgia, Practica Chirurgiae, noto anche come Chirurgiae Magistri Rogerii in quanto sarebbe stato compilato da un suo discepolo, Guido d'Arezzo.

Practica Chirurgiae
Il Practica Chirurgiae è un testo molto importante nella storia della chirurgia perché ci consente di appurare lo stato dell’arte a quell’epoca. Si sviluppa in quattro libri dedicati alle varie parti del corpo: testa, collo, torace e arti superiori, arti inferiori. Parte da una accurata trattazione anatomica frutto di studi autoptici praticati in particolare sui maiali, e dopo aver descritto l’aspetto patologico, conclude con la terapia. È stupefacente la descrizione che si fa di alcune tecniche chirurgiche riguardanti la sutura dei vasi sanguigni con fili di seta, quelle riguardanti la cura delle lesioni viscerali nella traumatologia aperta dell’addome, le tecniche di trapanazione del cranio e la terapia medica del gozzo con spugne e alghe contenenti iodio.
Rogerio fa anche riferimento all’utilizzo della spongia somnifera, una spugna imbevuta con estratti di varie sostanze, compreso l’oppio, che serviva evidentemente a dare qualche sollievo ai pazienti operati limitando la percezione del dolore e che era stata già utilizzata dagli antichi romani.
Il suo testo, considerato il primo testo di chirurgia italiana, rappresenterà la base della chirurgia medioevale e sarà ripreso da altri grandi chirurghi oltre che essere usato nelle prime università quali quelle di Bologna e di Montpellier. Lo stile è semplice, asciutto, e privilegia la descrizione rispetto alle lunghe e dottrinali citazioni di altri Autori, tipico di un ‘manuale’ pratico piuttosto che di un ‘trattato’ erudito di chirurgia.
È il connotato dei Maestri della Scuola Medica Salernitana che, tra gli altri avrà il pregio di sancire il principio che la chirurgia venga esercitata da persone abilitate da un corso di studi e da un adeguato tirocinio pratico contrariamente a quanto era accaduto fino ad allora, quando la chirurgia era stata demandata ai cerusici e norcini privi di qualsiasi cultura.
Anche la rivista scientifica americana "Thyroid", nel 2007 si è interessata al chirurgo salernitano, grazie ad un articolo di Paolo Cavallo e Maurizio Bifulco, dell'Università degli Studi di Salerno. L’articolo evidenziava l’intuizione e l'efficacia di tecniche e preparati, all’epoca utilizzati nel trattamento delle patologie della tiroide, che, sebbene basati soltanto su evidenze del tutto empiriche correttamente interpretate, mostravano la loro straordinaria modernità, costituendo ancora oggi il fondamento delle attuali terapie, frutto di conoscenze scientifiche e di secoli di studio.

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http://it.wikipedia.org/wiki/Rogerio_Frugardi
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MEDICINA: SALASSI, CATAPLASMI E POZIONI

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"Articolo estrapolato dalla rivista FOCUS STORIA COLLECTION - MEDIOEVO - 2011"

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COSTUMI E SOCIETA': LE TERME

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"Articolo estrapolato dalla rivista MEDIOEVO - agosto 2012"

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Bruno da Longobucco

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Bruno da Longobucco (Longobucco, inizio XIII secolo – Padova, 1286) è stato un medico e chirurgo italiano.
Bruno fu uno dei più grandi chirurghi del Medioevo: fu un riformatore della chirurgia avendo una profonda conoscenza delle dottrine greche, latine ed arabe. Fu un prosecutore della chirurgia praticata da Democede di Crotone, Filistione di Locri e da tanti altri, le cui tecniche ed insegnamenti erano custoditi nei numerosi testi conservati nei monasteri basiliani e benedettini, testi che vennero copiati per primi dagli amanuensi di Cassiodoro a Squillace.
In pieno Medioevo, quando i medici iniziarono a prendere le distanze dal mestiere del chirurgo, professione ritenuta non degna di rispetto poiché esercitata più dal chirurgo-barbiere, dal cavadenti, dal flebotomo o dal cerusico, Bruno da Longobucco diventò uno dei promotori della chirurgia praticata da gente colta, consapevole del proprio impegno e della responsabilità verso i propri pazienti.
Guy de Chauliac fu un grande estimatore di Bruno da Longobucco, definendolo secondo chirurgo solo a Ruggero di Salerno, ma con in più il peso della cultura araba.

Vita
La terra natale di Bruno da Longobucco in molti casi è contraddittoria, anche se dai suoi scritti risulta dichiarato: Brunus gente Calabrica patria Longoburgensis. Riguardo alla sua data di nascita, padre Francesco Russo formulò un'ipotesi, secondo cui, avendo Bruno finito il suo libro nel 1253, cioè nella sua maturità di medico ed uomo, si può far risalire la sua data di nascita ai primi del Duecento.
Si conosce poco della sua infanzia e della sua formazione di medico. Probabilmente apparteneva ad una famiglia di solide condizioni economiche addetta all'amministrazione delle miniere presenti nel luogo natale. Riguardo ai suoi studi, si pensa che siano stati svolti tra Longobucco e Rossano, visto il periodo fiorente che la Calabria settentrionale godette grazie alla protezione culturale di Federico II e ai grandi scambi commerciali.
Bruno, dopo aver conseguito tali studi, si trasferì dapprima a Bologna e poi a Padova. A Bologna diventò discepolo di Ugo Borgognoni superando - secondo lo storico della medicina Salvatore De Renzi - il maestro, poiché quest'ultimo, poco familiare con la cultura classica e con la penna, non aveva lasciato nulla di scritto, nonostante la sua fama di eccelso chirurgo. È proprio a Bologna che Bruno prese dimestichezza con i testi arabi.
Terminata la formazione bolognese, arrivò a Padova dove contribuì alla fondazione dell'Università, avvenuta il 29 settembre del 1222 e, insieme a Pietro d'Abano, insegnarono nella citata Università le dottrine arabe aggiornate alla luce di nuove scoperte, diventando ben presto gli ambasciatori della "medicina arabista" in Italia e in Europa. In tale Università Bruno, con l'autorità dello status di magister, tenne una delle prime tre cattedre di medicina, le quali erano state distinte secondo criteri etnografici in quattro nationes: latini della langue d'oïl (francesi e normanni); latini della langue d'oc (provenzali, catalani e spagnoli); germani (tedeschi, fiamminghi, inglesi, polacchi); italiani o citramontani (calabresi, romani, siciliani, toscani, lombardi, etc.).
Della personalità di Bruno si conosce poco: dai suoi scritti appare una persona austera e raffinata, persona colta, spinto nella sua professione da una profonda fede cristiana. Uomo di forti convinzioni, persegue i suoi obiettivi pur scontrandosi con le dottrine dei grandi della storia della medicina antica. Affronta per primo tra i medici cristiani il tema della castrazione, tema non tanto accettato nel periodo medievale. Secondo un'ulteriore analisi di padre Francesco Russo, morì probabilmente a Padova nel 1286. In molti saggi sulla storia dell'Università di Padova, Bruno è ricordato con poche righe, a volte neanche citato.

Opere
Nel Medioevo la chirurgia fu una pratica minore: a Parigi fu addirittura proibito occuparsi di chirurgia, così come l'Inquisizione censurò severamente le dissezioni.
Si possono riassumere sotto il nome di Ruggero, Bruno da Longobucco e Teodorico da Lucca i padri delle dottrine chirurgiche del periodo: Ruggero ripristinò la chirurgia latina nella Scuola salernitana, Bruno propose una nuova chirurgia di matrice greco-araba e Teodorico da Lucca fu il primo ad utilizzare i narcotici durante gli interventi chirurgici. Bruno nei suoi insegnamenti unì le nozioni acquisite durante gli studi a tutta la sua esperienza pratica, come nel campo della chirurgia traumatologica, come si denota nel capitolo della Chirurgia Magna, in cui egli si accinse a descrivere il modo di estrazione delle frecce, descrizione effettuata con una particolare perizia.
Il manoscritto di Bruno fu preso da esempio da tutti i suoi discepoli e non solo. Nel racconto della sua pratica emerge l'insoddisfazione riguardo alla tecnica del salasso (terapia degli umori) che era stata lasciata nelle mani dei flebotomi e tal proposito scrive: «Ac operationes scarificationis et flebotomiae noluerunt medici propter indecentiam exercere: sed illas barberiorum in manibus reliquerunt» .
Egli fu un antesignano dell'antisepsi: infatti ritenne che per prima cosa fosse necessario fermare l'emorragia per prevenire la suppurazione, lasciando poi aperte le ferite e fasciandole infine con bende imbevute di vino bollito, al contrario di come affermava Galeno, secondo cui la fuoriuscita di pus fosse buon segno sulla guarita della ferita. Egli per primo praticò la paracentesi in presenza di idropisia e sutura con fili di seta, cotone o budella animale. Introdusse l'intervento di cataratta, utilizzando una tecnica molto complessa: suggerì il taglio delle vene della congiuntiva quando esse fossero diventate varicose. Al contrario di Celso, egli consigliò di aprire per intero le fistole dell'ano.
Nonostante alcuni dissensi appena citati, per buona parte del libro rimase fedele per alcuni aspetti a Galeno, per altri ad Ippocrate, per altri ancora a Celso, come nella concezione di patologie e nella distinzione tra "semplici e composti".
Bruno fu, inoltre, uno dei precursori del metodo scientifico all'Università di Padova, proprio perché la sua finalità fu il valore convergente dell'esperienza e della ragione. A tal proposito i suoi allievi si opposero, in alcuni casi anche aspramente, agli allievi di Ruggero della Scuola Salernitana, dediti invece alla conservazione del sapere medico classico di Ippocrate e Galeno.
Delle sue opere pervenute si ricordano:
Chirurgia Magna: l'opera maggiore, completata nel 1253, composta da 2 libri, ognuno dei quali formati da 20 capitoli. Nel primo libro sono affrontate le fratture, le ferite e le lussazioni, mentre nel secondo sono affrontate le malattie che hanno bisogno di intervento chirurgico. Bruno dedica la sua opera ad Andrea da Vicenza, un suo amico di cui non si hanno notizie storiche. Fu uno dei primi manuali didattici delle Università di Bologna e di Padova, cosa che giustifica il fatto che molti aspiranti chirurghi per poter superare l'esame dovettero trascriverne una copia.
L'opera fu stampata per la prima volta a Venezia nel 1498 in una edizione che raccoglie testi di diversi autori, la Cyrurgia Guidonis de Cauliaco et Cyrurgia Bruni Theodorici Rogerii Rolandi Bertapalie Lanfranci, ed ebbe successive ristampe nel 1499, 1513, 1519, 1546 e nel 1549.
Chirurgia Parva: un trattato più maneggevole e didattico, dedicato a Lazzaro di Padova. Bruno ha calcolato anche le dimensioni di questo breve trattato, valutandolo la settima parte del trattato maggiore, infatti esso è composto da un solo libro di 23 capitoli.
Sono rimaste manoscritte altre sue opere minori: Capitoli del Bruno della utilità delli cauteri, Cura delle postieme tracta del Bruno della compositione del corpo de l'omo, Bruni medicamenta varia, De utilitate sequentium medicamentorum, Impiastri e ricette varie, Del fluxo del ventre, Bruni materia medica, Sententia Bruni de egretudinibus oculorum.

http://it.wikipedia.org/wiki/Bruno_da_Longobucco
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Taddeo Alderotti

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Taddeo Alderotti (Firenze, 1215 – Firenze, 1295) è stato un medico italiano, commentatore di Ippocrate.

Biografia
Scienziato e filosofo erudito, scrisse per l'amico e protettore Corso Donati, uno dei primi testi di medicina in lingua volgare, il Della conservazione della salute. Il più conosciuto medico del Medioevo, tanto da meritarsi una citazione nel XII canto del Paradiso di Dante, Taddeo Alderotti insegnò all'Università di Bologna dal 1260, applicando, durante le sue lezioni di medicina, un innovativo metodo scolastico. Taddeo Alderotti iniziava la lezione con una lectio o expositio di un passo tratto da un testo autorevole (di Ippocrate, Galeno, Avicenna, ecc.). Procedeva poi per quaestiones con riferimento alle quattro cause aristoteliche: causa materiale (la materia della trattazione), causa formale (la sua forma espositiva), causa efficiente (l'autore dell'opera), causa finale (il fine o lo scopo dell'argomento prescelto). A questo punto il maestro formulava una serie di dubia, cui facevano seguito i momenti euristici della disputatio ed, infine, della solutio. Taddeo Alderotti all'ateneo bolognese ebbe come discepolo il celebre anatomista Mondino de Luzzi.

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http://it.wikipedia.org/wiki/Taddeo_Alderotti
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SALASSI, CATAPLASMI E POZIONI

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Nelle botteghe della salute

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A metà strada fra il medico e il mercante, lo «speziale» fu davvero l’antenato medievale del nostro «farmacista»? Vediamo come, a partire dalle disposizioni emanate da Federico II, questa potente categoria esercitava il proprio ruolo a Milano, Firenze, Roma...

L’attività di uno speziale costituiva un vero e proprio universo, molto piú articolato e complesso di qualsiasi altra attività artigianale o commerciale del Medioevo. Imprenditore, artigiano e mercante contemporaneamente, lo speziale praticava la compravendita di svariati prodotti e materie prime, affiancando alla cultura e all'esperienza tecnica nella pratica farmaceutica, la conoscenza delle altrettanto complesse pratiche mercantili. La sua figura faceva da tramite tra la scienza popolare, basata su nozioni pratiche – ma infarcita anche di credenze e superstizioni –, e i saperi della scienza medica.
Sul piano del prestigio sociale, la professione dello speziale può essere considerata intermedia tra occupazioni intellettuali, quali quelle del medico o del notaio, e attività legate al commercio e all'artigianato. Pur non richiedendo, infatti, un elitario corso di studi universitari, ma soltanto alcuni anni di apprendistato in bottega, l’esercizio dell’attività implicava un vasto patrimonio di conoscenze e una professionalità che godeva ovunque di un notevole riconoscimento, sia sociale che giuridico. Dal punto di vista deontologico gli speziali erano equiparati ai medici: a Firenze, in particolare, facevano parte della medesima corporazione che rappresentava anche una delle Arti Maggiori della città.

Per diventare speziale
I precedenti storici in materia di legislazione farmaceutica trovano una matrice comune nell'Ordinanza medicinale emanata da Federico II intorno al 1240. Il provvedimento federiciano non fu comunque il primo testo legislativo in proposito: probabilmente, infatti, l’imperatore si rifece agli statuti di Arles, compilati fra il 1162 e il 1202.
Conformandosi in misura maggiore o minore a queste disposizioni, dalla seconda metà del XIII secolo gli statuti degli speziali di tutte le città della Penisola prescrivevano l’obbligo di iscrizione alla corporazione per tutti coloro che maneggiavano spezie e confezionavano medicinali, proibendo al tempo stesso a chiunque di tenere in casa materie prime atte a realizzare medicamenti, con l’eccezione dei mercanti che importavano e rivendevano all'ingrosso le singole materie prime. Della corporazione degli speziali potevano far parte, in modo diverso a seconda della città, anche artefici minori, come i ceraioli e i fabbricanti di candele, i droghieri, i produttori di dolciumi e confetti. A Firenze, invece, i farmacisti costituivano il membro minore della potente corporazione dei medici e degli speziali.
L’iscrizione all'albo professionale comportava sempre alcuni anni di tirocinio, variabili a seconda della città, l’approvazione dei maestri dell’Arte – che a volte diventava un vero e proprio esame –, il giuramento di esercitare la professione bene e lealmente, il pagamento della tassa alla corporazione. Ottenuta l’idoneità a esercitare, il nuovo farmacista veniva dotato di un marchio con cui doveva sigillare i prodotti che uscivano dalla sua bottega, in modo che ne fosse facilmente rintracciabile la provenienza e accertabile la responsabilità in caso di problemi.

I molti risvolti di una professione
Quella dello speziale era un’attività alquanto articolata, comprendente un’ampia gamma di operatori commerciali, che andava dai rivenditori piú modesti ai grandi mercanti importatori di materie prime ed erogatori di prestiti (vedi box).
A Firenze nel Tre/Quattrocento gli speziali rappresentavano una categoria moderatamente abbiente, con un tenore di vita superiore a quello della maggior parte della popolazione, anche se lontano da quello dell’élite mercantile e bancaria che dominava l’economia della città. La situazione poteva naturalmente variare a seconda della congiuntura e del luogo: sempre a Firenze, negli anni Ottanta del Quattrocento, l’attività subí una crisi tanto grave che alcuni speziali, progrediti alla condizione di soci da quella di lavoratori sottoposti, rimpiangevano amaramente il proprio status precedente. La situazione era dunque tale che un salario sicuro, anche se modesto, era preferibile a una quota di utili incerti, col rischio di un bilancio passivo.
A Roma, invece, negli stessi anni, numerosi speziali collegati alla curia pontificia erano anche banchieri, prestatori, commercianti all'ingrosso di preziose materie prime. Nel XIV e nel XV secolo investivano i profitti sia in terre, sia in una svariata gamma di attività collaterali: l’acquisto di taverne, botteghe, macelli; la creazione di società per il commercio dei pellami e la lavorazione del cuoio; la stipulazione di contratti di soccida (contratto agrario secondo cui le due parti, soccidante e soccidario, si associano per l’allevamento e lo sfruttamento di una certa quantità di bestiame e per l’esercizio delle attività connesse, cosí da ripartire l’accrescimento degli animali e gli altri prodotti utili che ne derivano, n.d.r.); la gestione di mulini idraulici; l’attività estrattiva, esercitata mediante l’acquisto di quote di miniere

Gli ambiti di competenza
La pratica farmaceutica non era dunque la sola attività degli speziali e la maggior parte degli statuti corporativi cittadini, dal Trecento in poi, si preoccupava perciò di definire dettagliatamente quali fossero i loro ambiti di competenza e i prodotti sui quali essi avevano l’esclusiva di vendita, e quali invece le merci che potevano essere trattate anche da altri commercianti (definiti «pizzicagnoli» in Toscana, e «droghieri» in Lombardia).
La corporazione degli speziali di Milano, i cui primi statuti risalgono al 1389, comprendeva, accanto ai farmacisti veri e propri, anche coloro che lavoravano la cera e i droghieri (che trattavano, tra l’altro, frutta secca, canditi e confetti). Agli speziali spettavano la produzione e la vendita in esclusiva non solo di medicine, unguenti, lassativi, acqua distillata, ma anche di cera, candele, confetti, datteri, cannella, pepe, mandorle, riso, liquirizia, zafferano, noce moscata.
Particolarmente dettagliati in proposito sono i trecenteschi statuti della corporazione senese (1356) con le successive revisioni quattrocentesche, che, dopo avere proclamato l’importanza della professione per la salute umana e la necessità quindi di svolgerla col massimo rigore e precisione – che solo il costante controllo dell’organismo corporativo poteva garantire –, stabilivano in primo luogo l’obbligo tassativo di iscrizione all'Arte (accompagnato da un giuramento solenne) per chi confezionasse e maneggiasse medicinali. Erano altresí previste severe sanzioni per quei farmacisti o garzoni che, abbandonata la corporazione e non piú in possesso di una bottega propria o di riferimento, andavano a confezionare medicinali nelle case e nelle botteghe altrui, con grave pregiudizio per la qualità del prodotto, e rendendo evidentemente impossibile rintracciarne il responsabile.
Dopo avere ribadito a piú riprese la necessità di una divisione delle competenze con i pizzicagnoli, sia per motivi di igiene, sia per la necessità di rispettare la scienza medica, gli statuti prescrivevano poi di controllare ogni mese le botteghe di questi ultimi per accertarsi che non tenessero alcun medicinale o merce di cui non fosse consentita loro la vendita. Un controllo mensile non meno rigoroso da parte di tre ufficiali della corporazione era previsto anche per le botteghe degli speziali, per accertarsi che tutto funzionasse secondo le regole.
Nel 1423, sempre a Siena, venne stilato un elenco delle merci che potevano essere trattate esclusivamente dai farmacisti: oltre che spezie, erbe, pillole, medicine e cose destinate agli infermi, anche semi, confetture e composte, colori per dipingere, sapone, zolfo, riso. A loro volta, i pizzicagnoli potevano adoperare, ma non vendere, trementina, pece nera, cinabro, e verde rame, con cui coloravano la cera e lo zolfo. Entrambe le categorie potevano tenere in bottega e vendere al minuto carta per scrivere, carta da imballo, filo, «bossoli da spezie» (vasetti o barattoli per unguenti o profumi).

Garantire la qualità
Le disposizioni corporative di ogni città erano particolarmente preoccupate di tutelare la qualità dei prodotti, sia che si trattasse di medicinali, che di altre merci vendute dai farmacisti. Cosí si proibiva di vendere zafferano adulterato «alla maniera genovese» (statuti di Milano, 1389), cera di cattiva qualità, mescolata a grassi, oli e trementina (statuti di Pisa, 1496, e di Milano, 1389), confetture contenenti amido o riso, e soprattutto medicinali contraffatti (statuti di Siena, 1356, di Milano e di Pisa), pena aspre multe e il sequestro dei beni.
I medicinali – e soprattutto teriache (vedi box), unguenti, lattovari (vedi box), cerotti, sciroppi – dovevano essere confezionati secondo quanto disposto dal collegio dei fisici (cioè dei medici: statuti milanesi del 1389), o secondo quanto prescritto dai consoli degli speziali, e venire sigillati col marchio della bottega che li aveva prodotti, in modo da poter identificare facilmente chi avesse venduto medicamenti adulterati e nocivi (statuti milanesi, 1389, e statuti pisani, 1496). Per lo stesso motivo, gli statuti pisani in particolare proibivano severamente di vendere teriaca che non fosse prodotta in città, davanti ai consoli dell’Arte e con tutte le buone regole che la complessa confezione di questo medicinale richiedeva. I farmacisti pisani, come anche quelli milanesi, aborrivano soprattutto la teriaca e i prodotti (cera, candele, zafferano) provenienti da Genova, considerandoli di qualità scadente.
A Firenze e a Pistoia (XIV-XV secolo) la corporazione esercitava un rigido controllo sulla qualità dei medicinali, prevedendo che «veditori» e «saggiatori» appositamente designati facessero ispezioni periodiche, testandoli e verificando al tempo stesso la condizione dei locali e delle scaffalature della farmacia. Le merci non confezionate secondo i dettati statutari venivano bruciate in pubblico, e i colpevoli condannati ad aspre multe. Persino le pere cotogne, utilizzate per confezionare la cotognata, dovevano essere pesate e pestate in presenza degli ispettori, e la lavorazione veniva rigorosamente controllata. E, naturalmente, precauzioni particolarissime venivano imposte per la produzione, l’esposizione e la vendita dei veleni, che non potevano assolutamente essere consegnati a schiavi, a servitori o a ragazzi di età inferiore ai vent’anni, né a prostitute. Potevano essere venduti soltanto dal maestro speziale o dal capo dell’officina e sempre dietro prescrizione medica.
A evitare frodi miravano le norme su pesi e misure e sulla precisione delle bilance, soggette al controllo della corporazione ogni tre mesi, e adeguate alle bilance di riferimento della corporazione, a loro volta tarate su quelle del Comune (statuti di Milano, 1389). A Pisa (1496) l’Arte era dotata di funzionari appositi, i «taratori», incaricati di verificare la purezza e la buona qualità delle materie prime che i farmacisti avrebbero acquistato dai mercanti, e con cui dovevano essere confezionati i medicamenti, mentre a Roma (1473 e 1487) era prevista una periodica taratura delle bilance, e a Firenze il compito di controllarle era demandato ai revisori incaricati delle periodiche ispezioni.
L’ubicazione dei locali costituenti la farmacia (di solito almeno due, uno per il laboratorio e uno per la vendita) aveva poi un’importanza notevole nel garantire la buona riuscita dei prodotti e la loro corretta conservazione. Il delicato processo di preparazione di unguenti, sciroppi, medicinali, creme di bellezza, richiedeva infatti una particolare attenzione sia alla pulizia dei locali, sia alla loro ampiezza, luminosità e aerazione, nonché al fatto che non vi fossero nelle vicinanze esercizi commerciali inquinanti (tintorie, macellerie, concerie). Perciò alcuni statuti (tra cui quelli romani della fine del Quattrocento) prescrivevano che le botteghe fossero ubicate in ambienti adatti.
La facoltà per i medici di gestire in proprio delle farmacie, e le società tra medici e speziali, già vietate da Federico II, e proibite durante il Trecento dai governi di molte città (Napoli, Parma, Cremona, Verona, Venezia, Pisa), vennero invece consentite a Firenze dove sia gli statuti cittadini che quelli corporativi ne permettevano la costituzione, autorizzando i farmacisti a tenere nelle loro botteghe medici per curare gli ammalati che vi si recavano, e consentendo ai dottori di gestire in proprio le spezierie. Era però vietato l’accordo tra farmacista e medico per vendere i medicinali dividendo gli incassi. Il piú antico accordo di questo tipo a Firenze risale al 1279, quando un fisico e un chirurgo si associarono per curare gli ammalati in una bottega comune e vendere le medicine.
Società di questo tipo erano in ogni caso ammesse di buon grado anche in molte altre città della Toscana (Siena, Pistoia, Lucca), e dell’Emilia (Bologna, Ferrara). Gli speziali associati con un medico non potevano però curare i feriti, né somministrare farmaci senza l’autorizzazione del medico stesso. Era consentito anche agli stranieri aprire una bottega di speziale, purché si iscrivessero alla corporazione versando una tassa doppia rispetto a quella pagata dai cittadini (statuti di Milano, 1389, di Siena in modifica di fine Quattrocento, e di Pisa, 1496), e a Roma addirittura tripla (1473).

Due categorie principali
Le trattazioni medievali distinguevano i farmaci in due categorie: quelli «semplici», costituiti da erbe, polveri minerali e spezie, e quelli composti, come elettuari (o lattovari), unguenti, sciroppi e ogni medicinale composto artificialmente.
Gli speziali dovevano chiedere l’intervento di un medico prima di procedere alla preparazione di qualsiasi medicinale, o, almeno, questo è quanto si desume da alcuni statuti dei collegi dei medici, mentre, nella maggior parte dei dettati statutari corporativi dei farmacisti, essi sembrerebbero dotati della piú ampia autonomia. A Novara (stando a quanto sostenevano i medici) gli speziali erano obbligati a ottenere il consenso preliminare del collegio dei fisici per la preparazione dei farmaci complessi, e ad accettare che un medico assistesse personalmente alla confezione del preparato.
Sempre secondo i dettati statutari dei medici, il controllo di questi ultimi sull’attività degli speziali talvolta giungeva persino a imporre l’obbligo per i farmacisti di tenere sempre attivo un grande orto per l’approvvigionamento costante di erbe e piante medicinali, da affidare alle cure di un erborista esperto. Questo appunto stabilivano gli statuti trecenteschi dei medici di Milano (ma non quelli degli speziali), e quelli tardo-quattrocenteschi del collegio dei medici di Novara. A Roma, invece, erano i medici a essere sottoposti alla corporazione degli speziali, secondo quanto disposto dagli statuti di questi ultimi nel 1473.
Le medicine venivano confezionate secondo le norme dettate dai numerosi ricettari che circolavano all’epoca. In particolare l’antidotario di Nicolò Salernitano era considerato nel XV secolo il testo ufficiale di farmacopea. Sul finire del Quattrocento iniziò a diffondersi anche il Nuovo ricettario composto dal Collegio dei dottori di Firenze (1498): si trattava della prima farmacopea nell’accezione moderna del termine, cioè di un codice di norme scritto per ordine delle autorità cittadine e da esse vidimato, che elencava i medicamenti da tenere nelle farmacie e il modo di prepararli. In volgare e corredato di illustrazioni, era finalizzato a por fine alla confusione e all’approssimazione nella preparazione delle medicine, causati dall’eccessivo numero di ricettari in circolazione. A Firenze infatti queste compilazioni erano numerosissime, ma si trattava sempre di raccolte private, non ufficializzate dall’autorità pubblica. La nuova farmacopea, invece, venne redatta dal collegio medico di Firenze su istanza dei consoli dell’Arte, per uniformare le molte raccolte di ricette allora in uso, e per evitare gli inconvenienti e i pericoli che potevano derivare da un cattivo dosaggio dei componenti del farmaco, o da una sua cattiva conservazione.
L’opera, che tutti gli speziali avrebbero dovuto possedere e i medici tener presente nelle prescrizioni, si divideva in tre parti: nella prima si dettavano norme generali sull’ubicazione della farmacia (lontana dal sole, dal vento, dalla polvere e dall’umidità) e sui libri di cui doveva essere fornita (un dizionario botanico e due trattati sulla preparazione delle erbe). Erano poi indicati mese per mese le erbe, i fiori, i semi e le cortecce che lo speziale doveva raccogliere; le norme per la conservazione dei «semplici», dei grassi, degli elettuari, degli sciroppi, dei canditi, e per distinguere le merci buone da quelle contraffatte o adulterate; l’elenco delle materie prime (i «semplici») da tenere in farmacia, tra cui figuravano cera, miele, liquirizia, assenzio, oppio, colla di pesce, gomma, semi di dattero, noccioli di ciliegie, amarene e pesche, avorio, dente di lupo, corno, osso, perle, coralli, antimonio, zolfo, allume, bolo armeno, vetriolo, ocra, arsenico.
Venivano poi date indicazioni sulla composizione degli elettuari, cioè dei farmaci «ex electis rebus confectis», ovvero frutto della combinazione di diverse e determinate materie prime (=«semplici»), degli sciroppi, delle pillole, dei colliri, degli unguenti, degli empiastri, consentendo di realizzare, oltre alle medicine esplicitamente indicate, anche quelle che fossero state ideate dal medico che le prescriveva. L’ultima parte della farmacopea fiorentina dava ricchissime informazioni sulla preparazione, sul lavaggio e sul dosaggio delle spezie nella confezione dei medicamenti, nonché sulla soluzione di numerosi problemi di pratica farmaceutica.
Tra le spezie piú utilizzate che gli operatori del settore dovevano sempre tenere in bottega c’erano il pepe e la cannella, quest’ultima impiegata sia per aromatizzare i cibi, sia come medicina, prevalentemente per i disturbi gastrici. Proveniente dalla Cina, dall’India e dall’isola di Ceylon, la si otteneva dalle foglie triturate di un vegetale, il cinnamomo, oppure dalla sua corteccia. Molto usati erano anche la canfora (sempre ottenuta da un vegetale), i chiodi di garofano, la noce moscata, lo zafferano (prodotto anche in Toscana, nelle Marche e in Abruzzo) e lo zenzero, proveniente dall’India e dalla Cina, e dal quale gli speziali ricavavano conserve e, con l’aggiunta di altri ingredienti, un medicinale oppiato. Lo si utilizzava poi ampiamente nella preparazione di vini aromatici.
Come eccipiente per rendere piú appetibili la maggior parte delle medicine si impiegava lo zucchero, di cui le farmacie erano sempre abbondantemente provviste. Tra le materie medicamentose principali figurava poi l’olio d’oliva, usato come eccipiente, come medicinale e come rimedio principale nella cura delle ferite.

di Maria Paola Zanoboni
da la rivista Medioevo - febbraio 2013
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Gotta

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Il nome deriva dal latino gutta, che significa "goccia" (di liquido). Secondo l'Oxford English Dictionary deriva dalla teoria umorale e dall'idea che sia la « [...] caduta di un materiale morboso dal sangue dentro e intorno alle articolazioni». Il primo a utilizzare la parola gutta fu il frate domenicano Randolphus di Bocking, intorno al 1200.

La gotta, tuttavia, è una condizione conosciuta fin dall'antichità. Storicamente, era denominata «il re delle malattie e la malattia dei re» o "malattia dei ricchi". Questo perché era associata a un'alimentazione ricca e al forte consumo di bevande alcoliche, condizioni che solitamente si potevano riscontrare soltanto negli individui più ricchi.

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https://it.wikipedia.org/wiki/Gotta
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