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"Articolo estrapolato dalla rivista FOCUS STORIA - agosto-settembre 2006"

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METALLI E LEGHE METALLICHE 1/2

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Vocabolario settoriale campo MTC scheda RA
a cura di F. Avilia

METALLI E LEGHE METALLICHE

LEGHE ANTICHE

RAME:
rame – stagno = bronzo
rame – zinco = ottone
rame – antimonio
rame – arsenico = rame arsenicale (duro)
rame – oro – argento = bronzo corinzio; shakudo
rame – piombo = sostituisce lo stagno in percentuale nella lega per il bronzo
rame – fosforo
rame – magnesio
rame – alluminio = bronzo d’alluminio
rame – nichel e zinco = argentana o packfong

ARGENTO:
argento – rame
argento – oro = elettro
argento – rame – oro = bronzo corinzio; shakudo

ORO:
oro – argento = elettro
oro – rame - argento
oro – mercurio = amalgama nelle dorature
oro – ferro = oro rosa egizio

PIOMBO:
piombo – stagno = leghe per saldature; peltri antichi
piombo – rame = sostituisce lo stagno in percentuale nella lega per il bronzo

FERRO:
ferro – carbonio = ghise (C > 1,78%); acciai (C < 1,78%) si dividono in: dolci (ferro dolce o battuto, C < 0,3%), duri (C 0,50-0,75%), extraduri (C 0,75-0,90%) ferro- nichel = ferro meteorico o da minerali

STAGNO:
stagno – rame = bronzo
stagno – piombo = leghe per saldature; peltri antichi

LEGHE MODERNE (utilizzate nelle fonderie Armstrong di Pozzuoli, dati ricavati dall’archivio Gennaro Avilia, capo della suddetta fonderia dal 27 marzo del 1925) Queste leghe sono il risultato delle sperimentazioni che si effettuavano in fonderia sin dagli inizi del ‘900, finalizzate alla scoperta della lega più efficiente nella realizzazione di armi in particolare cannoni navali in cui l’officina Armstrong era rinomata e specializzata. Sempre in detta officina si effettuavano le fusioni per lo scultore napoletano Vincenzo Gemito. Le leghe sono classificate secondo un ordine tratto dall’archivio e come tale riportato; per ogni lega (per lo più a base di rame) si specificheranno le componenti, le loro percentuali per chilo e il suo utilizzo. Si citeranno solo quelle più importanti.

ALLOY (standard mixtured) (Bronzo Elswick)

Lega A1: rame (55.230) – zinco (39.759) – copper manganese (al 25% di purezza) (4.270) – stagno (0.500) – alluminio (0.250)
“Getti ordinari, barre e getti compressi a stampo. Si usa per getti ordinari come supporti per congegni di brandeggio ed elevazione, ed altri piccoli getti. Sostituirà in avvenire il bronzo da cannone comune…”

Lega A3: rame (60.490) – zinco (32.000) – copper manganese (al 25% di purezza) (4.270) – alluminio (3.240)
“Getti di bronzo ad alto limite di elasticità. Si può usare per pezzi non soggetti a scosse ovvero per quelli che avendo grande massa non presentano probabilità di rompersi per sforzo di flessione; infine per quei pezzi per i quali si richiede una superficie dura.” Definita “lega nuova senza materozze…” presentava un’alta resistenza alla rottura da carico e all’allungamento. I valori potevano essere variati con l’immissione o meno di “lega vergine”. Altre due leghe utilizzate per i cannoni sono la B1 e la B2 ove però vi era utilizzato l’ottone con percentuali del 5.500 per ambedue, con varianti nelle percentuali di rame e stagno.

ARGENTO (Simbolo Ag)

Peso atomico 107.93; punto di fusione 960,5 C°; peso specifico lavorato 10.41; peso specifico fuso
10.47.
L’argento nativo è raro e si rinviene in piccole quantità (laminette o filamenti) in giacimenti argentiferi nelle zone di cementazione immediatamente al di sotto del cappellaccio di ossidazione. In questa zona si depositano le soluzioni delle zona soprastante. Proprio per la tipologia di localizzazione del minerale nativo era difficile estrarlo con le metodologie primitive.

ATTESTAZIONI DI ATTIVITA’ ESTRATTIVE ANTICHE
- EUROPA: Sardegna (Sarrabus); Sassonia (Freiberg ed Erzgebirge); Atene (Laurion) dal miceneo alla fine del II a.C.;
- AMERICHE: giacimenti abbondanti soprattutto in Cile e Messico ove era impiegato già dalle civiltà precolombiane.

In antico l’argento oltre che dal rame nativo si ricavava anche da altri minerali nei quali è contenuto:
-Cerargirite, (AgCl)
-Argentite (Ag2S)
-Pirargirite (Ag3SbS3)
-Proustite (Ag3AsS3)
-Stefanite (Ag5SbS4) e dai quali si poteva ottenere argento (nei campioni più ricchi) senza la coppellazione. Altri minerali argentiferi sono:
-Cerussite (PbCO3)
-Anglesite (PbSO4)
-Galena (PbS) con valori dallo 0,05 allo 0,7% ed è uno dei principali minerali argentiferi.
Questi minerali hanno bisogno di un primo processo di raffinazione in quanto piombiferi e poi della coppellazione. L’argento si ricavava anche dalle jarositi (estratto dai romani a Rio Tinto – Huelva) che contengono solo una bassa percentuale di argento che si raffina con il piombo, a cui si lega, e poi viene coppellato. Anche nella pirite (FeSe), calcopirite (CuFeS2) e arsenopirite (FeAsS) e anche nell’elettro (lega naturale di oro e argento).

L’ARGENTO NELL’ANTICHITA’: PRIMI UTILIZZI

-VICINO ORIENTE: Mesopotamia (Uruk-Warka); Anatolia (Beycesultan, Alishar Hüyük, Korucutepe, Arslantepe) tardo IV mill. a.C.; Ur III mill. I metà; siti di Tirat Zvi e Tell Farah III mill. I metà; Biblos 3.500 a.C. (sepolcreto eneolitico); Egitto predinastico (3.600 a.C.) Naqada.
Si sottolinea che nel Vicino Oriente intorno alla II metà del IV mill. vi è la concomitante diffusione dell’argento e del piombo, rapportabile ai processi di coppellazione. A ciò si affianca anche un aumento della complessità della lavorazione del rame.

-EUROPA: Moravia (Katouc presso Štramberk) placchetta databile alla prima metà del IV mill.; aree attorno al Mar Nero ( Georgia, Caucaso, Ucraina, Romania, Bulgaria) reperti datati alla I metà del III mill.; Spagna fine III mill.: provincia Cuenca de Vera, siti di El Argar, El Oficio e Herrerias.
-GRECIA: Creta, Cicladi manufatti datati alla seconda metà del III mill. Alla stessa datazione si hanno manufatti da Leucade.

-MONTENEGRO: Mala Gruda (presso Kotor) II metà del III mill.
-ITALIA: Villafranca Veronese, Remedello, reperti datati all’Eneolitico. Gaudo (necropoli) leggermente più tarda; Sardegna, ricca di giacimenti piombiferi ad alto tenore di argento: Cagliari (Su Caddu presso Selargius); tomba B “Su Nuraxeddu” di Pranu Mutteddu (Goni, Cagliari); eneolitico sardo: Serra Cannigas (Villagreca, Cagliari); Sa Corte Noa (Laconi, Nuoro); Filigosa (Macomer, Nuoro). I romani importano argento dall’Iberia, utilizzato nella loro monetazione con il rame: nella I metà del II a.C. il rapporto argento rame era di 12-1, successivamente divenne 12-15, dal III d.C. si sostituì con rame argentato.

METODI DI ESTRAZIONE
La principale fonte dell’argento in antico erano le galene (PbS) e i sistemi di estrazione si dividevano in due stadi: -Frantumazione e fusione del minerale (separato dalla ganga) fra i 950 e i 1200° (in atmosfera riducente) in modo da far passare tutto l’argento nel piombo. -Si passava poi alla coppellazione (dalla coppella, il crogiolo utilizzato in età medievale, ma attestato anche prima, per effettuare saggi di verifica sul sedimento della vena argentifera) ove si rifonde il metallo ottenuto in presenza di aria forzata, ad una temperatura di ca. 1000°. Ciò comportava la separazione dell’argento dal piombo per ossidazione, ottenendo il litargirio (PbO), che assorbiva gli ossidi di altri metalli, tranne l’argento e l’oro. L’argento ottenuto per coppellazione ha un valore di piombo fra lo 0,05 e il 2,5%.

FERRO (simbolo Fe)
Peso specifico ferro ordinario 7,78; fuso 7,20; temperatura di fusione 1500° C. Presenta un colore grigio lucente; esposto all’aria umida si ricopre di ruggine (carbonato basico idrato), che non aderendo alla superficie si sgretola consentendo così al processo corrosivo di penetrare sempre più all’interno. Arroventato si ossida. E’ tenace, flessibile, elastico, magnetico. E’ solubile negli acidi cloridrico e solforico. Il ferro nativo è molto raro e lo si ritrova come riduzione dei carbonati di sali di ferro, nella Groenlandia occidentale, nell’isola Disko, a Bühl, presso Kassel in Germania e a Chotzen in Boemia. Più frequente è il ferro meteorico, come le sideriti composte esclusivamente da leghe di ferro-nichel. Più diffusi sono i minerali ferrosi: come la magnetite, l’ematite, la limonite, la goethite, la siderite, la pirite. Non tutti sono attualmente utilizzati dato il loro basso tenore di ferro che renderebbe costoso il processo di estrazione. Limitazioni che invece non erano significative in antico, quando anche piccole masse ferrifere erano importanti per la siderurgia dell’epoca.

GIACIMENTI NEL MONDO ANTICO
Italia: Isola d’Elba (Populonia) soppiantata in età imperiale dalla produzione iberica; Spagna: Centrale, Monti Iberici (Bilbilis); Egeo: isole e Asia minore; Turchia: Tauro, Cilicia (miniere di Amaxia); Etiopia: Meroë; Francia: Lugdunum (Lione) età romana; Britannia: Ariconium, età romana;
Germania: Carinzia settentrionale (miniere del Norico).

LA LAVORAZIONE
In Africa centrale sin dal I millennio a.C. si elaborarono sistemi di estrazione del ferro avvalendosi di filoni superficiali di ematite. Tali sistemi siderurgici, utilizzati sin al XX sec., si basavano su forni a tino in argilla costruiti su ampie buche e con vari ugelli disposti radicalmente alla base. Tali forni potevano raggiungere temperature fra i 1150° e i 1540° C. Nel Mediterraneo si dovette partire probabilmente da questo tipo di lavorazione, tuttavia ciò che si otteneva non era metallo fuso ma una massa (blumo) dalla struttura a spugna composta da metallo con carbone e scoria (quest’ultima composta da ossido ferroso e silicato di ferro: fayalite Fe2SiO4). Le scorie venivano eliminate meccanicamente per martellatura a caldo ma anche così il metallo che si otteneva non era ferro puro ma ricco di microscorie che si doveva di nuovo lavorare a elevata temperatura (color rosso) e martellatura. A questo stadio della lavorazione il ferro è dal punto di vista della trazione e della resistenza, inferiore al bronzo: per renderlo superiore bisognava “carburarlo” cioè lavorarlo a stretto contatto con il carbone nella forgia. Qui avveniva un processo di diffusione del carbonio dal carbone incandescente al metallo in modo da mutare la superficie dell’oggetto in acciaio. La lega ferro-carbonio secondo le quantità di quest’ultimo assumeva caratteristiche differenti avendo:
-acciai: leghe con carbonio inferiore al 1,78%
-ghise: leghe con carbonio sino al 5%; più dura e fragile rispetto all’acciaio. Poiché la quantità di carbonio influisce sulla durezza dell’acciaio si avranno:
-acciai extra dolci: contenuto di carbonio inferiore allo 0,15%
-dolci: fra 0,15 e 0,30%
-extra duri: fra 0,90 e 1,70% In pratica un ferro con basso tenore di carbonio è tenero e malleabile (ferro dolce o ferro battuto) mentre fra lo 0,2 e lo 0,3% ha una resistenza comparabile al bronzo non lavorato. Sull’utilizzo degli acciai in età contemporanea e sulle loro composizioni, rimane emblematico durante il periodo fascista (in pieno periodo autarchico) fra il 1934 e il 1938, l’utilizzo di acciai senza carbone e ghisa, impiegando invece magnetite (dalle sabbie del Lazio) e lignite (dalle miniere della Sardegna). I risultati furono incerti e purtroppo le conseguenze si risentirono sulle navi e negli arsenali durante il periodo bellico. Per rendere ancora più duro il ferro acciaioso si sviluppò la tecnica della tempra: immergendo l’oggetto ancora incandescente in un liquido onde il raffreddamento repentino ne aumentava la
durezza e la resistenza meccanica. Per evitare però un eccessivo indurimento e quindi fragilità dell’oggetto che la tempra poteva comportare si procedeva al rinvenimento, cioè ad un moderato riscaldamento del pezzo. Tutte le successive lavorazione dell’oggetto avvenivano sempre a caldo e per martellatura.

IL FERRO NELL’ANTICHITA’
Iraq: primi strumenti in ferro, tomba A di Samarra (6.000 a.C.); Iran: tre globetti da Tepe Sialk (5.500-5.000 a.C.); Egitto: alcune perline ed un anello dai sepolcri di El Gerzeh e di Armant (3.500 a.C.); Turchia: Alaca Hüyük (seconda metà III millennio a.C.) tombe con oggetti in ferro sia meteorico che da giacimenti, dai livelli ittiti dello stesso sito (seconda metà del II mill.) armi in ferro; Cipro: sepolcreto di Lapitos (prima metà del II millennio); Grecia: Tebe (Tardo Elladico) punta di trapano per orefice; Italia: Sicilia (Bronzo medio) anellino da Castelluccio, Sardegna e Sicilia (Bronzo finale). Dal IX all’VIII sec. a.C. il ferro si diffuse ampiamente nel mondo occidentale tramite la colonizzazione, divenendo e affermandosi come principale materiale di uso comune.

ORO (Simbolo Au)
Peso specifico oro puro 19.260; oro fuso 19.258; punto di fusione 1.064 °. Si distingue per il colore giallo e lucente, malleabile e duttile, buon conduttore di calore e di elettricità. Non si ossida e non viene attaccato dagli acidi ad esclusione dell’acqua regia (3 parti di acido cloridrico, 1 di acido nitrico). L’oro si rinviene in due tipi di giacimenti: Epigenetico o primario ove il deposito aurifero si è formato dopo la roccia che lo contiene, in genere per precipitazione da fluidi idrotermali; Singenetico o secondario ove il filone aurifero si è formato in contemporanea ai sedimenti che lo contengono. E’ questo il filone più comune e dal quale per agenti meteorici avviene la dispersione dell’oro in corsi d’acqua dai quali viene estratto sotto forma di pepite o pagliuzze.

GIACIMENTI DEL MONDO ANTICO
Penisola Iberica: Portogallo centrale e settentrionale; Spagna nelle regioni del N-W, in quelle centro-occidentali e area mediterranea; lungo il corso dei fiumi; Tartessos (la biblica Tarshish) posta alla foce del Guadalquivir, sarebbe il centro ove re Salomone si approvvigionava nel X sec. a.C. ca. di metalli preziosi tra cui l’oro.
Francia: Massiccio Armoricano; Massiccio Centrale (settore nord occidentale e meridionale); Pirenei sud occidentali: i Galli sfruttavano già i giacimenti della Francia centrale e dei Pirenei. Circa 200 miniere d’oro, risalenti al periodo di La Tene, si sono rinvenute nella regione del Limosino.
Isole Britanniche: Galles (già dall’epoca romana); Cornovaglia, Devon e Cumberland per l’Inghilterra; per la Scozia si ha nel Sutherland e Pertshire; Irlanda nel Wicklow.
Belgio: parte orientale del paese (già dall’età celtica e romana).
Germania: parte centro meridionale; depositi sedimentari dall’Alta valle del Reno che probabilmente traggono origine dai depositi primari delle Alpi Svizzere (forse già utilizzati nella Preistoria); nell’antichità furono utilizzati i giacimenti lungo i fiumi (Isar, Danubio, Inn).
Svizzera: vari giacimenti si hanno sui Grigioni, nel Vallese, Canton Ticino, Canton Ginevrino; i più ricchi si hanno nell’Altopiano svizzero, corso del Renoe altri fiumi.
Austria: Alti Tauri (già dall’età Preistorica); Tirolo, Stiria, Corinzia e Salisburghese (depositi primari); nei fiumi (depositi secondari).
Repubblica Ceca: Boemia; fiume Otava (sin dall’antichità – età del ferro); Sudeti versante orientale (Polonia).
Slovacchia: settore centrale e orientale.
Romania: distretti di Baia Mare, Maramures, Monti Apuseni (sfruttato dai Romani ma probabilmente già in precedenza); Carpazi Meridionali.
Ungheria: depositi secondari lungo il corso meridionale del Danubio (forse noti già dall’età del bronzo).
Bulgaria: montagne a NW di Sofia; depositi alluvionali si trovano nei fiumi della metà occidentale del paese e noti da epoche remote; altri si trovano presso le frontiere occidentali.
Russia: Urali; Altai.
Iran: parte occidentale.
ex Yugoslavia: sud della Serbia e in Bosnia; depositi alluvionali nel fiume Pek.
Grecia: Macedonia (già in antico); Salonicco; costa di Missolungi; Tracia, Attica (Laurion), Eubea meridionale, Cicladi (già in antico).
Italia: Alpi occidentali, centrali e centro occidentali; Appennino Ligure. Depositi secondari si hanno: Po, Dora Riparia e Baltea, Ticino, Tanaro, Adda e altri. I Salassi coltivavano oro presso la Dora Baltea mentre Plinio e Strabone ricordano estrazioni aurifere presso Vercellae e Victimulae.

Ad epoca romana (II-III d.C.) si datano i resti di impianti per l’estrazione dell’oro in località “la Bessa” a sud di Biella.

LA LAVORAZIONE
L’oro si trova spesso in lega con l’argento (elettro), quindi vennero elaborate tecniche nei vari periodi storici per poter separare i due metalli. Questo accadde in particolare con la coniazione delle monete. Una prima coniazione di monete si ha in area ionico-asiatica, con monete di elettro, datate alla fine del VII sec. a.C. Forse fu con Creso (metà VI a.C.) che si ebbe la prima organizzazione monetaria basata sulla coniazione in oro e argento, proprio per evitare oscillazioni di valore e contraffazioni che invece potevano accadere con l’elettro. Non a caso a Sardi si rinvenne un impianto per la raffinazione dell’oro mediante la cementazione, databile al VI a.C. L’oro (in pagliuzze con monete d’elettro rifuse) veniva posto in un vaso di terracotta alternato con strati di cosiddetto “cemento”: sale comune (cloruro di sodio) e materiale siliceo (mattone polverizzato ad esempio) e posto in una fornace quadrata. Per vari giorni era sottoposto a temperatura elevata, ma non tale da far fondere l’oro: ci voleva lungo tempo affinché tutto l’argento si trasformasse in cloruro d’argento e passasse dal metallo al “cemento”. Infine l’oro, lavato veniva fuso mentre l’argento lo si recuperava per coppellazione (vedi Argento). Nel procedimento erano essenziali i sali, l’aria garantita dalla porosità del vaso, l’idrogeno (fornito dal vapore acqueo che si otteneva dall’impiego di legno come combustibile) e l’alluminio o silice (polvere di mattoni) al fine di consentire l’assorbimento dei sali d’argento prodottisi. Il procedimento era ancora in uso in epoca rinascimentale. Agricola (De Re Metallica, 1556) ne descrive anche un altro ove il cemento oltre che dalla polvere di mattone era composto anche da “vitriol” (per lo più solfato di ferro) e salnitro (nitrato di potassio). Ma già Plinio e Diodoro Siculo davano ricette per la ‘cementazione’. Il primo consiglia di scaldare l’oro in un crogiuolo fittile con sale e calcopiriti, poi con sale e allume (simile alla ricetta fornita dal papiro X di Leida). Diodoro invece (rifacendosi al geografo greco Agatarchide di Cnido, II a.C.) riporta un metodo egizio che consisteva nel riporre nella fornace per 5 gg. e notti un vaso di terracotta sigillato con all’interno oro, piombo, sale, stagno e crusca d’orzo. Sistema efficace in quanto rifattosi in tempi recenti in alcuni esperimenti a dato oro puro oltre al 93%. Un sistema per migliorare qualitativamente la lavorazione dell’oro, abbassare il suo punto di fusione ed aumentare i suoi pregi estetici era l’alligazione con argento e rame. Tale combinazione poteva essere sia binaria (Au+Ag o Au+Cu) oppure ternaria (Au+Ag+Cu). Nel primo caso la lega aveva un colore biancastro, nel secondo caso tendente al rosso; nella lega ternaria dipende invece dalle quantità di ciascun componente. Bisogna sottolineare che la maggiore o minore presenza di rame, ben più dell’argento, contribuisce ad abbassare il punto di fusione dell’oro (5% di rame porta dai 1063° dell’oro puro a 1000°; il 20% sino a 890°). Non solo. Ma incide anche sulla duttilità e malleabilità dell’oro. Gioielli con alto contenuto di rame erano diffusi nell’Egitto del Nuovo Regno come anche nell’oro dell’Irlanda preistorica. Dal I millennio a.C. invece nell’oro mediterraneo l’uso della lega rame-oro diviene più raro se non per controbilanciare il chiarore dell’elettro. L’argento invece, in lega con l’oro, è presente sino all’età ellenistica e decadde in epoca romana ove prevalse l’uso dell’oro puro. Le leghe tornarono in uso nell’Europa medievale e nell’Oriente islamico.

L’ORO NELL’ANTICHITA’
Bulgaria: sepolcreto di Varna (Eneolitico antico metà V mill. a.C.) oggetti in oro (oltre 3.000) fusi in lamine sottili e poi martellato e rifinito con sabbia e cenere di legno; Vicino Oriente: prima metà del III millennio a.C., oro martellato: Levante, Mesopotamia, Egitto, in quest’ultimo si ha oro con rame, quindi era già nota la tecnica dell’alligazione (periodo pre e protodinastico); Ur (periodo protodinastico); Montenegro: Mala Gruda (III mill. a.C. inizi) armi in oro; Egeo: nel III millennio si hanno scarse attestazioni a eccezione di alcuni corredi da Levante e Creta; Micene, Tirino, Vaphià, Dendra (età del bronzo); Cecoslovacchia e Isole Britanniche: oggetti databili al 2.600-2.100 a.C.; Francia e Penisola Iberica: Neolitico finale e Calcolitico antico soprattutto nel Mezzogiorno per la Francia; per la seconda in contesti della II metà del III mill. concentrati nel sud e s-w, pochi i reperti datati al periodo del bicchiere campaniforme; Turchia: Troia, corredi databili fra la metà e il terzo quarto del III millennio; Italia; Vivara (Bronzo Medio Iniziale); VII sec. a.C. (I metà) Etruria, Campania e Lazio ricca produzione da parte dell’aristocrazia indigena. In Etruria si sviluppa la granulazione; Asia Minore; Lidia (VII a.C.) prima coniazione di monete.

PIOMBO (simbolo Pb)
Peso specifico fuso 11,6; punto di fusione 332°-334°; temperatura di ebollizione 1040°. Il piombo metallico è di colore grigio-bluastro; poco tenace, molto malleabile: fragile vicino al suo punto di fusione. Mediocre conduttore di calore e di elettricità. E’ attaccato dall’acido nitrico. I suoi composti sono velenosi.
Esposto all’azione dell’aria umida si ossida rapidamente ma solo in superficie. Resiste meno all’azione corrosiva dell’acqua distillata che non a quella potabile o di fiume e ciò perché, sotto l’azione dell’acqua e dell’ossigeno atmosferico, si forma idrato di piombo abbastanza solubile nell’acqua, mentre nell’acqua impura, contenente ioni dell’acido solforico e dell’acido carbonico, si formano i sali di piombo di detti acidi i quali a loro volta essendo insolubili, formano uno strato aderente al piombo. Il piombo allo stato nativo è estremamente raro (si segnala solo in alcune miniere della Svezia e degli Stati Uniti). Si trova assai diffuso in natura, specialmente allo stato di solfuro o galena (PbS); lo si trova anche allo stato di carbonato e di solfato. Tuttavia pur essendo semplice la procedura per ottenere piombo dalla galena, ciò che si ottiene è un prodotto abbastanza impuro. Per ottenere un buon prodotto si aggiungono fluidificanti che eliminano i resti della ganga; le temperature si aggirano tra i 1100°-1200°.

GIACIMENTI NEL MONDO ANTICO
Europa: Italia (Sardegna), Spagna (Linares), Francia (Cevennes); Grecia (isola di Antiparo).
LA LAVORAZIONE Uno dei primi resti di un sistema per estrazione del piombo si è rinvenuto in Gran Bretagna a Scarcliffe Park, in una villa tardoromana. Consisteva in una semplice recinzione di pietre rettangolare pavimentata e aperta sulla fronte, larga e profonda una ventina di centimetri. La struttura forse conteneva un fuoco di legna e il piombo fuso colava attraverso l’apertura sul davanti. Agricola, in età rinascimentale, descrive il metodo di produzione in cui si collocava direttamente il minerale piombifero frantumato in blocchi sul fuoco.
IL PIOMBO NELL’ANTICHITA’ Anatolia: Çatal Hüyük, in contesti databili intorno al 7.200-6.500 a.C.; Vicino Oriente: Iraq (Yarim Tepe, Arpachiyeq), Iran (Anau, Hissar III), Libano (Biblos), Egitto (Naqada): databili fra il VI e il IV mill. a.C.; Egeo: Cicladi: III mill. a.C.; Anatolia: Troia II g (Bronzo antico); Italia: Sardegna, in contesti eneolitici; Vivara (Bronzo medio); Lazio (Casale Nuovo) Bronzo tardo; Portogallo: tarda età del bronzo; Britannia: età romana (manufatti in peltro: lega bassofondente di piombo e stagno); Spagna: età romana.

RAME (simbolo Cu)
Proprietà fisiche – Metallo rossastro della densità di 8,8 (8,790 alla fusione) e con un punto di fusione verso i 1100°. Punto di ebollizione 2100°. Metallo duttile, malleabile, tenace e buon conduttore del calore e dell’elettricità. Tuttavia piccole quantità di impurità esercitano una grandissima influenza sulla sua composizione finale e sulle sue proprietà. Colato troppo caldo produce delle soffiature. Per colarlo in lingotti e per evitare le soffiature si aggiunge, prima di colarlo, il 2% di magnesio metallico. Il magnesio (densità 1,75; punto di fusione 759°-800°) di tutti i metalli è quello che ha più affinità con l’ossigeno. E’ quindi il miglior riducente o diossidante nella fusione delle diverse leghe contenenti rame, nichel, stagno, alluminio, zinco, piombo, ecc. Per uso fonderia con il rame conviene il magnesio in forma di bacchette. Questo agisce non solo quale riducente dell’ossidulo di rame, ma forma altresì dei composti con le impurità contenute nel rame stesso, che restano così eliminate sotto forma di scorie con miglioramento delle qualità meccaniche del metallo (resistenza, allungamento). Già in antico si comprese che per migliorare le qualità del rame bisognava aggiungere degli elementi quali l’arsenico e il fosforo che non potevano essere isolati nell’antichità, è probabile quindi che si adoperassero minerali arsenicati (solfuro o arseniuro) o fosforosi. Proprietà chimiche: l’umidità dell’aria forma una patina superficiale, chiamata di bronzo antico, di idrocarbonato di rame. Gli acidi accelerano l’alterazione del rame: l’acido solforico lo attacca a caldo; l’acido nitrico lo attacca a freddo. L’ammoniaca determina l’ossidazione del rame al contatto dell’aria. Se il rame viene riscaldato al contatto dell’aria, prima si ricopre di uno strato rosso, poi nero. Molto plastico il rame si incrudisce rapidamente alla martellatura, divenendo fragile (incrudimento), per cui deve essere ricotto, cioè riscaldato al fine di ottenere la ricristallizzazione e la riduzione delle tensioni interne al materiale, annullando gli effetti dell’incrudimento.

MINIERE:
Giacimenti attuali: Nord America (Lago Superiore), Spagna (Huelva), Germania (Mannsfeld), Austria (Mitterberg), Urali ( Perm), Turchia (Ergani Maden), Italia (Toscana). Giacimenti antichi:
Penisola Iberica (Huelva, Asturie), età pre-protostorica; Sotiel Coronada, Turdetania (Huelva) età romana.
Baleari (Maiorca e Minorca) età pre-protostorica.
Sardegna (Nurra, Inglesiente, Arburese, Fluminese, Sarrabus, Sulcis, Gerrei, Barbagia) età nuragica; Barbagia di Seulò, presso Gadoni (Nuoro) indizi per l’età protostorica.
Penisola italiana: Alpi orientali (mineralizzazioni cuprifere o calcopirite) per l’età Eneolitica
- età del Bronzo; Liguria (miniera di Libiola presso Sestri Levante) II metà IV millennio a.C.; Toscana (Colline Metallifere: miniere di Pontieri, Campiglia e Massa Marittima) dall’età pre-protostorica, etrusca, medievale e moderna); Appennino Tosco-Emiliano; Calabria (Acquaformosa – Cosenza, Temesa omerica?); Sicilia (Monti Peloritani) età protostorica.
Francia (Provenza, Vosgi, Lionese, Massiccio Centrale, Armonica, Pirenei) coltivazioni plurimillenarie. In particolare nei Pirenei (Seronais – Ariège) età romana sia a cielo aperto che in galleria; (Linguadoca) dal Calcolitico all’età gallo-romana.
Isole Britanniche (Cornovaglia) con filoni di rame e stagno associati; (Devonshire, Derby, Cumberland, Galles) età pre-protostorica sia a cielo aperto che in galleria.
Irlanda (Cork) pozzi di età preistorica.
Germania (Turingia, Sassonia, Baden-Wüttenberg, Assia, Baviera, Franconia, Vestfalia, Renania) quest’ultima già scavata dai romani.
Austria (Alpi Tirolesi, Salisburghese, Stiria, Carinzia) nel Salisburghese sono note dall’età del bronzo.
Europa centro-orientale (Slesia, Banato); (Balcani) sin dal V mill. a.C.; (Serbia) dalla fine del Neolitico Balcanico; (Bulgaria meridionale e sud-orientale) leggermente successivi.
Egeo (Continentali costituiti da solfuri per lo più calcopiriti; Cicladi e Creta da ossidi e carbonati).
Cipro (minerale primario da piriti, calcopiriti e sfaleriti; secondario da solfuri, ossidi e solfati, rari sono carbonati e silicati) dal Calcolitico, età del bronzo, fenici, Tolemaico, romano.
Turchia (area Nord-Orientale) da questa zona e precisamente dalla miniera di Ergani Maden sembra provenire il rame per i primi strumenti prodotti dall’uomo con questo minerale.
Caucaso (Georgia, Armenia, Azerbaigian).
Iran (Veshnoveh) sin dal 3.200 a.C.
Sinai sin dal IV mill. a.C. alla tarda età romana.

STORIA DELL’ATTIVITA’ ESTRATTIVA DEL RAME
La prima comparsa di oggetti in rame si ha fra l’8.400 e il 7.500 a.C. (Neolitico aceramico) dal sito di Çayönü Tepesi (Anatolia sud-orientale). Fatti con rame nativo mostrano segni di ricristallizzazione (ricottura) il che porta a supporre che l’artigiano avesse intuito che il processo di ricottura ovviasse alla fratturazione del pezzo sottoposto alla martellatura. Altri principali siti ove è attestata una produzione di oggetti in rame:
Mesopotamia: (Tell Magzaliya) oggetti databili fra l’8.000 e il 7.500 a.C. con rame proveniente probabilmente dall’Iran centrale.
Anatolia: (Çatal Hüyük, VI strato) frammento vetrificato di scoria di lavorazione datato al 6.500 a.C.
Europa Orientale: Romania (Balomir) oggetti databili al Neolitico antico locale (5.900-5.300 a.C.); Ungheria (Vidra) IV mill. a.C. (facies Karanovo III-IV, 5.300-4.700 a.C.) e Calcolitico.
Egeo: (Dikili Tash, Sitagroi) fine IV mill. a.C.
Italia: i primi esempi si hanno nella I metà del IV mill. a.C., Eneolitico (Italia settentrionale, centrale, meridionale e insulare); Toscana: sfruttamento di giacimenti (Eneolitico-prima età del Bronzo.
Francia: prime attestazioni al Neolitico recente (II metà del IV mill. 3.500/3.200 a.C.); dal Neolitico finale (3.200-2.900 a.C.) si sviluppa pienamente la metallurgia.
Spagna: Neolitico (El Garcel – Antas in provincia di Almeria). Nel corso del III mill. si diffonde ovunque l’uso del rame arsenicate (rame + arsenico in proporzioni variabili) che permette una più fluida colata e di realizzare, tramite la martellatura a freddo, oggetti più duri. In età classica venne adoperato soprattutto per la monetazione in Atene di fine V a.C. (per i monetali bassi) che in età imperiale romana (asse e quadrante). In generale il rame non ebbe un grande utilizzo se non in lega per il bronzo. Allo stato naturale venne utilizzato in impieghi particolari come i chiodi: in particolare nella carpenteria navale, anche per altri elementi (anche in epoca moderna e contemporanea) per la sua buona resistenza all’erosione della salsedine marina. In età moderna e contemporanea oltre che in associazione con altri elementi il rame verrà utilizzato anche puro o con piccoli percentuali di altri elementi per la sua buona conduzione del calore (resistenze) e dell’elettricità (impianti elettrici): da questo punto di vista supera tutti i metalli usuali ed è perciò adoperato in grandissime quantità nell’elettrotecnica.

ESTRAZIONE E LAVORAZIONE
Il rame nativo esiste in piccole quantità e sotto questa forma venne utilizzato in antico. I minerali si rinvenivano sotto forma di ossidi, solfuri o carbonati. La lavorazione avveniva con crogioli d’argilla immersi in carbone di legna e l’estrazione del minerale di rame poteva ottenersi da:
-Malachite 90% di rame metallico
-Solfuri 50% di rame metallico L’uso di vasi forno, larghe scodelle di terracotta ben documentati in area iberica in siti pre¬protostorici, permetteva l’impiego di tecniche non scorificanti. Nel III mill. Nel Vicino Oriente si adoperarono forni più evolute che facevano fuoriuscire le scorie, grazie anche all’uso di sostanze fluidificanti (o scorificanti). Sostanze (come arsenico e fosforo) che ebbero un largo uso durante l’Età del Bronzo attraverso una serie di complesse fasi di arrostimento del minerale ed estrazione (fusione o riduzione), che dai solfuri cupriferi portavano alla metallina, poi al rame nero che necessitava di ulteriori raffinazioni.

PROCEDIMENTI DI ESTRAZIONE DEL RAME DAL MINERALE NATIVO
-Fornace > Ossidi/Carbonati + Legna (Calore) > Metallo + Scoria + Gas > Fusione
-Arrostimento > Solfuri + Legna (Calore) > Ossido + Gas (Arsenico/Antimonio/Bismuto) > Fusione
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METALLI E LEGHE METALLICHE 2/2

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STAGNO (simbolo Sn)
Peso specifico: 7,3; punto di fusione: 228°. Metallo bianco argenteo non volatile, malleabile e poco tenace. Caratteristico è il suo scricchiolio che aumenta col grado di purezza: fenomeno questo dovuto alla sua struttura cristallina. La superficie metallica si conserva inalterata alla temperatura ordinaria: l’azione contemporanea dell’aria e dell’acqua, non ha su di essa che una debolissima azione. Lo stagno è raro in natura e lo si rinviene solo sotto forma di cassiterite (SnO2) o biossido di stagno, o di sannite. Fu comunque la cassiterite il minerale che in antico venne conosciuto come stagno. Come l’oro anche lo stagno si presenta in forma primaria e secondaria:
- primaria: all’interno di graniti, raramente la cassiterite si presenta pura ed è quindi necessario separarla mediante triturazione e lavaggi successivi; tuttavia permangono sempre tracce di ferro, piombo, tungsteno, rame, bismuto;
- secondaria: in terreni alluvionali sotto forma di ammassi granulari più o meno compatti, dall’apparenza di ciottoli o con struttura fibrosa; di solito molto pura in quanto gli altri componenti si sono depositati durante il trasporto; probabilmente sono stati i depositi più sfruttati in antico cercando la cassiterite che ottenevano per lavaggio (come l’oro) sfruttandone l’alto peso specifico. La cassiterite presenta varie tonalità: dal bruno nerastro o giallastro al grigio, al rossastro sino al bianco a secondo delle sostanze con la quale è associata (tipo ossido ferrino e manganico). Attualmente si estrae in Spagna, Inghilterra, Boemia, Cina, Perù, Bolivia, Australia.

GIACIMENTI NEL MONDO ANTICO
Italia: Toscana (Cento Camerelle, Colline Metallifere, Monte Rombolo ecc.), Isola d’Elba; Sardegna (Fluminimaggiore a sud del golfo di Oristano, Monte Mannu, Muzzioli Nieddu, ecc.; -Isole Britanniche: Isole Scylli (forse da identificare con le Isole Cassiteriti di Erodoto), Cornovaglia (identificata da Didoro Siculo come luogo d’origine dello stagno), Davonshire (dall’età del bronzo al Medioevo);
Francia: Bretagna; cave Ploërmel (Morbihan) sfruttati sin dall’età pre-protostorica; Abbaretz-Nozays (sin dall’età del bronzo all’epoca gallo-romana); Limosino; Bourbonnais; distretto dell’Allier;
Germania e Boemia: Monti Metalliferi; Ehrenfriedersdorf; Erzgebirge; miniera a cielo aperto di Altemberg (dall’età del bronzo al Medioevo);
Penisola iberica: dalla Galizia all’Estremadura; Guadalquivir o Ria de Huelva da identificare con Tartessos (la Tarshis del profeta Ezechiele); Lusitania del Nord-Est (Strabone su notizia di Posidonio e Plinio che ricorda anche la Galizia); Murcia; l’attività estrattiva spagnola si esplica sin dall’età pre-protostorica;
Turchia: Kestel, nella regione dei Monti Tauri; collina di Göltepe;
Iran: corsi d’acqua dell’Azerbaigian; regine del lago Sistan (segnalata anche da Stradone);
Afganistan: zona centro-meridionale, fra Qandahàr e il fiume Arghandàs; zona occidentale, fra i confini iraniani del Sistan sino a Herat; forse era proprio dall’Afganistan che proveniva lo stagno che riforniva il Vicino Oriente;
India: distretto di Bihar nel Nord-Est del paese;
Siberia occidentale: regione dei Monti Altai (sfruttate già dal XIV al III sec. a.C.).

LA LAVORAZIONE
Lo stagno si ottiene dalla cassiterite e pani di stagno rinvenuti in siti antichi attestano la possibilità di estrazione e lavorazione di questo metallo. Lingotti di stagno di epoca protostorica si sono rinvenuti nel porto di Haifa, nei relitti di Hof ha-Carmel (Haifa), di Capo Celidonia e Uu Burun in Turchia e di Domu de S’orku (Oristano) in Sardegna. Tale metallo veniva già prodotto e commercializzato dalla metà del II millennio a.C.

LE LEGHE
Le leghe si possono ottenere in due modi: 1° combinando nella stessa fusione i vari metalli che si vogliono unire; 2° riunendo i metalli a due a due per ottenere la lega definitiva più completa, avendo già ottenute le prime combinazioni. E’ da preferire il secondo metodo in quanto nel effettuare la fusione di un metallo si deve sempre cominciare dal metallo di più alto punto di fusibilità sino a quello con punto più basso. Per evitare fenomeni della liquazione (ritiro) bisogna ottenere un raffreddamento rapido della lega appena colata nella forma: un raffreddamento troppo lento comporta una cristallizzazione che produce una minore omogeneità della lega. La colata della lega dovrà essere sempre fluida e calda; si otterrà così un raffreddamento in migliori condizioni di una lega colata poco calda e pastosa.

BRONZO
Peso specifico 8.45/9.20 (bronzo comune); temperatura di fusione 900°.
Il bronzo, lega di stagno e rame, sino all’avvento dell’età del ferro, è stato uno dei materiali più importanti in quanto con esso si costruivano sia oggetti di uso quotidiano che armi ed oggetti di culto. La monetazione romano-italica ebbe una grossa prevalenza di questa lega a differenza degli altri paesi. Proprio l’importanza di questa lega determinò la costante ricerca di fonti di approvvigionamento dello stagno, una materia prima importante data la sua rarità. Ciò portò alla creazione di una rete di traffici soprattutto verso gli stati orientali che ne erano sforniti, in particolare nel II millennio a.C. Gli scarsi rinvenimenti di lingotti di stagno porta a supporre sia un uso di stagno metallico che di cassiterite. Tuttavia almeno per la penisola italiana i rinvenimenti in siti protostorici sardi che romani portano a far pensare ad una prevalenza dell’uso di stagno metallico (lingotti) come alligante.
Le percentuali di rame e stagno determinato più o meno la durezza della lega e sono variate nel corso dei secoli a secondo dell’uso che se ne è fatto. Il sistema più semplice per ottenere bronzo era di fondere insieme rame e stagno oppure aggiungendo cassiterite al rame fuso. Si poteva ottenere la stessa lega sia mescolando minerali di rame e stagno o minerale di rame e cassiterite. Oppure, in tempi moderni fondere prima il rame e poi aggiungere lo stagno, avendo l’accortezza di fondere rapidamente il rame in modo da evitarne l’ossidazione. Lo stagno a sua volta viene riscaldato quasi alla sua temperatura di fusione prima di introdurlo nel rame, per evitare il raffreddamento di quest’ultimo. Lo stagno aggiunto al rame abbassa il punto di fusione di quest’ultimo migliorando la fluidità della colata e le caratteristiche meccaniche come malleabilità e tenacità. In asce dell’età del bronzo i tenori di stagno erano fra 9,3 e 10,8%; con valori superiori al 13% di stagno il bronzo diviene duro ed è difficile lavorarlo. Attorno al 20-30% di stagno il bronzo ha una particolare sonorità e vengono utilizzati nella produzione delle campane. Con l’aumentare o meno delle percentuali dei due elementi varia il colore della lega dal rosso al bianco: a partire dal 50% fra i due elementi le leghe sono bianche. Queste leghe offrono scarsa malleabilità: infatti le leghe che contengono il 98% di rame si lavorano bene a freddo ed a caldo; ma quelle che contengono meno del 90% di rame non sopportano la lavorazione meccanica. Questi bronzi, i cosiddetti “bronzi bianchi” con un tenore di stagno intorno al 22-24%, sono attestati nell’Iran del primo periodo islamico e vennero forgiati ad alta temperatura temprandoli in acqua fredda. Proprio per le caratteristiche di questa lega, varianti nelle percentuali di alligazione degli elementi, il bronzo ha avuta un’ampia diffusione sino in tempi relativamente recenti.
Agli inizi del ‘900 i bronzi si suddividevano in: bronzi per costruzioni meccaniche; per cannoni; per campane; per specchi; per statue. Questi erano considerati bronzi comuni, in quanto vi era anche una categoria di bronzi speciali cioè alligati con un terzo elemento che dava caratteristiche diverse alla lega: bronzi al piombo; al piombo e nickel; al fosforo; al manganese; al silicio; all’alluminio.

ELETTRO (vedi ORO)

OTTONE
Peso specifico (ottone fuso) 8.48; temperatura di fusione 1015°.
L’ottone è una lega di rame e zinco che presenta una durezza maggiore di quella del rame. Malleabile, con un punto di fusione meno elevato del rame, si lavora molto bene e resiste più del rame agli agenti atmosferici. In antico era improbabile che producessero ottone dalla fusione di rame e zinco dato che lo zinco ha un punto di fusione più basso rispetto al rame, per cui la maggior parte dello zinco tende ad evaporare. Solo con le tecniche moderne si è potuto ottenere questa lega per fusione. Il sistema che quindi si adoperava in antico era la cementazione, sin dalla fine del I millennio a.C., impiegando direttamente i minerali zinciferi. Il procedimento consisteva nel porre in un crogiolo chiuso carbonato (calamina) od ossido di zinco e rame macinati, insieme a polvere di carbone. Riscaldando il tutto ad una temperatura fra i 917 (ebollizione dello zinco) e i 1083° (fusione del rame) si ottenevano vapori di zinco che diffondendosi nel rame davano l’ottone con una percentuale di zinco del 28% circa. L’introduzione dell’ottone (oricalco) diffusamente avviene con il processo della cementazione solo intorno al II – I sec. a.C.. Tuttavia uno dei pezzi più antichi risale al XIII sec. a.C. (Ugarit). Tenuto in gran pregio sia nella Grecia classica che preclassica, l’ottone si ritrova sul territorio italiano intorno al VII sec. a.C. per poi diffondersi in epoca romana soprattutto in età augustea. Con la caduta dell’impero romano l’ottone mantenne la sua diffusione anzi sostituendo il bronzo dato che si persero le province produttrici di stagno. Durante il periodo medievale, soprattutto con i Carolingi, l’ottone mantenne la sua diffusione soprattutto per gli apparati decorativi liturgici. In età moderna e contemporanea l’ottone ha trovato larga applicazione nell’industria con particolari varianti nella composizione della lega a secondo dei suoi usi (soprattutto nel campo delle costruzioni navali): ottoni speciali (al piombo, all’alluminio, al ferro).

TECNICHE DI LAVORAZIONE
Fusione: matrice, cera perduta Martellatura Imbutitura: su tornio Filatura: sei sistemi di filatura Giunzione: ripiegatura, ribattini, saldatura (brasatura [dolce, forte], autogena) Damaschinatura

TECNICHE DI DECORAZIONE
Martellatura Cesellatura Sbalzo Repoussè Stampaggio Smaltatura: cloisonnè, plique-a-jour, champlevè, basse-taille, smalti dipinti, smalti incrostanti Niello Intarsio: agemina Patinatura Doratura: giuntura meccanica, a mercurio

TECNICHE ORAFE
Godronatura Filigrana Granulazione: a pulviscolo, saldatura colloidale

TECNICHE DI LAVORAZIONE

Fusione

A MATRICE
Il metallo fuso veniva colato in una matrice ove solidificandosi si otteneva l’oggetto voluto. In pratica nella matrice (realizzata in argilla, pietra (spesso steatite), impasto a base di sabbia o lega di rame) veniva riprodotto in negativo l’oggetto. La matrice doveva comunque avere un punto di fusione più elevato rispetto al metallo gettato. Le matrici potevano essere:
-univalve o a un pezzo solo o aperto: in questo tipo l’oggetto usciva con superficie piatta che doveva essere successivamente martellato per fargli ottenere una forma simmetrica.
Venivano probabilmente coperte con un’altra pietra piatta per evitare una eccessiva ossidazione del getto;
-bivalve: realizzata in due o più elementi scomponibili in cui veniva colato il metallo fuso ottenendo così oggetti a tutto tondo. Volendo ottenere cavità nel getto di fusione (come nelle immanicature a cannone) si poneva un’”anima”, ossia pezzi di refrattario nella matrice posizionati in modo da ottenere il vuoto nel punto desiderato. La tecnica della matrice scomponibile in più elementi si sviluppò nell’età del bronzo. Il metallo fuso veniva colato nella matrice che era posta verticalmente o leggermente inclinata. Per permettere la fuoriuscita dei gas, che potevano creare porosità nel metallo, venivano creati degli appositi cataletti. Una volta raffreddato il getto, si apriva la matrice e l’oggetto ottenuto veniva rifinito e ribattuto. Operazione quest’ultima che oltre a incrudire il metallo dava all’oggetto la forma definitiva.

A CERA PERDUTA
Tecnica adoperata soprattutto per piccoli oggetti e nell’oreficeria, ove era richiesta una particolare finezza. Il metodo consisteva nel modellare l’oggetto in cera malleabile applicandovi sopra bastoncini di cera (o di sambuco che si inceneriva al calore) in modo da realizzare canali di scolo per la cera fusa e un canale per la colata del metallo fuso e la fuoriuscita dei gas. Il modello in cera viene poi ricoperto da uno strato fine e fluido di materiale refrattario (argilla mista ad altra sostanza come corno bruciato, sterco ecc.) che riproduce in negativo l’oggetto. Si aggiungono altri strati sempre più grossolani e resistenti, sino ad inglobare il modello in cera in una forma. Questa una volta induritasi la si poneva in una fornace che faceva sciogliere la cera (da cui il nome di “cera perduta”). Nella cavità ottenuta si colava il metallo fuso che una volta raffreddato si rompeva la forma ottenendo così l’oggetto. Ultima fase era la sua rifinitura superficiale. Lo stampo poteva essere adoperato solo una volta. Questa tecnica, detta anche “tecnica diretta piena”, era per lo più adoperata in oreficeria e nei piccoli bronzetti. Per ottenere invece oggetti cavi, come nella grande statuaria, la cera veniva spalmata su un’anima in terracotta, porosa per assorbire i gas che si sviluppavano durante la fusione. Per evitare che l’anima si spostasse durante la fusione per la scomparsa della cera, si infiggevano nell’anima chiodi metallici sporgenti (distanziatori) che trapassavano anche lo strato di cera. Il tutto poi si ricopriva con terra di fusione (tecnica diretta cava). Un’altra tecnica era quella c.d. “tecnica indiretta”, ove da un originale si ricavava una matrice negativa in gesso o terra, a due o più valve. In questa matrice si versava la cera fusa che solidificatasi permetteva di ottenere un modello in cera che ritoccato si utilizzava per la fusione (tecnica indiretta piena). Per ottenere una fusione cava l’interno di una matrice veniva ricoperto da uno strato di cera e poi si inseriva nella cavità terra di fusione (tecnica indiretta cava). Questo sistema (l’indiretta) consentiva di salvare la matrice. La tecnica della “cera perduta” si utilizza sin dal III millennio nella oreficeria medio orientale diffondendosi poi tramite Cipro e la Sardegna (XII sec. a.C.) nel bacino occidentale del Mediterraneo (in Etruria ove fra la fine dell’età del ferro e l’orientalizzante antico si innestò sulla matrice villanoviana). Tale tecnica venne adoperata ampiamente nel mondo greco e romano, sin da prima del VI sec. a.C., nell’ambito dei grandi bronzi.

MARTELLATURA
Tecnica che partendo da una lamina permetteva di realizzare del vasellame per deformazione plastica, sfruttando la duttilità del metallo. Era già nota dal III millennio a.C. nel vicino oriente. Con una mazza si appiattiva (a freddo) un massello di metallo o minerale grezzo. Il disco che si otteneva veniva posto su una superficie piana o concava e martellato. Per forme più complesse il disco veniva posto sul braccio piatto dell’incudine o su un paletto, martellandolo tutt’intorno dall’esterno e ruotando progressivamente. In ambedue i casi il pezzo doveva essere ricotto per ridurre la fragilità del metallo causata dal martellamento, soprattutto se si trattava di oro, argento o rame. Si realizzava riscaldando e raffreddando lentamente il metallo per aumentarne la duttilità.

IMBUTITURA
tale tecnica si basava sull’uso del tornio per produrre vasi metallici e venne adoperata raramente prima del IV sec. a.C., più frequentemente in età ellenistica. La lamina veniva fissata alla matrice precedentemente fissata al tornio e fatta girare. Con appositi strumenti si effettuava la compressione sino a far aderire completamente la lamina alla matrice. Il tornio poteva essere adoperato anche per cancellare le tracce di martellatura.

FILATURA
I metodi adoperati in antico per produrre fili sono sostanzialmente sei:
1 – Martellamento di un tondino di metallo al quale si riduce progressivamente il diametro cercando di mantenerlo quanto più possibile circolare. La superficie si presenta sfaccettata e può venire regolarizzata nel caso di metalli morbidi (come l’oro puro) rotolando il filo fra due superfici dure e piatte. Tuttavia il diametro non sarà mai uniforme. Adoperato dall’età protostorica al Medioevo.
2 – Martellando si produce una verga a sezione quadrangolare che poi veniva torta sino a farle incontrare gli spigoli. Le costolature elicoidali si potevano eliminare per rotolamento o lasciate a scopo decorativo. I fili realizzati con questa tecnica presentano uno spessore abbastanza regolare ed hanno sulla superficie quattro solcature elicoidali indipendenti. Adoperata dall’età protostorica al Medioevo.
3 – Per lo più adoperata con metalli duttili come l’oro, questa tecnica nella torcitura di una striscia di lamina sui lati corti, producendone la deformazione plastica. Si otteneva così un filo pieno con due solchi elicoidali. Utilizzata comunemente dagli orafi etruschi.
4 – Una striscia di lamina veniva accartocciata facendone accostare i bordi facendola passare attraverso una serie di fori sempre più piccoli, avendone appuntito previamente le estremità. A differenza della trafilatura il filo non subisce un effettivo allungamento. Il diametro è alquanto omogeneo e la superficie presenta una linea di sutura per lo più elicoidale. Tecnica che si riscontra in alcuni manufatti egiziani ma probabilmente diffusa anche nell’Europa della tarda età del bronzo, se alcune lamine in rame con fori si possono interpretare come “protofiliere”.
5 – Simile alla precedente tecnica solo che per una maggiore regolarità la lamina veniva ritorta attorno ad un filo (anche di tessuto) poi eliminato. Si otteneva così la cavità interna. Il prodotto finale era pressato fra due superfici piatte e lisce oppure fatto passare attraverso fori.
Tecnica adoperata per i ricami in oro anche dagli etruschi.
6 – La lamina veniva piegata al centro per dargli una sezione a C mediante martellatura e arrotolamento. Sulla appare un solco longitudinale che in sezione penetra verso l’interno. Tecnica adoperata per i manufatti cretesi dell’età del bronzo.

Giunzione a ripiegatura:
gli orli di due lamine metalliche venivano ripiegate insieme e martellate al fine di ottenere una maggiore compattezza e presa delle componenti. a ribattitura: gli orli di due lamine venivano sovrapposti e forati. Nei fori venivano inseriti i rivetti e ribattuti con martellatura a freddo. Generalmente i rivetti sin dalla preistoria erano prodotti in materiale più malleabile rispetto all’oggetto da giuntare. Adoperata già ad Ur nel 2.500 a.C., nei vasi metallici micenei, in Italia meridionale in contesti del bronzo medio iniziale.

Saldatura
Collega due parti in modo permanente. La saldatura si distingue in due categorie:
-brasatura: nella quale il saldante (un metallo o una lega) viene colato fra due parti da unire e lasciato solidificare;
-autogena: sono gli stessi metalli da collegare che partecipano al processo di saldatura; La brasatura a sua volta poteva essere dolce o forte:
-dolce: realizzata con leghe bassofondenti (-400°) tipiche dello stagno-piombo. Meccanicamente non sopporta sforzi elevati e si applica su superfici abbastanza ampie.
-forte: realizzata con leghe altofondenti (+400°), generalmente di rame, argento e ottone. E’ robusta e richiede una piccola superficie. Una particolare brasatura al rame è la “saldatura colloidale” impiegata nell’oreficeria antica per lavori a granulazione e in filigrana. Per evitare la formazione di una patina di ossidazione sul metallo in presenza di aria, che interferirebbe con i processi di saldatura, si applica una sostanza: il fondente. Tale sostanza applicata sulle parti da saldare le tiene pulite e isolate dall’ossigeno. A tale scopo si usa il borace o il cloruro di zinco. Entrambe le tecniche di brasatura erano già utilizzate nel vicino oriente dalla prima metà del III millennio a.C.. Mentre quella forte incontrò una vasta diffusione, soprattutto per i metalli preziosi, la dolce si utilizzò in particolare in età greco-romana.
La saldatura autogena invece è la giunzione di pezzi di metallo previo riscaldamento e trattamento meccanico senza aggiunta di altri materiali. In antico una particolare saldatura autogena era la “bollitura”. I metalli venivano portati al “calor bianco” (stato pastoso) nella parte da saldare con il fuoco della forgia. Venivano poi giuntati per pressione o martellamento. Usata soprattutto per il ferro (1350°C) sin dal XIV sec. a.C. dagli egiziani.

DAMASCHINATURA
E’ la tecnica che prevede, tramite la “bollitura”, l’unione di lamine di ferro con diversi livelli di carburazione, quindi diverse per durezza e fragilità. Si otteneva così una struttura complessa, a strati, in ferro accidioso, molto resistente ma elastica, ideale per lame. I diversi metalli conferivano anche un bel aspetto morezzato all’oggetto, molto apprezzato. Tale tecnica si osserva già presso gli egizi intorno al 900 – 800 a.C.. In Italia è attestata in Etruria dal IV – III a.C.. In Europa centrale dal III d.C. ma ebbe un’ampia diffusione fra il V e il VII d.C. nell’alto Medioevo. Il nome deriva da Damasco che con la conquista araba divenne un grosso centro di diffusione verso l’occidente.

TECNICHE DI DECORAZIONE

Martellatura:
serie di sfaccettature decorative ottenute tramite colpi di martello a file sovrapposte.

Cesellatura:
incisione di un motivo sulla superficie superiore di un oggetto metallico. Il cesello dal taglio a chiglia di barca, smussato, veniva battuto in maniera leggera e regolare con apposito martello così da lasciare per compressione un solco continuo e uniforme. Notevolmente evoluto con gli Etruschi.

Sbalzo:
il foglio di metallo era lavorato dal retro in modo che i rilievi si ottenessero sul davanti. Rispetto al cesello gli strumenti erano ancora più smusati.

Repoussè:
il disegno viene sbalzato dal retro dell’oggetto e poi rifinito a cesello. Già molto noto ad Ur nella prima metà del III millennio a.C., nella toreutica minoica, nell’Italia settentrionale preromana, nell’Europa Hallstattiana.

Stampaggio:
si imprimeva sul retro della superficie metallica, spesso una lamina, una o più immagini pigiando la lamina dentro o sopra una forma. Oppure utilizzando un punzone che riproduceva sulla testa il modello. Raramente avveniva lo stampaggio sula davanti, incavando l’immagine (conio). Diffuso nella gioielleria antica.

Smaltatura:
tecnica che decora oggetti metallici con vetri colorati. Le basi potevano essere l’oro o l’elettro, talvolta l’argento; il bronzo venne adoperato nella gioielleria romano-celtica, il bronzo dorato nel Medioevo. Nota già ai Sumeri, Egizi, fu solo in età micenea, nel XV sec. a.C., che appaiono gli smalti direttamente fusi sul pezzo. Sia presso i Greci (V-IV sec.) che presso gli Etruschi (VI-V sec.) questa tecnica venne usata con parsimonia come anche presso i Romani. Con i Bizantini invece ebbe una straordinaria fioritura. La base vetrosa degli smalti (fondente), trasparente e quasi incolore, è composta da una miscela: silice o sabbia (ca. 50%), minio (ossido di piombo) (ca. 35%), potassa (carbonato di potassio) o soda (carbonato di sodio) (ca. 15%) fusi insieme. Il colore si ottiene aggiungendo al fondente fuso ossidi metallici (2-3% della misura totale) e mescolando. Raffreddato lo smalto viene frantumato e macinato in acqua. Le polveri colorate vengono applicate sul metallo e scaldato in fornace ove, sciogliendosi, divengono una solida e aderente pellicola vetrosa. Gli smalti dipinti tuttavia non
entrano in uso che in età rinascimentale e prevedono l’applicazione di diversi strati di smalto ogni volta passati in forno e ricoperti poi da uno strato di smalto trasparente. Sempre rinascimentali sono pure gli smalti incrostanti utilizzati soprattutto per arricchire una superficie irregolare. A sua volta l’applicazione dello smalto sul metallo può avvenire in vari modi: a cloisonnè: (diviso da cellette) le polvere vetrosa viene applicata all’interno di cellette in filo metallico predisposte sull’oggetto. Adoperata già dagli orafi micenei del XV sec. a.C., in ambito greco e magno-greco. Ampiamente utilizzato dagli artisti bizantini tra il VI e il XII sec., questa tecnica venne adoperata in tutto il Mediterraneo sino all’età romanica e oltre; a plique-à-jour: in questa tecnica manca la base metallica per cui le aperture sono totalmente riempite di smalto trasparente e lucido. Venne utilizzata soprattutto tra il XIV e il XVI sec.; a champlevè: (scanalato) in questa tecnica la lamina metallica viene incisa, scanalata o intaccata con acidi e tali cavità vengono riempite con smalti sino a livello della parte non incisa che in genere ha un fondo dorato. Utilizzata in età romana, soprattutto in area occidentale per ornamenti bronzei. Ebbe un particolare sviluppo anche nel XII e XIII sec.; a basse-taille: la base metallica è lavorata a bassissimo rilievo con il cesello. In questo modo le variazioni di profondità delle incisioni, ricoperte da smalto trasparente, producono differenti sfumature cromatiche. Venne soprattutto utilizzata in età gotica in Francia e Italia.

Niello:
in questa tecnica al posto dello smalto vetroso si adoperano uno o più solfuri metallici, ottenendo una sostanza nera che veniva colata in cavità predisposte su base metallica generalmente in oro o argento. Nota già in età micenea, i età classica la si otteneva ponendola nelle cavità sotto forma di polvere, che dopo un leggero riscaldamento diveniva plastica e quindi facilmente lavorabile. Nell’XI sec. la composizione del niello cambiò trasformandosi in un miscela di zolfo, rame, piombo e un poco d’argento.

Intarsio:
è la tecnica di inserire in un vano ricavato in un metallo pezzi di materiale differente (pietre dure, conchiglie, coralli ecc.)al fine di ottenere effetti policromici. L’agemina invece, pur appartenendo alla categoria degli intarsi, è prodotta dalla contrapposizione di metalli diversi, cioè è una lamina che si pone negli incavi ricavati su un’altra lamina. Tecnica già nota in Egitto, nell’Egeo del II millennio, dalle popolazioni micenee sin dal XVI sec.
a.C. In età classica nella statuaria e a Roma, in particolare nel vasellame.

Patinatura:
è l’alterazione voluta dello strato superficiale del metallo sia con il calore che con agenti chimici. E’ difficile capire se in antico gli oggetti in metallo subissero una patinatura dato che di per sé i metalli in natura tendono a ricoprirsi di una patina. Tecniche erano comunque note in età classica e romana (bronzo A di Riace, frammento bronzeo di Volubilis, bronzo da Salamina) ma anche nel Giappone del XII sec. d.C. Tuttavia era già nota in Egitto dalla XVIII dinastia, nella Grecia del II millennio. In epoca romana andò in voga il “Corinthium aes” una lega affine allo “shakudo” giapponese, di oro e argento. In pratica sulla base delle percentuali dei metalli e della loro quantità si otteneva la patina voluta.

Doratura:
si hanno due sistemi: il primo era di battere l’oro in sottili lamine da applicare sull’oggetto; il secondo era l’applicazione a caldo dell’oro tramite il mercurio. Il primo sistema era già noto in Siria dal 3.000 a.C. ma anche in età classica nella statuaria. A volte i due metalli venivano martellati insieme e poi ricotti (Etruschi). Il secondo sistema invece si applica o spolverando di mercurio la superficie sulla quale poi si metteva la foglia d’oro oppure oro amalgamato col mercurio, spalmato e poi sottoponendo l’oggetto al calore, ottenendo così la doratura per evaporazione del mercurio. Questa tecnica sembra apparire già nel IV sec. a.C. in Grecia (Vergina), in età ellenistica, e diviene comune nel II-III d.C. In Cina appare nel IV-III a.C.

TECNICHE ORAFE

Godronatura:
tecnica che consisteva nel porre i fili sotto una piastra scanalata e farli rotolare sul piano, ottenendo così le scanalature. Queste potevano dar luogo a vari tipi di ornato. Nota già dalla metà del II millennio in Anatolia, si sviluppò e perfezionò in Egitto dal Nuovo Regno, Cipro micenea e nel VI a.C. in Etruria, Tracia e Iran. Trovò impiego nell’oreficeria classica ed ellenistica della Grecia e in misura minore a Roma. Intorno al X sec. d.C. con l’introduzione delle filiere questa tecnica decadde.

Filigrana:
tecnica basata sulla saldatura di fili metallici (anche ritorti) sopra una superficie preziosa, per ottenere un motivo decorativo, a volte associato alla granulazione. I primi esempi si hanno a Ur dalla metà del III millennio. Ebbe un notevole sviluppo in Etruria e a Roma. Ottenne un notevole successo nel Medioevo.

Granulazione:
consiste nel saldare su una superficie metallica delle sfere di diametro variabile, in genere pochi mm. I grani, in oro ma con esempi anche in argento, venivano disposti su file dritte o curvilinee in modo da realizzare complessi disegni. Le prime attestazioni risalgono alla metà del III millennio (Ur, 2.500 a.C.); da qui si espande tramite la Siria e l’Anatolia verso Troia (metà e III quarto del III millennio a.C.). Gioielli a granulazione si sono rinvenuti anche in tombe del Medio Regno in Egitto. Nell’Egeo si ritrovano a Micene nel circolo A delle Tombe (metà XVI sec. a.C.) ma soprattutto nel XV sec.. I fenicio-punici ne fecero un ampio uso diffondendolo nelle colonie occidentali (VII sec. a.C.) e in Etruria sin dalla metà dell’VIII sec. a.C. ove si diffuse la “granulazione a pulviscolo” cioè minutissimi grani applicati sulla superficie metallica. Diffusa in età ellenistica decadde in età romana sia come produzione che come raffinatezza. Si ritrova nell’Islam del VII sec. d.C. e nell’Europa medievale del IX e del X. Con l’età moderna cadde in disuso e venne riscoperta solo nel 1920. Le sferette si ricavavano da ritagli di metallo o frammenti di filo fusi in modo da assumere la forma sferica per la tensione superficiale. Tramite collanti organici (gelatine di pesce o vegetali) misti a sali di rame venivano posti sulla superficie realizzando il disegno e lasciando l’oggetto ad asciugare. Posto poi sul fuoco di carbone di legno il collante si scioglieva lasciando che i sali di rame mutassero in una lega bassofondente (890°) di oro e rame. I sali impiegati erano per lo più la malachite, l’azzurrite, la cuprite, il solfato di rame. L’antica tecnica della “chrysocolla” (colla d’oro) indicava sia la malachite che il verderame.

BIBLIOGRAFIA
L. Mugnani “Manuale pratico di fonderia” (Milano, 1928) ICCROM “Ancient metals – Metaux anciens” (Roma, 1980) AA.VV. “Catalogo del deposito di Brolio in Val di Chiana” Museo Archeologico di Firenze (Roma, 1981) AA.VV. “L’Etruria mineraria” catalogo della mostra (Milano, 1985) AA.VV. “Avant les Celtes – L’Europe a L’age du Bronze. 2500-800 A.C.” (Daoulas-Brest, 1988)
G. Giorgerini “Da Matapan al Golfo Persico – La Marina militare italiana dal fascismo alla repubblica” (Milano, 1989)
C. Giardino “I metalli nel mondo antico” (Bari, 1998)
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"Articolo estrapolato dalla rivista FOCUS STORIA - gennaio 2009"

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AGRICOLTURA

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Appunti

TECNICHE AGRICOLE

Sistema dei due campi: Con questo metodo, in ogni momento, metà del terreno agricolo di un villaggio era coltivato mentre l'altra metà era a riposo. Di solito il periodo di riposo durava un anno. Ogni contadino aveva appezzamenti di terra in entrambe le parti. Una parte della terra era coltivata con cereali invernali, come il grano e la segale, l'altra con prodotti primaverili come piselli, fagioli e orzo. Esistevano però variazioni locali a questo sistema, soprattutto dove la terra era eccezionalmente fertile e veniva invece usato un sistema biennale.

Sistema dei tre campi: Con questo metodo, in ogni momento, due terzi del terreno agricolo di un villaggio era coltivato mentre l'altra terzo era a riposo. Di solito il periodo di riposo durava un anno. Ogni contadino aveva appezzamenti di terra in tutte e tre le parti. Una parte della terra era coltivata con cereali invernali, come il grano e la segale, l'altra con prodotti primaverili come piselli, fagioli e orzo.

Aratura: Questo metodo prevedeva la spianatura del terreno dopo averlo dissodato. Grazie a questa tecnica i semi venivano piantati a maggiore profondità, ed erano quindi protetti dalle piogge e dal vento; gli agricoltori poterono inoltre seminare a maggior velocità.

Miglioramento del suolo: Era una combinazione di molte tecniche quali la fertilizzazione, la regolare aratura e l'irrigazione fluviale; migliorava la terra e quindi aumentava notevolmente la produzione agricola.

Eliminazione delle radici: Questo metodo prevedeva l'uso di erpici sempre più grandi e più pesanti per penetrare nel suolo a maggior profondità, e l'uso di vanghe, bidenti e asce per tagliare le radici degli alberi, che sottraevano al suolo acqua e nutrimento. Questo trattamento rendeva inoltre la terra più facile da arare e lavorare.

ATTREZZATURE AGRICOLE

Aratri di legno: Questi attrezzi, fatti di legno, erano gli strumenti più importanti dell'agricoltura medievale. L'aratura permetteva agli agricoltori di seminare i loro raccolti molto più velocemente e facilmente.

Aratri di legno rinforzati: Agli aratri erano applicati vomeri di ferro, che aravano il suolo molto più in profondità e non venivano facilmente bloccati dalle radici. Erano decisamente superiori ai vecchi aratri di legno.

Aratri di ferro: L'intero aratro era fatto di ferro. Questi aratri duravano molto più a lungo ed erano notevolmente più efficienti di quelli di legno.

Forconi ed erpici: Questi attrezzi rendevano più facile superare i passaggi più difficili nei campi, in modo che gli agricoltori potessero arare una maggiore quantità di terra.

Collari da traino imbottiti: Lo sviluppo del collare da traino imbottito, che posa sulle spalle del cavallo e a cui il carico è attaccato con le stanghe, rappresentò una rivoluzione nell'agricoltura. I cavalli, con la loro grande forza, apportavano maggiore efficienza all'agricoltura, ma erano anche un enorme investimento, forse paragonabile all'acquisto di un trattore al giorno d'oggi.

Ruota a vento: Una ruota dotata di vele per permettere al vento di far funzionare il mulino. Il mulino poteva così macinare i semi e trasformarli in farina senza bisogno di un faticoso lavoro manuale.

Ruota ad acqua: Una ruota dotata di pale immerse in un fiume veloce, la cui corrente faceva funzionare il mulino. Il mulino poteva così macinare i semi e trasformarli in farina senza bisogno di un faticoso lavoro manuale.

L'ARATRO
Nei terreni più difficilmente coltivabili a causa dell'umidità presente nel nord Europa in quel periodo, fece la sua comparsa l'aratro a ruote, detto anche aratro pesante, strumento utilizzato prima solamente in legno, poi con parti in metallo che permettevano di rivoltare le zolle di terra mentre veniva subito tracciato il solco nel terreno, rendendo quindi inutile di nuovo il procedimento della vangatura.
Questo attrezzo era apprezzato in quanto munito di ruote,velocizzava il lavoro e grazie alle parti in metallo più pesanti, arava il terreno più profondamente di quello fatto solo in legno.
L'unico inconveniente era che doveva essere trainato da animali forti e robusti non sempre presenti nei bestiami (fino a sei capi).
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TECNOLOGIA: MULINI A VENTO

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"Articolo estrapolato dalla rivista MEDIOEVO - giugno 2011"

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FOSSE DA GRANO

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FOSSE DA GRANO di Flavio Russo

GIÀ NEL MEDIOEVO, IN PUGLIA - STORICAMENTE CONSIDERATA IL “GRANAIO D’ITALIA” - LA PRODUZIONE DI FRUMENTO DOVEVA ESSERE ABBONDANTE. E PER PRESERVARE QUESTA PREZIOSA RICCHEZZA ALIMENTARE SI PROGETTARONO GRANDI FOSSE SOTTERRANEE, IN GRADO DI GARANTIRE LA CONSERVAZIONE DEI CHICCHI ANCHE PER PERIODI MOLTO LUNGHI

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I primi agricoltori compresero presto che il raccolto di un campo scemava arino dopo anno, ma che bastava
seminare in terreni limitrofi mai coltivati per ottenere nuovamente una produzione di pari entità. Nell’antichità non si avevano conoscenze sufficienti per spiegare le cause del fenomeno, ma questo non impedì di escogitare e applicare il rimedio giusto ed efficace, definito oggi fertilizzazione o concimazione. Operazione che consiste nel reintegrare l’humus delle sostanze nutritive di cui le specie vegetali necessitano per lo sviluppo.
Il frumento (Triticum vulgare), cereale che è alla base della civiltà, richiede preminentemente azoto, fosforo e potassio. Per il cosiddetto grano duro, Triticum turgidum, più ricco di proteine, come per il tenero, Tnticum aestivum, sono sufficienti il fosforo e il potassio naturalmente presenti nei terreni argilloso-calcarei o sabbiosi, tanto più che il secondo, concentrandosi negli steli, vi ritorna dopo la loro combustione. In definitiva, quindi, in quei particolari suoli sarebbero occorsi solo concimi azotati, che l’esperienza individuò nella rotazione di idonee colture e, soprattutto, nello spargimento di letame o di deiezioni organiche, conseguenti al pascolo delle pecore.

IL PUNTO D’ARRIVO DELLA TRANSUMANZA
Quest’ultimo caso è reputato il migliore poiché l’azoto è ceduto lentamente, fertilizzando l’humus progressivamente, secondo le esigenze della crescita. Pertanto terreni del genere, aridi e caldi, adibiti a pascolo e a coltivazioni azotanti secondo cicli biennali e triennali, si confermano ottimali per il grano duro. Tale connotazione si instaurò sull’intero Tavoliere, oltre 3000 km2, grazie alla pratica della transumanza a partire dal XII secolo, e raggiunse il suo massimo sviluppo dopo l’istituzione della Dogana della mena delle pecore a Foggia, nel 1447, quando milioni di pecore venivano condotte nella piana pugliese e vi trascorrevano l’inverno brucandone l’erba e, defecando, ne rigeneravano la fertilità.
Il paesaggio ne uscì sconvolto, sacrificato all’enorme profitto pastorale-cerealicolo, al punto che difficilmente Federico II avrebbe potuto riconoscervi la praecipua amoenitas della sua amata Capitanata, con le sue grandi foreste e i vasti acquitrini ridotti a interminabili e brulle distese. Ma i raccolti crebbero a tal punto da far definire il Tavoliere il granaio d’Italia e ancora oggi, la maggior parte dei circa 7 milioni di tonnellate di frumento, prodotti annualmente nel nostro Paese, proviene dalla provincia di Foggia.

UNA TRADIZIONE MILLENARIA
Nel XIII secolo il quantitativo doveva essere nettamente inferiore, ma certamente eccedeva di gran lunga le esigenze alimentari di Foggia, Lucera, Manfredonia, San Severo e Cerignola, innescando perciò un fondo mercato. Occorreva, però, trovare il modo di stoccare in maniera ottimale quelle montagne di frumento, cioè disporre di un sistema affidabile di insilamento, capace di garantire la perfetta conservazione e, soprattutto, la salvaguardia da furti, umani e animali. E la soluzione, con buona probabilità, venne dalla trasmissione del patrimonio di esperienze accumulato, proprio nel Tavoliere, dai primi agricoltori della regione. Come hanno infatti dimostrato le molte ricerche condotte nel secondo dopoguerra, questa zona della Puglia fu densamente occupata da comunità neolitiche che dotarono i propri villaggi (come per esempio quelli in località Passo di Corvo o Masseria Aquilone) di strutture ipogee scavate nella roccia calcarea, il cui uso è almeno in parte riconducibile allo stoccaggio dei cereali.
Plinio [XVIII, 73, 3061, trattando della coltivazione del frumento accenna anche ai modi usati per conservarlo e, tra tutti, a suo parere il più vantaggioso consiste nel «porli in quelle fosse che chiamano “siros” [da cui silo], come in Cappadocia, in Tracia, in Spagna e in Africa. Prima di tutto ci si preoccupa di scavarle in un terreno secco, poi di ricoprirne il fondo con uno strato di paglia; i frumenti peraltro vi vengono conservati ancora in spiga. Cosi se nessun soffio d’aria giunge fino al grano, è certo che non vi si genera niente di nocivo. Il tritico cosi riposto secondo Varrone dura 50 anni». In quelle stesse regioni dell’impero bizantino è verosimile che le fosse da grano descritte da Plinio, e prima ancora da Varrone, si fossero moltiplicate nel Medioevo, stimolandone l’adozione anche in altre province. Capitanata, emblematicamente, è la deformazione per metatesi di Catepanato, appunto una provincia dell’impero bizantino, che comprendeva tra le sue città San Severo, Lucera, Foggia, Manfredonia e Cerignola, spazzata via per sempre dai Normanni alla metà del XII seco lo Nel frattempo, fosse siffatte avevano trovato nella geologia del Tavoliere e nell’entità della produzione cerealicola gl’ideali presupposti per l’adozione su vasta scala, con lievi modifiche dettate dal clima.

OGNI GOCCIA DI VAPORE
In linea di larga massima, una fossa da grano consiste in uno scavo tronco conico, con la base maggiore, dai 4 ai 6 m di diametro, posta a una profondità non superiore agli 8 m, con una bocca circolare di circa i m, corrispondenti a un volume massimo di 400 mc. Un «trullo sotterraneo», capace di contenere fra i 400 e 11100 q di frumento, corrispondenti a loro volta a circa 150 mc. La fossa doveva essere assolutamente asciutta, e fu perciò realizzata in modo di riuscire ad assorbire anche le piccole quantità di vapore acqueo emesse dalla tra spirazione dei chicchi fino alla completa maturazione.
Nessun problema per umidità da risalita o da in- filtrazione, la prima assente per la profondità della falda e la seconda intercettata dalla perfetta tenuta della bocca, che, per giunta, insisteva su un tamburo di mattonacci, particolarmente assorbenti. Questi, innalzati su un’apposita riseca dello scavo, fornivano l’appoggio al dispositivo di chiusura, complesso per quanto rozzo, che andava a insistere su un cubo di muratura come una sorta di mastra quadrata, realizzata con cordoli di pietra, aventi all’interno un piccolo aggetto. Su questo si disponevano due file incrociate di tavoloni di quercia, sormontate da un’approssimata piramide di terra battuta, resa impermeabile. Al centro di un lato, all’esterno, si ergeva un cippo alto 60-70 cm, con inciso il monogramma o il numero corrispondente al proprietario della fossa.

DALLA NUDA ROCCIA ALL’INTONACATURA
Le fosse più antiche non avevano all’interno alcun rivestimento, in quanto la saldezza del terreno argilloso garantiva la resistenza inalterata negli anni. In epoca successiva, però, s’iniziò a intonacarle, utilizzando malte a base di calce, capaci anche di una discreta assorbenza. Pure il fondo della fossa era intonacato, con una leggera concavità e al centro un pozzetto per evacuare l’acqua di pulizia, ed essendo proprio la pulizia del frumento il suo maggior pregio per la commercializzazione, si diffuse l’uso di foderare l’intonaco con fascelli di paglia.
Una camicia isolante e protettiva, realizzata a partire dallo strato di fondo, per ovvie ragioni più spesso, che contribuiva ad assorbire ogni residua umidità, manteneva l’ambiente della fossa assolutamente asciutto.
Il frumento, come evidenziato dalla differenza fra la sua cubatura e quella della fossa, non riempiva più della metà della struttura, lasciando perciò una grossa bolla d’aria, ermeticamente isolata. Nei giorni successivi all’insilamento, i chicchi, traspirando, esaurivano rapidamente l’ossigeno, trasformandolo in anidride carbonica, guardiano inflessibile e letale! Da quel momento, infatti, nessun essere vivente poteva più penetrare nella fossa: parassiti, roditori e ladri vi avrebbero trovato una rapida morte. Nell’ambiente reso asettico dalla C02, il frumento andava in quiescenza e poteva conservarsi a lungo: Plinio citando Varrone, parla di 50 anni e addirittura di 100 per il miglio!
Per svuotare la fossa si ricorreva a una apposita ed esperta categoria professionale: gli sfossatori, divisi in squadre guidate da un «caporale». Aperta la bocca, si procedeva ad arieggiarla, sventolandovi dentro, ma dall’esterno, sacchi di tela, per rimuovere l’anidride che, più pesante dell’aria, ristagnava pigramente sul frumento. Dopo 2 o 3 ore vi si calava una lanterna a olio: se la fiamma si spegneva significava che il gas era ancora presente; se restava accesa, invece, un uomo vi scendeva e avviava il prelievo.

LAPIDI PER LA... VITA
Nel corso dei secoli le fosse da grano si moltiplicarono a dismisura e, per facilitarne l’insilamento e lo svuota- mento, le si raggrupparono in ampi spiazzi periferici, definiti Piani delle Fosse, dei quali oggi sopravvive solo quello di Cerignola, con oltre 600 delle 1100 fosse originarie. A prima vista ricorda un cimitero militare abbandonato, con fosse tutte uguali e tutte munite di un identico cippo: ma sotto, fino a pochi anni fa, giaceva la risorsa più essenziale per la vita!
Dal punto di vista storico il primo documento che menziona, sia pur laconicamente, le fosse da grano di Cerignola risale al 1225: una donazione a favore dei Cavalieri Teutonici di Barletta di «unam domum (...) cum duabus foveis». La seconda menzione si ritrova nel 1308, ancora in una donazione, in cui si legge «in certis foveis in Cidiniole» e ancora «in diversis foveis in dicta terra Cidiniole». Ma si deve attendere il 1538 per rintracciare un esplicito riferimento al Piano di San Rocco o Piano delle Fosse, dinanzi la chiesa di San Domenico, già di San Rocco.
Le fosse da grano, sebbene abbiano conosciuto la massima adozione in Capitanata, risultano utilizzate anche in numerose altre regioni d’Italia, come nelle Marche e in Toscana, a partire significativamente sempre dal XIII secolo. Scriveva per esempio Pier de Crescenzi (Bologna 1233-1320), fra i maggiori agronomi medievali, nel suo Ruralium Commodorum libri XII, che: «alcuni altri fanno un pozzo e alle latera pongono paglia, e cosi di sotto, acciocché alcuno umore o aria non vi possa entrare, se non quando bisogna per usare». Anche Francesco di Giorgio nel suo trattato di architettura ricorda le fosse da grano, sostenendo che le abitazioni rurali avrebbero dovuto disporre di: «più fosse da grano per conservare il frumento secondo il bisogno».
Scriveva ancora, per precisarne in dettaglio le caratteristiche, che: «volendo conservare meglio el grano si vole fare una fossa come una cisterna di struttura o calcestruzzo, salda bene da ogni parte; lassando uno piccolo buso e turando poi quello con tavole e battuta terra, conserverà el frumento, posto ch’ella sia intorno armata di paglia secondo l’usanza. E cosi si manterrà molto meglio el frumento, perché non é possibile che el tufo o altro terreno non rendi superflua l’umidità per la quale si corrompe il frumento».
Le fosse da grano, tranne a Cerignola, sono quasi dappertutto scomparse, poiché un solo moderno silo può contenere oltre 7000 t di prodotto! Ma, saggiamente e forse in extremis, quelle ancora esistenti nella cittadina pugliese, gran parte dell’intero Piano delle Fosse, dal 5 luglio del 1989 sono sottoposte a vincolo tutelativo del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali ai sensi della legge 1089/39. Probabilmente tutte eviteranno la distruzione, ma difficilmente l’incuria, a differenza della cinquantina che ancora continuano a elargire la loro antica prestazione.
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L’AGRICOLTURA - IL COMMERCIO - LE MINIERE

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97. L’AGRICOLTURA - IL COMMERCIO - LE MINIERE

L'attività prevalente prima della fine del Medioevo era l'agricoltura, seguita dal commercio delle stesse derrate alimentari; gli si affiancò in un certa misura l'artigianato e l'industria. Poi - anche se non ancora sviluppata come nell'era moderna - a fare la parte del leone furono soprattutto le nascenti attività minerarie, anche se sfruttate In maniera del tuffo irrazionale.
L'agricoltura del tardo Medioevo è essenzialmente caratterizzata dal sistema delle concessioni di porzioni di terreno in affitto a contadini che le coltivavano per conto proprio; le grandi aziende agrarie dell'epoca precedente gestite direttamente dal proprietario sparirono, e dominarono più solo le piccole aziende condotte dai fittavoli.
Tuttavia, come é naturale, queste erano ancora variamente soggette all'Ingerenza del proprietario, sia nel senso che questi poteva imporre nel contratto di affitto al contadino determinati obblighi relativamente al genere e sistema di cultura, alla costruzione di opere, ecc., nel senso che le vecchie installazioni padronali, come mulini, forni, cantine, continuarono ad essere presenti ed il contadino che voleva servirsene nella propria azienda agraria doveva venare un corrispettivo per tali impianti, altrimenti avrebbe dovuti costruirne del nuovi, col rischio di essere tecnicamente meno perfetti. Anche Il bestiame per i lavori agricoli veniva tramite accordi di solito fornito dal proprietario. Quest’ultimo così oltre Il terreno, con gli impianti o con il bestiame percepiva non solo uno ma diversi affitti.
A parte questo i contadini erano però in sostanza autonomi nel regolare l'organizzazione della propria attività agricola, e tale proposito decidevano liberamente le assemblee con altri contadini confinanti su alcune decisioni, come le colture, le irrigazioni tramite comuni corsi d'acqua, i passaggi in servitù, un aiuto reciproco durante i raccolti, ecc.ecc.

Abbandonata così a sé stessa, l'industria agricola sembra in quest'epoca più libera; esteriormente però, mentre in realtà poggia su fondamenti molto deboli. L'organizzazione corporativa poi, se in qualche modo venne a compensare la mancanza della precedente unità di indirizzo padronale, fu un po' la causa della sua debolezza; essa provocò una fase di sviluppo di questa attività agricola molto inferiore a quella cittadina industriale; quella agricola già ostacolata da uno scarso spirito progressivo sempre presente nelle classi contadine, fece un danno a se stessa perchè sempre restia ad accogliere ogni tipo di innovazione, e sempre recalcitrante a fare debiti anche quando sono utili e necessari, soprattutto quando si tratta di acquistare nuove semenze ad alta resa.
È perciò che, nonostante che le città con i loro numerosi, svariati ed aumentati bisogni, con i loro mercati, ecc. costituissero un potente incentivo ad intensificare la produzione agricola, nonostante che il sorgere dell'economia monetaria offrisse per lo meno alle comunità contadine, se non ai singoli agricoltori, la possibilità di incentivare l'industria agricola mediante l'aiuto del capitale, il settore agricolo non ne approfittò e rimase in sostanza fino alla fine del Medioevo allo stesso stato in cui si trovava già nel XIII secolo, sotto l'aspetto tecnico come sotto l'aspetto economico.

Il sistema fondamentale seguito in quest'epoca nell'agricoltura (che è ancora lontanissima dal conoscere l'uso dei fertilizzanti) è quello del triplice avvicendamento della coltivazione; di regola si semina prima il maggese, poi la segala, poi l'avena. La segala era allora in Europa e soprattutto in Germania, il cereale più generalmente adibito alla comune panificazione ed aveva in gran parte sostituito l'avena che nei precedenti secoli era stata largamente usata per il consumo popolare; tuttavia l'avena anche nel tardo Medioevo continuò ad essere notevolmente impiegata per l'alimentazione delle classi lavoratrici oltre che come foraggio per gli animali.

Segna tuttavia un considerevole incremento anche la coltivazione del frumento, ed è soprattutto nelle città che col crescere del benessere economico vediamo aumentare la richiesta di pane di frumento.
Ma era quello che forniva il contadino un grano di bassa resa, e (per la già detta ritrosia a fare debiti) invece di migliorare la semenza con dei nuovi acquisti, riseminava una parte del suo precedente raccolto, cosicchè la bassa resa si perpetuava all'infinito.

L'orzo é coltivato in misura assai diversa nei diversi luoghi; in generale verso la fine del Medioevo si osserva una diminuzione nella sua produzione, dovuta forse in parte anch'essa al miglioramento dell'alimentazione popolare.
Per lo più del resto l'orzo era prevalentemente coltivato nei luoghi dove si esercitava in grande l'industria della fabbricazione della birra.
Nella produzione dei legumi la città concorre accanto alla campagna; ma col crescere della richiesta si cominciò a farne in campagna anche estese culture; troviamo infatti sempre più frequentemente menzionati i legumi tra le prestazioni in natura a titolo di fitti e censi.

Un ramo importantissimo dell'industria agricola, specialmente del tardo Medioevo, rappresenta la cultura della vite, la quale era tanto redditizia che sin dal XIII secolo i proprietari concessero ai loro fittavoli che vi si volevano dedicare considerevoli vantaggi economici, i quali, uniti agli altri che derivarono dalla più progredita tecnica nella coltivazione dei vigneti, fecero sì che questi agricoltori vennero a trovarsi in una condizione privilegiata a confronto degli altri contadini. Questo accadde in alcune regioni italiane e francesi, mentre già a inizio del XV secolo la cultura della vite decadde in Germania e si ridusse a proporzioni minori, avendo il vino ceduto il posto al consumo della birra. La coltivazione del luppolo, già prima molto diffusa nella Germania settentrionale, si estese in quest'epoca anche alla Germania meridionale e soppiantò, come in Baviera ed in Boemia, la cultura della vite. Solo nei territori lungo il corso del Reno, la vite già presente in epoca romana, oltre che continuare tale attività si specializzò anche nella coltura, ricavando pregiati vini.
Anche in materia di allevamento del bestiame l'industria in grande non é sulla fine del Medioevo così esclusiva come in precedenza, sebbene dove si hanno ancora grandi allevamenti, essi sono quasi sempre esercitati per gestione diretta del proprietario. Ciò vale in specie per gli allevamenti di cavalli di razza destinati a servire i cavalieri nelle loro battaglia; la rimanente produzione equina, assai spinta nel Medioevo per l'elevato fabbisogno di cavalli da lavoro, ricercatissimi, è curata invece prevalentemente dai contadini sui singoli fondi presi in fitto.
Anche nell'allevamento della pecora, che nel tardo Medioevo acquistò grande importanza a causa del considerevole sviluppo assunto dall'industria della fabbricazione dei panni, prevale come già vedemmo in Inghilterra; ma il sistema dell'allevamento estensivo da parte dei grandi proprietari terrieri, in questo settore manifesta tendenze monopolistiche, per quanto anche le città abbiano talora curato questo genere di industria come un ramo di servizio pubblico.
Con grave danno alla classica agricoltura, i grandi proprietari sottrassero per i pascoli ovini grandi territori, e dato che nell'allevamento di ovini sono pochi gli addetti impiegati rispetto alla normale agricoltura, causarono una drammatica disoccupazione e miseria nei piccoli villaggi.

Invece l'allevamento dei suini si svolge col metodo intensivo in prevalenza nelle stalle di piccole industrie agricole, anche perchè con lo sparire delle grandi foreste di querce, sostituite da conifere, venne sempre più a mancare la quantità di ghianda occorrente per l'allevamento di estese greggi di suini.

Oltre ai benefici delle accennate industrie accessorie d'allevamento, i contadini conservarono per lungo tempo ancora l'uso ed il godimento dei boschi comuni per trarne legna da ardere e legname da costruzione; esso era gratuito ed in sostanza illimitato. La comunità contadina esercitava in proposito un certo controllo allo scopo di evitare che il legname di qualità migliore, adatto alle costruzioni, fosse tagliato per legna da ardere, ecc., ed anche il signore feudale intervenne qua e là con restrizioni ed ostacoli; ma di una razionale economia forestale diretta alla conservazione dei boschi ed al rimboschimento metodico non si trovano che scarse tracce nel Medioevo. Salvo qualche eccezione, come in Italia, nelle valli di Fiamme e Fassa, dove sorse e continuò (e continua ancora ai nostri giorni) la "Magnifica Comunità" che regolamenta il rimboschimento, il taglio e la distribuzione ad ogni valligiano.

Invece era già allora arrivata ad un notevole grado di organizzazione e di perfezione tecnica l'apicultura; troviamo infatti così nelle grandi foreste demaniali di pertinenza dell'impero e dei sovrani territoriali, come nei boschi dei feudatari una classe di apicultori di professione residenti su poderi propri ereditati, o che pagavano cospicue imposte ai rispettivi signori sul reddito della loro industria. Del resto - non richiedendo essa grandi superfici - anche i piccoli agricoltori esercitavano talora l'allevamento delle api come una industria accessoria.

Grande sviluppo assunse inoltre nel Medioevo l'industria mineraria, specialmente in Germania, dove si cominciò presto e diligentemente a ricercare ed estrarre i copiosi tesori nascosti nel sottosuolo; l'esercizio di questa industria, all'inizio diretto da parte dei proprietari, passò poi quasi ovunque nelle mani di apposite corporazioni di minatori; ma rivelandosi sempre di più un prodotto strategico, ben presto passò nelle mani dei rispettivi governi.

Sulla fine del Medioevo troviamo persino una vera e propria grande industria mineraria esercitata da potenti società di capitalisti, che vi fecero guadagni colossali, ma rovinarono le miniere con lo sfruttamento ingordo ed irrazionale che ne fecero. Centri principali dell'estrazione dei metalli preziosi erano le regioni argentifere della Valtellina, del Trentino, della Stiria, dell'Harz, della Brisgovia e dell'Alsazia; miniere d'oro si avevano nella bassa Slesia e nel Salzburg; si aggiungano le ricche regioni minerarie delle montagne boeme, già sfruttate nell'antica epoca slava e poi più razionalmente dai tedeschi; in tempi più recenti i centri principali minerari di queste regioni erano i distretti di lglau e del Freiberg sassone. Qui ed altrove, oltre ai metalli preziosi, si estraeva rame e piombo; così pure in Boemia ed in Sassonia durante l'ultima epoca medioevale si scoprirono m1n1ere di stagno, metallo che sino allora era stato importato esclusivamente dall'Inghilterra.

Copiosissima era inoltre la quantità di ferro che la Germania estraeva e produceva e nel XIII e XIV secolo assunse uno sviluppo particolare la sua estrazione soprattutto nella Stiria e nella Carinzia, in Sassonia ed Annaberg, nella Vestfalia ed altrove.
Le prime miniere di carbone sorsero nei Paesi Bassi; ma dal 1300 cominciarono ad essere esercitate miniere di questo genere anche in Germania, come nei paesi renani, a Dortmund, ed Aquisgrana; dalla metà del XIV secolo vediamo il carbon fossile impiegato come combustibile sia per uso domestico, sia per l'estrazione del ferro nelle fonderie sempre più grandi e sempre più numerose.
L'industria mineraria tedesca - già millenaria - servì da modello ad altri paesi, che utilizzarono i tecnici minatori della Germania. È infatti un minatore tedesco che scoprì le miniere di metalli scozzesi ed insegnò agli scozzesi il modo di estrarli. Anche l'Inghilterra vera e propria, ancora ai suoi primi passi nell'arte mineraria nel 1452 fece venire minatori dalla Misnia, dall'Austria e dalla Boemia.
La Germania poi sulla fine del Medioevo in seguito allo sfruttamento intensivo ed in parte rovinoso delle sue miniere divenne assai ricca di metalli preziosi, il che contribuì assai ad accrescere le malsane abitudini di lusso di quest'epoca.

Quanto s'è detto per le miniere vale anche per le saline, il cui esercizio nel tardo Medioevo fu per lo più nelle mani di corporazioni apposite, che si trasformarono in imprese capitalistiche e spesso avocarono a sè anche il commercio del sale facendone un loro monopolio esclusivo. Tale furono quelle di Salisburgo (prese perfino il nome la città) con le sue miniere di salgemma, così ricche da far concorrenza a quelle marine dell'Adriatico.

Diamo ora uno sguardo all'industria cittadina. Già abbiamo visto come essa sia sorta e quali forme abbia assunto. Fra le corporazioni industriali il gruppo più importante per il numero degli organizzati é comunemente quello che attende alle industrie cosiddette annonarie: mugnai, fornai, birrai, macellai. Vengono dopo queste le industrie dell'abbigliamento: sarti, calzolai, pellicciai, ecc. Fiorentissima era nelle città marittime della Germania, ed in parte anche nelle città continentali, l'industria dei bottai; i suoi prodotti, che erano impiegati in misura non indifferente anche negli usi domestici, costituivano uno dei più importanti articoli di esportazione; le botti servivano per molti usi, per il trasporto di vino e birra, olio e miele, burro, strutto e sale, nonché colori, ceneri, catrame, pece e pesci. Nella sola città di Amburgo l'industria delle botti contava nel XV secolo circa duecento fabbricanti. Via mare raggiungevano tutti i porti d'Europa e da qui le numerose città.

Un particolare accenno meritano le industrie tessili a preferenza delle altre. Fra queste l'industria la fabbricazione della semplice tela ha il suo massimo sviluppo nell'alto Medioevo, nel quale mantenne soprattutto una forma di industria casalinga; non la incontriamo infatti organizzata corporativamente se non nel XIV e XV secolo, quando essa era già in via di decadenza o per lo meno aveva una importanza molto minore che non l'industria della fabbricazione delle stoffe in lana. Quest'ultima, la quale si trova per così dire alla testa di tutte le industrie medioevali, cominciò a sua volta a svilupparsi solo quando l'incremento del commercio delle stoffe venne a sollecitare la loro produzione. In seguito l'industria della lana, e quella da essa dipendente della fabbricazione dei panni, divenne, specialmente nelle fiandre e nella vicina Germania, uno dei principali rami d'attività dai quali traevano il proprio sostentamento le popolazioni cittadine.

La lavorazione della lana fece inoltre sorgere una serie di industrie diverse: quella dei battilana, della filatura, della follatura, della tosatura e della tintoria. I tessitori in lana sono all'inizio semplici operai dipendenti dai battilana; questi ultimi acquistano la lana greggia, la fanno cardare e filare (per lo più da donne) e poi provvedono alla tessitura mediante propri salariati o artigiani al loro domicilio.
Ma in seguito la classe numerosissima degli operai tessitori si emancipò dalla dipendenza dei battilana e costituì una classe industriale autonoma, senza che peraltro i singoli tessitori ne traessero maggiori vantaggi economici.
I tessitori restarono una classe povera e rappresentano perciò nel ceto artigiano un elemento turbativo che spesso vediamo alla testa dei moti popolari interni delle città.

Nessuna delle industrie però ha, specialmente in Germania, tenuta così alta la fama dell'industria medioevale quanto quella della lavorazione dei metalli; basta ricordare l'arte dei fabbri medioevali, i cui lavori in guarnizioni metalliche, cancellate, monili d'oro e d'argento, armature ed armi cavalleresche, destano ancora oggi la nostra ammirazione. Anche nel campo di questa industria avvenne una larga specializzazione che non mancò naturalmente di influire sulla maggiore perfezione dei manufatti; vediamo infatti differenziarsi quali industrie separate quelle degli orafi e degli argentieri, dei fabbricanti di cotte di maglia, di corazze, di scudi, di elmi e cuffie d'acciaio, di coltelli, cui più tardi si aggiungono i brunitori di armature e di lame, i fabbricanti di impugnature, i maniscalchi, fabbri ferrai, magnani, fabbricanti di speroni, ecc.

Mentre nell'industria artistica dei metalli eccellono Augusta, Monaco, Norimberga, le più famose fabbriche d'armi si incontrano a Regensburg, Norimberga, Nardlingen e nelle regioni renane (Solingen, che sforna speciali metalli che assomigliano già all'acciaio moderno), dove già nel Medioevo si hanno i primi segni di organizzazione di una grande industria. Nel XIV secolo poi spuntano i vari rami dell'industria della fonderia in ferro che insieme al bronzo serviva specialmente per la fabbricazione dei cannoni. In questo campo peraltro non si formarono le solite organizzazioni corporative, ma le città e più tardi anche i principi presero ai propri stipendi singoli armaioli per la costruzione delle artiglierie; a datare però dal XV secolo concorre a tale genere di produzione anche l'industria metallurgica privata.

Invece vediamo sorgere corporazioni di fonditori in stagno e di fonditori di campane, di fonditori in ottone ed in rame, le quali acquistano un grande sviluppo. Esse importavano le materie prime dall'estero, lo stagno dall'Inghilterra, il rame dalla Polonia e dall'Ungheria; ma i loro manufatti contribuirono in considerevole quantità alle esportazioni dalla Germania specialmente verso i paesi nordici.

Una distinzione netta fra mestiere ed arte, anche oggi spesse volte difficile a farsi, si riscontra ancor meno nel Medioevo, dove l'artigiano si eleva non di rado alla dignità di artista. Alla erezione delle grandi cattedrali e dei palazzi municipali del Medioevo, nonché alle ammirate decorazioni di molti edifici privati, ha concorso più la mano dell'artigiano che non la mano dell'artista; e pure noi attribuiamo il complesso dell'opera decisamente al regno dell'arte. Anche la pittura e l'incisione in legno ed in rame hanno le proprie origini nell'artigianato; coloro che esercitavano queste arti erano normalmente organizzati in corporazioni per lo più insieme con gli orafi.

Questi ultimi, che si erano staccati dalla vecchia corporazione dei coniatori di monete e continuavano ad avere un certo contatto con essa, formarono il primo nucleo cui si associarono pittori, decoratori e vetrai (decoratori di vetri), spesso anche intagliatori e battiloro, e finalmente gli stampatori.
Questo connubio si spiega con l'affinità della tecnica di siffatte varie industrie ed in parte anche col frequente bisogno di reciproco aiuto che esse avevano, ma é del resto un frutto naturale del comune carattere artistico loro inerente.

Anche l'arte della stampa, l'ultima arrivata fra le industrie cittadine medioevali e nel tempo stesso una delle più grandi scoperte dell'umanità è gloria della Germania, storicamente attratta in questo aggruppamento dal fatto che già da tempo gli orafi eseguivano incisioni su anelli, coppe, ecc., ed anzi avevano portato quest'arte ad un certo grado di perfezione nel riprodurre figure e motti o leggende. Lo stesso Giovanni di Gutenberg, nonché Fust, erano stati all'inizio orafi, ed alla stessa professione aveva appartenuto Alberto Durer, il più gran genio artistico che abbia prodotto la borghesia tedesca all'inizio dei tempi moderni.

Sviluppo assai considerevole aveva già raggiunto nel Medioevo il commercio internazionale. A tal riguardo fanno epoca le crociate che aprirono al traffico delle nazioni occidentali le vie dell'Oriente. Le masse di occidentali che penetrarono nel mondo arabo e vi si installarono servirono a mettere in molti luoghi in diretto contatto l'Occidente e l'Oriente, scalzando l'antecedente esclusivo intermediario dei loro rapporti, l'impero greco, il quale anzi per un certo tempo poté dirsi cancellato dal novero delle potenze ed anche dopo la sua restaurazione non riacquistò più l'antico vigore.

La parte del leone nel complesso del traffico mercantile mediterraneo toccò alle repubbliche marittime italiane, a Genova e Venezia, e all'inizio anche a Pisa, la quale però dopo la disfatta della Meloria (1289) si ecclissò dalla scena. La cessazione della sua concorrenza tornò a tutto vantaggio delle altre due repubbliche. Gli occidentali in seguito alle crociate appresero moltissime delle raffinatezze della vita orientale, ed il lusso del mondo arabo conquistò i suoi conquistatori.

Perciò ora incontriamo fra gli articoli di importazione in occidente il rabarbaro proveniente dall'Asia orientale, il muschio tibetano, il pepe, la cannella, la noce moscata, l'aloe, la canfora, l'avorio proveniente dall'India, i datteri arabi e libici, l'incenso d'Arabia, nonché frutta, oli, lane, zuccheri, sete, vetri, materie coloranti e molte altre merci orientali.

Nei nuovi stati cristiani fondati in Oriente Veneziani e Genovesi stabilirono ovunque (ad Antiochia, Haifa, Sidone, nonché a Gerusalemme) le loro agenzie (fondachi) e colonie mercantili, ottenendo molti privilegi, e soprattutto quello di essere soggetti alla giurisdizione nazionale.
In questi stabilimenti sorsero pure chiese che i veneziani dedicarono per lo più al patrono della loro città, all'evangelista S. Marco. La più ricca ed importante fra le colonie veneziane della Siria fu quella di Tiro, dove i veneziani occupavano un buon terzo della città con estese fabbriche e molte grandi chiese. Tiro ed Acri divennero ben presto centri principali dei grandi scambi tra occidente ed oriente. E all'inverso le piazze commerciali egiziane di Damietta e di Alessandria soprattutto.

Alessandria ci é addirittura indicata come «il pubblico mercato dei due mondi»; essa era il luogo di convegno delle merci provenienti dall'Arabia e dall'India per la via di Aden, dalla Mecca, dal Mar Nero e dal Nilo, e dei prodotti occidentali, specialmente legname e ferro che i mercanti italiani vi trasportavano con le loro navi.

Ma lo spirito d'impresa dei mercanti italiani non si arrestò alle porte dell'Oriente; arditamente essi penetrarono nel cuore delle regioni che erano incontestato dominio degli infedeli, senza curarsi della chiesa e del papato che aveva per principio vietato ogni traffico con costoro. Così troviamo specialmente Venezia in relazioni commerciali con i califfi residenti a Bagdad, città che continuava ad essere tuttora un grande emporio di tutte le merci asiatiche. Di qui queste merci prendevano la grande strada che conduceva ad Aleppo, che più tardi divenne una delle principali stazioni mercantili di Venezia, e poi per la via di Damasco o per la via di Antiochia raggiungevano l'occidente.

Così pure nell'interno dell'Asia Minore il sultano di lconio concesse ai Veneziani importanti privilegi mercantili allo stesso modo che essi li ottennero dal regno cristiano d'Armenia.
Molto più tardi troviamo gli occidentali in rapporti mercantili anche con i Tartari delle sponde settentrionali del Mar Nero. A Tana, l'odierna Azoff, esistevano numerose colonie ed agenzie commerciali europee. Però nell'anno 1397 la conquista della città da parte dei mongoli pose fine a questa penetrazione commerciale; i più fra i mercanti stranieri perdettero la vita o vennero venduti schiavi.
In compenso, sino alla conquista della città ad opera del sultano Maometto Il (1475), il commercio europeo fiorì a Caffa che ricevette il nome di «Costantinopoli della Crimea»; vi si commerciavano oltre le pelliccerie russe anche merci provenienti dalla Cina e dall'India.

La strada commerciale che da Caffa portava in Cina era molto frequentata anche da europei, al cui traffico i mongoli aprirono volentieri le porte del loro immenso impero; di modo che essi arrivarono sino in India ed in Cina. Questa stessa méta gli europei raggiunsero dalla loro fiorente stazione di Tabris in Persia; di qui essi passavano ad Ormuz dove si imbarcavano per l'India; da Ormuz partiva poi anche una strada che recava nell'Estremo Oriente.

Di fronte al bacino orientale del Mediterraneo su cui si aprivano le sterminate regioni asiatiche aveva una importanza commerciale relativamente assai minore il bacino occidentale e l'Africa settentrionale; tuttavia esso costituì il campo principale del commercio catalano. Il regno d'Aragona concluse nel 1274 col Marocco e nel 1285 con Tunisi trattati di amicizia e di commercio, in grazia dei quali il traffico della Catalogna e sopra tutto di Barcellona con gli stati del Marocco, di Fez e di Tunisi si intensificò molto nel XIV e XV secolo.
È per l'appunto questo traffico mercantile che portò i naviganti spagnoli alle scoperte da essi compiute lungo la costa occidentale dell'Africa, che inaugurarono l'era dei grandi viaggi marittimi e delle grandi scoperte dell'epoca moderna.

In Francia le crociate fruttarono una nuova era di prosperità principalmente alla vecchia città mercantile di Marsiglia. Per quasi duecento anni (prima e dopo le crociate) numerosissimi pellegrini vi affluirono per passare in Terra Santa; essa provvide poi al trasporto degli eserciti francesi e dei loro approvvigionamenti in Levante, ed in seguito ottenne dagli stati fondati dai cristiani in Oriente considerevoli privilegi commerciali che le assicurarono il monopolio di gran parte del traffico di scambio fra i prodotti della Francia ed i prodotti orientali.

Anche il porto di Alessandria fu periodicamente visitato da carovane di navi marsigliesi accanto a quelle della città di Lione e di altre città marittime della Francia. Al Cairo vi era un mercato francese speciale di stoffe; ma quanto al resto qui il commercio era per lo più tutto nelle mani degli italiani (in primis Venezia) la cui attività nel traffico marittimo superava in generale di gran lunga quella dei francesi.

Invece la Francia rimase per lungo tempo alla testa delle altre nazioni nel campo del commercio continentale europeo. Dalla metà del XII al principio del XIV secolo nelle fiere della Champagne si concentrò infatti quasi tutto il traffico delle mercanzie e del denaro in occidente. Vi contribuì la circostanza che la Champagne si trova sulla linea di comunicazione tra l'Italia e l'Inghilterra, e che anche dal Mediterraneo e dall'occidente vi dovevano naturalmente avviare il commercio le agevoli vie costituite dal Rodano e dalla Senna. Vi concorse pure il fatto che anche politicamente la Champagne godeva di una posizione privilegiata; essa confinava immediatamente con l'impero germanico e poteva comunicare da nord e da sud con l'estero attraverso la Lorena e la regione arelatense senza dipendere dalla Francia.

Finalmente i signori del paese, i conti di Champagne, posero ogni impegno a conservarsi la fiducia dei mercanti stranieri. Le prime "fiere" si tenevano a Troyes sul corso superiore della Senna, a Bar sull'Aube, a Provins nella regione di Brie ed a Lagny sulla Marna; erano sei fiere annuali che si susseguivano quasi senza intervallo nell'una o nell'altra di queste località e duravano press'a poco tutto l'anno. Ad esse affluivano i mercanti da ogni parte dell'occidente europeo.
I fiamminghi che con altre città del nord della Francia e del Brabante avevano costituito la lega delle 14 città che andava - anche sotto il nome di
«Hansa fiamminga», inaugurarono appunto nelle fiere della Champagne il loro commercio delle stoffe.
In misura non minore queste fiere erano frequentate dagli italiani; fin dal 1245 vi troviamo una società dei commercianti romani, toscani e lombardi, che aveva un proprio sigillo e manteneva pure un ben organizzato servizio di corrieri con l'Italia.

I mercanti tedeschi possedevano a Troyes un fondaco, dove vendevano i loro tessuti di tela; a Provins ed a Bar sappiamo che vi era una via dei Tedeschi; fra gli articoli del commercio tedesco troviamo ricordati, oltre ai tessuti di tela, panni grigi di lana, pelli di scoiattolo e l'argento delle miniere di Freiberg. Persino i paesi nordici d'Europa non erano assenti dalle fiere della Champagne.

I loro splendore però cominciò ad oscurarsi nel XIV secolo, allorché da un lato la Germania si emancipò da esse mettendosi in relazioni commerciali dirette con gli altri paesi, e dall'altro la navigazione italiana intensificò il suo traffico con i mercati olandesi ed inglesi. Anche i signori della Champagne con alcune loro ordinanze intralcianti il libero traffico contribuirono alla decadenza delle fiere, ed infine le lunghe guerre tra l'Inghilterra e la Francia arrecarono come é naturale un grave colpo.
Più tardi salì ancora ad una certa importanza la fiera di Lione, ma essa non riuscì ad agguagliare l'importanza universale che avevano avuto le fiere della Champagne. Essa fu piuttosto ereditata dalle fiere ginevrine. Qui al confluente di tre nazioni, convennero mercanti dalla Spagna, dalla Normandia, dalle Fiandre, dalla Germania e dall'Italia; non vi troviamo invece rappresentate le nazioni nordiche.

Anche gli Olandesi peraltro, i Famminghi e le città del Brabante, concentrarono nelle proprie mani nel tardo Medioevo buona parte del traffico internazionale. Le mercanzie arrivavano a loro principalmente per mare con le navi italiane, ed essi le riponevano in grandi magazzini e poi ne curavano il trasporto e lo scarico nei paesi nordici. Per questa via molte città dei Paesi Bassi divennero notevoli centri di commercio; uno dei quali Bruges, che per lungo tempo, quasi fino alla fine del Medioevo fu l'emporio principale del traffico mercantile dell'Europa settentrionale, un vero mercato mondiale dove inglesi, olandesi, italiani, tedeschi, anseatici affluivano per compiere i loro scambi.

Anche i prodotti della assai progredita industria e dell'arte fiamminga avevano qui il loro mercato. Oltre Bruges va ricordata Gand, la quale oscurò la fama che precedentemente aveva anche Ypres qual sede principale delle manifatture laniere. Così pure é da citare la prosperosissima Antwerpen (odierna Anversa) i cui mercati di cavalli del Brabante e delle Ardenne erano rinomatissimi. Anzi questa città si incamminava verso un avvenire anche più brillante ed era destinata a divenire la prima piazza marittima di quelle regioni e l'erede di Bruges. La città era diventata uno dei più vasti posti europei, oltre che uno dei principali centri industriali belgi. Decadde nel corso del XVI sec. quando nacque la non lontana Amsterdam; ma rimase per eccellenza la città dei diamanti e delle pietre preziose. Ancora oggi in questo settore Anversa è il più grande mercato del mondo.
La Germania restava fuori dalle grandi vie commerciali che conducevano dai paesi arabi verso il nord e dall'Italia verso la Francia e le Fiandre; di modo che all'inizio i contatti dei tedeschi col commercio internazionale si svolsero in sostanza esclusivamente nelle già accennate fiere della Champagne; qui si concentrò in specie pure la maggior parte del loro traffico con gli italiani. Ma alla lunga non poteva mancare di svilupparsi un traffico diretto italo-tedesco.
Esso divenne attivo e fiorente all'incirca dalla metà del XIV secolo, ma i suoi inizi risalgono ad epoca notevolmente più antica. Fin dal 1228 esisteva infatti a Venezia presso il ponte di Rialto il fondaco dei Tedeschi che poteva dare alloggio a molte persone ed aveva inoltre vasti magazzini di deposito e di spaccio delle loro mercanzie.
Nel fondaco era circoscritto obbligatoriamente tutto il traffico commerciale dei tedeschi a Venezia; essi non potevano vendere altrove le proprie merci e le dovevano vendere solo tramite di intermediari veneziani; la Serenissima non consentiva ad alcuno straniero di partecipare direttamente al commercio col Levante. Il mercante tedesco pertanto vendeva le merci che aveva portato con sé a veneziani e da costoro soltanto acquistava le mercanzie orientali che desiderava importare in Germania. Su ogni acquisto e vendita Venezia prelevava una imposta, il cui gettito elevato ci permette di capire che, malgrado le accennate restrizioni, il traffico dei tedeschi a Venezia divenne abbastanza considerevole. Un calcolo fatto nel 1484 fa salire a non meno di 20.000 ducati il reddito annuo dei dazi che Venezia percepiva per le merci esportate in Germania, e verso il 1450 la totalità del traffico commerciale tedesco a Venezia viene ritenuta del valore di un milione di ducati.

Anche a Genova si svolge un commercio di transito dalla Germania, cui vediamo partecipare prima la piccola Ravensburg e più tardi Augusta e Norimberga. A differenza di quanto avveniva a Venezia, i genovesi non tenevano gelosamente lontani gli stranieri dal porto, e quindi i mercanti tedeschi poterono da Genova salpare alla volta di Napoli e della Spagna, dove li troviamo specialmente a Barcellona e Valenza.

In seguito é riscontrabile la presenza di mercanti tedeschi anche a Como, Milano, Pisa, Lucca, Firenze; in numero più scarso a Roma, dove invece si erano stabiliti molti artigiani tedeschi e specialmente albergatori.
Del resto la penetrazione dell'industria tedesca non si riscontra esclusivamente a Roma; anzi sulla fine del Medioevo vediamo domiciliati in moltissime città italiane esercenti tedeschi, soprattutto fornai, calzolai e tessitori, che poi si organizzarono in associazioni particolari.

Oltre alle mercanzie di provenienza orientale i mercanti tedeschi importavano in Germania anche prodotti e manufatti italiani, specialmente sete, vetrerie, ecc. In generale poi il mercante tedesco imparò dal mercante italiano, che a sua volta era allievo dell'oriente, la teoria e la pratica del commercio.

La funzione di intermediari del commercio internazionale, dalla quale i tedeschi rimasero esclusi nel Mediterraneo ed in Oriente, fu da essi invece pienamente esercitata a nord. Le città della Germania settentrionale costituirono con la lega anseatica una potente organizzazione la quale monopolizzò questo traffico di commissione che rifornì di merci per lungo tempo i paesi scandinavi, la Russia e l'Inghilterra, tuttora prive di un commercio marittimo vero e proprio, importandovi i prodotti ed i manufatti di nazioni più progredite, mentre esportava solo prodotti naturali e materie prime, come pesce, legname, cereali, lino, sale, pelli, cuoiami, catrame, ferro, cera, per fornirne i paesi che ne abbisognavano.

La navigazione degli anseatici del resto si estese verso occidente fino alla Bretagna meridionale, donde traevano il sale marino, e più tardi essi si spinsero anche fino all'imboccatura del Mediterraneo, nel quale però, come già osservammo, erano del tutto assenti durante il Medioevo.
Se la Germania poteva così scomporsi in due sfere di attività mercantile ben distinte, c10 non significa naturalmente che esse fossero completamente separate. A ricollegarle sorsero in luoghi adatti grandi mercati, come sopra tutto a Francoforte sul Meno, le cui due fiere, che si tenevano a Pasqua ed in autunno {che forse risalgono sino ai tempi di Federico 11) procurarono tanta fama alla città che Francesco Idi Francia poté chiamarla la più rinomata città commerciale del mondo; qui convenivano regolarmente, accanto ai mercanti di tutta la Germania, anche i mercanti fiamminghi, francesi, inglesi, italiani e boemi.

Questo traffico poi, unito al generale aumento delle esigenze provocato sulla fine del Medioevo dalla cresciuta ricchezza e dal diffondersi del lusso, non poté a meno di dare impulso maggiore anche al vero e proprio commercio interno dei prodotti e manufatti nazionali. Questa intensificazione del traffico interno, oltre la partecipazione al commercio internazionale, fece la ricchezza e la prosperità di città come Norimberga, Augusta ed Ulm e delle numerose piccole città della Svevia, dell'Alto Reno, della Franconia, Baviera ed Austria.

Nella Germania settentrionale ad ovest culminò per floridezza mercantile Colonia, che prese parte così al traffico con l'Italia e con l'Olanda come al commercio anseatico; al centro Lubecca, anch'essa in rapporti con l'Italia; nell'estremo est Danzica, e finalmente a sud-est Breslavia che servì da intermediaria al commercio anseatico ed al traffico della Germania meridionale per le relazioni coi paesi danubiani.
Nel Medioevo il commercio é all'inizio esercitato quasi sempre personalmente dal proprietario della merce; egli stesso la porta di regola sul mercato per spacciarla; lo scarso sviluppo del credito e dell'industria dei trasporti reclamava la sua presenza sul luogo. Spesso un certo numero di mercanti che dovevano fare la stessa strada si univano in carovana per condividere i pericoli del viaggio e per diminuirli col reciproco appoggio. La sicurezza delle vie di comunicazione terrestri e marittime lasciò assai a desiderare durante tutto il Medioevo. Dall'inizio del XIII secolo poi i mercanti usarono non di rado unirsi in società commerciali o «compagnie», che impegnavano in determinate imprese mercantili il capitale comune e dividevano il guadagno ricavatone in proporzione dell'apporto di ciascun partecipante.
Una delle prime e più accorte città che s'inventarono queste società di accomandanti e accomandatari fu Venezia. I patrizi ci mettevano i soldi e i marittimi il coraggio. Se tutto andava per il meglio a guadagnarci erano entrambi.

Negli ultimi due secoli del Medioevo queste compagnie divennero sempre più frequenti; e finalmente sul passaggio dall'era medioevale all'epoca moderna si arrivò sino al punto che grandi società commerciali europee vollero monopolizzare l'intero commercio.
Esse formarono dei sindacati, accaparrarono servendosi della loro organizzazione e delle vaste loro relazioni le mercanzie, non escluse quelle di prima necessità per il consumo giornaliero, e dettarono i prezzi. Taluni dei loro componenti divennero enormemente ricchi, e così pure alcune grandi case commerciali, mentre la gran massa dei consumatori ne rimase taglieggiata ed oppressa; in Germania a principio dell'epoca di Carlo V le diete dovettero infatti ripetutamente preoccuparsi del problema di difendersi contro gli eccessi di questi monopoli.

D'altro canto non si può negare che la grande organizzazione capitalistica da essi creata ha anche esercitato influenze benefiche sul progresso economico e civile.
Se é vero che l'esercizio del commercio procurava in alcuni casi immensi guadagni, è anche vero però che esso, principalmente nel vero e proprio Medioevo, era accompagnato da una quantità di disagi e di impacci che ai tempi nostri neppure si immaginano: tali sopra tutto gli innumerevoli balzelli cui era assoggettato il traffico delle mercanzie in ogni paese, e fra essi principalmente i diritti di salvacondotto ed i dazi che i governi imponevano e riscuotevano a proprio arbitrio senza possibilità di reclamo.

Non meno fastidiosa ed impacciante riusciva al traffico la diversità e molteplicità delle monete. L'inconveniente era poi peggiore che altrove in Germania, dove l'originaria regalia della zecca spettante alla corona era a poco a poco passata nelle mani di un gran numero di signori territoriali laici ed ecclesiastici e persino di talune città, per cui ciascuno di questi territori poteva coniare a suo piacere delle monete senza preoccuparsi del vicino.
Nelle città la zecca fu esercitata per lo più da apposite corporazioni. Inoltre alcuni tipi di monete acquistarono un corso più largo delle altre e persino un corso internazionale, come i bisanti d'oro, i fiorini fiorentini e veneziani e i «Gulden» (monete d'oro) romani; nel resto l'unità monetaria ideale era il marco d'argento che serviva pure da misura di ragguaglio per la coniazione. Il rapporto tra l'oro e l'argento non era identico ovunque; in media negli ultimi secoli dell'età di mezzo i due metalli stavano tra loro nella relazione di 1 a 10.
I mercanti portavano con sé ai mercati non di rado dell'argento non monetato ma a lingottini di vario peso, per pagare o per scambiarlo sul luogo secondo i bisogni con altrettanta moneta del paese.

Data questa condizione di cose si comprende facilmente come l'industria del cambio dovesse avere una grande importanza e costituire una professione molto redditizia. Peraltro di fronte alla grande varietà delle monete ed alla poca garanzia della coniazione si trattava di un mestiere difficile e non a tutti accessibile. Nei più importanti centri di traffico troviamo l'industria del cambio quasi generalmente in mano di italiani, i quali in genere furono i primi ad organizzare e sviluppare tutti i rami del commercio e servirono da maestri agli altri; agli italiani infatti noi dobbiamo l'introduzione nel XIII secolo della numerazione in cifre arabe, la partita doppia e molte altre innovazioni in questa materia.

All'industria del cambio si dedicarono fra gli italiani principalmente i fiorentini e i lombardi, i quali, organizzati in particolari corporazioni, si stanziarono anche nelle piazze commerciali straniere in qualità di banchieri e cambisti. Comunemente questi banchieri venivano chiamati lombardi. Essi esercitavano pure l'industria del prestito su pegni che anche oggi in tedesco serba traccia del loro nome («Lombardgeschàfl»).
Del pari agli italiani è dovuta l'invenzione (o imitando quella esistente araba, lo shek) della lettera di cambio o cambiale che spunta verso la metà dei XIII secolo ed a poco a poco si diffonde con grande beneficio del commercio.
Quali concorrenti degli italiani nel commercio bancario vediamo in alcuni luoghi i così detti «caortini», cambisti cioè originari del mezzogiorno della Francia, i quali trassero il loro nome dalla città di Cahors che era il centro principale di tale industria in Francia.

Del resto nel Medioevo non si ebbero che i primi passi della tecnica del commercio bancario. I primi germi di una banca di sconto si incontrano a Venezia e poi a Genova, dove la Casa di San Giorgio cominciò dal 1407 a compiere operazioni di banca. Verso la stessa epoca sorse a Barcellona la prima banca pubblica di cambio, depositi e sconti, la «tanla de cambi» (tabula cambiorum).

I primi esempi di assicurazioni si hanno a Firenze, poi nei Paesi Bassi. Sopra tutto a Firenze assunse in seguito un fiorente sviluppo l'industria bancaria, e da essa trasse grandissimo aiuto il commercio cittadino; verso la fine del Medioevo si annoveravano 80 case bancarie fiorentine (quella dei Medici era una delle tante) che avevano filiali in tutte le principali piazze commerciali d'Europa.

Anche il papato e l'intera curia disseminata in giro, si servì di preferenza di banchieri fiorentini per le sue molteplici operazioni finanziarie.

Un ostacolo non lieve allo sviluppo del credito e quindi al commercio in generale pose Il divieto delle usure proclamato come principio dalla chiesa; divieto che peraltro sotto la pressione dei bisogni del traffico venne in molti casi ignorato od anche più o meno apertamente violato.
A causa poi della forte misura di rischio già inerente ai negozi di mutuo di denaro per le condizioni stesse della società medioevale, rischio che era ancor più aggravato dall'atteggiamento assunto dalla chiesa nella questione delle usure, il tasso degli interessi era secondo le nostre idee attuali assai elevato; di rado esso discese al di sotto del 10 o/o, e troviamo anche esempi di interessi del 20 e persino del 40% senza che nulla indichi che si trattava di qualcosa di eccezionale o di riprovevole.

Non mancano peraltro casi di convenzioni di interessi che vennero bollati dai giudici del tempo come patti usurari. I lombardi avevano la fama di esercitare comunemente lo strozzinaggio, e peggio ancora - a ragione o a torto - la fama peggiore spettava agli ebrei.
Gli ebrei li troviamo assai presto in quasi tutti gli stati cristiani, e la loro condizione giuridica e sociale non era all'inizio sostanzialmente diversa da quella dei cristiani. Nei tempi più antichi il commercio era in gran parte nelle loro mani. Col XII secolo si inaugura un'era sfavorevole agli ebrei, i quali d'ora in avanti andarono soggetti a gravi persecuzioni; queste ultime ebbero in parte la loro causa nell'antagonismo religioso e nazionale sollecitato dal grande movimento delle crociate, ma vi contribuì pure la reazione dell'industria nazionale sorgente nelle città contro le quali vedeva nella concorrenza degli ebrei un danno, e questi si videro sempre più esclusi dal campo del traffico e della mercatura vera e propria.

In compenso essi allora si diedero alla speculazione finanziaria, in cui poterono tanto più facilmente affermarsi in quanto il divieto canonico delle usure e le pene del diritto canonico non erano loro applicabili. Per tal modo gli ebrei vennero ad acquistare addirittura il privilegio di sfruttare popolazioni ancora scarsamente progredite e non si fecero proprio pregare per approfittarne.
Ma questo sfruttamento economico procacciò ad essi l'odio dei popoli e provocò negli ultimi secoli del Medioevo contro di loro sempre più frequenti esplosioni di un fanatismo larvato per lo più sotto la maschera dell'antagonismo religioso.

Un carattere particolarmente feroce ebbero le persecuzioni degli ebrei avvenute sulla metà del XIV secolo, quando gli animi erano agitati dal terrore dell'epidemia della morte nera e turbe di penitenti fanatici percorrevano in lungo ed in largo tutti i paesi d'Europa. Si credette allora o si finse di credere che gli ebrei avessero avvelenato le fonti e provocato in tal maniera l'epidemia. Né mancarono in altre occasioni altri pretesti per perseguitarli, e bastavano le voci superstiziose sparse ad arte circa pratiche sanguinarie e sacrilegi commessi dagli ebrei, come il sacrificio di bambini cristiani per servirsi del loro sangue pel compimento dei riti talmudistici, ovvero il dileggio o l'abuso dell'ostia e simili stupidaggini, perché il furore popolare scoppiasse contro questi infelici e trascendesse a massacri nonché al saccheggio delle case degli ebrei in cui si sospettavano, e non di rado si trovavano realmente, tesori accumulati a prezzo del dissanguamento dei poveri.

In Inghilterra poi gli ebrei, dopo aver subito anche qui non poche persecuzioni, furono verso la fine del XIII secolo espulsi in massa dal paese, e solo in tempi assai più recenti cominciarono a poco a poco ad immigrarvi nuovamente. Anche in Francia nel 1306 re Filippo IV decretò di punto in bianco l'espulsione degli ebrei dal regno, si impadronì delle loro ricchezze mobiliari, vendette a profitto della corona i loro immobili ed obbligò i loro debitori a pagare quanto dovevano agli ebrei alla cassa regia; ma ad onta di tale misura gli ebrei non sparirono completamente dalla Francia.
In molti paesi anzi gli ebrei godettero di una particolare protezione da parte dei governi che in essi vedevano un comodo campo di sfruttamento, giacché per essere tollerati costoro dovevano pagare una tassa personale nonché altre imposte straordinarie; inoltre principi e governi li obbligavano non di rado a far loro dei prestiti forzosi, della cui puntuale restituzione non sempre si preoccupavano molto.

In Germania dalla protezione che il re accordava e garantiva comunemente agli ebrei si svolse l'istituto della così detta servitù camerale; gli ebrei cioè erano in certo modo in proprietà del re o dell'imperatore, la loro tutela costituiva una regalia fruttifera, e questa, come tutte le altre regalie e diritti di sovranità poteva essere concessa, e venne infatti trasferita, dal re ai principi ed alle città. Persino singole persone di nazionalità giudaica, a causa delle imposte che pagavano al tesoro regio, vennero considerate come oggetti di proprietà e come tali concesse ad altri.
Dai tempi delle crociate poi la cristianità cercò di isolare gli ebrei e di non avere comunanza di vita con essi; nelle città fu loro permesso di abitare soltanto in determinate strade ovvero in determinati quartieri, dove ogni sera venivano rinchiusi; inoltre furono obbligati a vestire in maniera speciale o a portare dei distintivi che permettessero di riconoscere la loro identità immediatamente e senza tema di errore.

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Tessuti e tessitori in età medievale

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La storia dei tessuti nel Medioevo è strettamente legata alla storia della coltivazione delle piante da cui si ricavavano le fibre naturali (lino, canapa e cotone) e dalla lavorazione del pelo animale da cui si ricavavano lana, cashmere e alpaca che sono, diversamente dalle fibre vegetali, a base di cheratina. Anche la seta è di origine animale: sintetizzata e filata dal baco, è costituita da una proteina che prende il nome di fibroina.
Dal secolo XI al secolo XIV i tessuti usati dalla gente comune erano prevalentemente lino, cotone, canapa e lana. La canapa in epoca medievale era coltivata in tutta Europa, compresa l’Italia dove è attestata la presenza di canapa sull’intero territorio.
Dalla corteccia interna del fusto si ottengono fibre tessili che, in caso di recente impollinazione, vengono destinate alla produzione di stoffe, o altrimenti, di reti, corde e tessuti resistenti. La pianta del cotone, invece, appartenente alla famiglia delle malvacee, produce frutti all’interno dei quali sono avvolte le ben note fibre utilizzate nell’industria tessile. Il tessuto più adoperato era però il lino.
Durante il periodo altomedievale la coltivazione del lino si diffuse ampiamente in relazione ad un’economia di tipo domestico: le donne tessevano in casa e vendevano sul mercato locale i loro prodotti, contemporaneamente producevano vestiario e biancheria perla famiglia. Con l’espansione economica tra XI e XIII secolo la linicoltura conobbe un forte incremento: si affinarono i sistemi di lavorazione del terreno e della semina, per ottenere fibre sempre più morbide e, accanto alla coltivazione in spazi ristretti, legati all’artigianato domestico o alla vendita di mercati locali, si affermò la coltivazione intensiva finalizzata alla produzione di prodotti per l’esportazione.
La fase più delicata della lavorazione del lino era la macerazione degli steli che, agendo chimicamente per mezzo della fermentazione, poteva avere effetti diversi a seconda dell’intensità e della durata.
Questo procedimento avveniva in acqua corrente o in quella stagnante o sull’erba. L’acqua veniva raccolta in vasche scavate nel tufo il cui possesso costituiva una sicura fonte di entrate dal momento che perla macerazione era previsto un tributo. Successivamente le fibre erano messe ad asciugare e poi sottoposte alla fase finale: la liberazione dalla parte legnosa. Questo poteva svolgersi in diversi modi:
“scavezzatura”: liberando le fibre manualmente, strappandole vie dagli steli;
“battitura”: in alcune località il lino veniva raccolto in fasci e posto su un piano rigido di legno o pietra e battute con mazze, bastoni e martelli di legno;
“gramolatura” o “maciullatura” prevedeva il ricorso a un attrezzo (granula o maciullo) che facilitava notevolmente il lavoro.
A questa fase seguiva la “pettinatura” per liberare le fibre dalle ultime impurità e renderle parallele e, infine, la filatura.

L’arazzo di Bayeux
Il tessuto di lino più famoso del Medioevo è certamente l’arazzo di Bayeux, una tela ricamata nell’XI secolo per celebrare la conquista dell’Inghilterra da parte di Guglielmo duca di Normandia (1066): otto pezze di lino, alte 50 cm, unite fra loro fino a raggiungere la lunghezza di 70 metri.
Commissionato dal fratellastro di Guglielmo il conquistatore, Oddone, conte di Kent e vescovo di Bayeux, questo eccezionale oggetto fu realizzato a Canterbury, tra il 1066 e il 1082.
Sull’arazzo le ricamatrici anglosassoni ricamarono le vicende della conquista normanna dell’isola da parte del duca di Normandia.
L’opera dà grande risalto alla figura di Oddone e pertanto si ritiene che fosse destinata ad abbellire uno dei suoi palazzi. Oddone stesso lo donò poi alla cattedrale di Bayeux e molti secoli dopo per ospitarlo fu addirittura creato un museo. Oltre ad essere un oggetto di eccezionale bellezza, questo arazzo è un importante documento in quanto in esso si rappresentano con straordinaria veridicità oggetti, costumi e modi di vivere del tempo.

La seta
La seta, possiamo dire, è un’invenzione della civiltà cinese. La tradizione vuole addirittura che la consorte di Huang Di, il mitico Imperatore Giallo, volle insegnare al popolo come ottenere il prezioso filamento, la cui tecnica doveva rimanere segreta.
Perla produzione della seta, tre erano le fasi principali. La prima fase consisteva nell’uccisione dei bachi attraverso l’esposizione al calore, impedendo che le crisalidi diventassero farfalle e uscissero dal bozzolo spezzettando così il filamento che lo componeva. Seguiva poi la cernita, la macerazione e il dipanamento dei bozzoli. Infine, le diverse bave sottili venivano riunite in un unico filo avvolto in matasse. Solo a questo punto la seta grezza era pronta per essere trasformata in tessuto. Il processo di lavorazione cominciava con “l’incannatura”, ossia con il passaggio dalle matasse di seta aggomitolate intorno all’arcolaio. Seguiva la filatura mediante la quale la seta subiva una torsione a destra. I filati perla trama potevano già dirsi pronti per affrontare la tessitura, quelli destinati all’ordito, invece, avevano bisogno di essere ulteriormente rinforzati con una “addoppiatura”, quindi sottoposti a una nuova torsione a sinistra, la “torcitura”. Mentre 1’addoppiatura veniva eseguita manualmente, già a partire dal XIII secolo filatura e torcitura erano operazioni meccanizzate, eseguite da ben congegnate macchine dette torcitoi o filatoi, azionate manualmente o dall’energia idraulica. Il filo veniva poi lavorato dai tintori che, prima di sottoporlo ai bagni di colore, provvedevano a liberarlo della gomma naturale di cui era ancora impregnato attraverso la “cuocitura” in acqua tiepida e sapone. La seta non era un tessuto molto usato in Europa occidentale in epoca altomedievale, tuttavia sono state ritrovate sete orientali e bizantine, testimonianza di uno scambio, seppur minimo, di tessuti pregiati tra oriente e occidente.
A partire dal Basso Medioevo (XIII secolo) il mercato della seta divenne più ampio tanto che dal XIV secolo in poi la seta affiancherà la lana nella manifattura dei tessuti e diventerà un prodotto caratterizzante degli ambienti di corte. Molte furono le leggi emanate che miravano a regolamentare lo sfoggio dei tessuti serici, nel tentativo di riservare alla sola nobiltà l’uso di questa fibra.
Per molti secoli “l’affare della seta” fu assoluto monopolio dell’Oriente anche se è bene ricordare che nell’Alto Medioevo l’industria della seta era attiva già nell’Impero Bizantino e in molti territori dell’immenso dominio islamico (Siria, Persia, Mesopotamia, Egitto).
Proprio nelle aree del Mediterraneo in cui maggiori furono i contatti con queste culture, come l’Italia meridionale e la Spagna, si svilupparono le prime manifatture occidentali. La produzione serica iberica ricevette dai dominatori arabi un’impronta stilistica che si sarebbe mantenuta fino al XVI secolo, nella definizione di “ispano moresca”, mentre la manifattura siciliana, che aveva in epoca normanna il suo centro nell’opificio annesso al palazzo regio di Palermo, sintetizzava l’esperienza delle due precedenti dominazioni: quella bizantina e quella araba. Le corti palermitana e messinese erano note in tutta Europa per i tessuti ricamati con le pietre preziose che venivano applicate sulle tuniche e sui mantelli. Le tecniche di lavorazione erano segrete, condizione essenziale affinché i manufatti fossero considerati “esclusivi”, gli stessi tessitori, considerati alla pari degli artisti, erano chiamati a preservare il “mistero” delle raffinate e antiche tecniche. I vestiti della corte erano vere e proprie opere d’arte, il guardaroba regale di Ruggero II e di Guglielmo il Buono comprendeva tuniche in seta, mantelli ricamati in oro, perle, filigrane e smalti (il più celebre è il mantello di re Ruggero II, datato 1133 e conservato a Vienna nel Kunsthistorisches Museum).
I Bizantini avevano creato ad Amalfi e Gaeta delle manifatture di produzione serica con la materia grezza ottenuta in Calabria. Probabilmente, per il tramite di tessitori e filatori ebrei provenienti da queste città, la lavorazione dei drappi si diffuse poi a Lucca, favorita dalla posizione che la legava alla via Francigena.
Il movimento dei pellegrini diretti a Roma era costante, caratterizzato dalla presenza di uomini e donne di tutti i ceti sociali, interessati non solo all’aspetto religioso e cultuale del viaggio ma anche all’aspetto commerciale. Lucca era sede di un importante mercato di prodotti di lusso, i famosi “diaspri”, tessuti monocromi di lucentezza quasi madreperlacea, conosciuti non solo in Italia ma ricercati e apprezzati in tutto il Nord Europa.

Come si produceva la seta?

La prima fase consisteva nell’uccisione dei bachi da seta attraverso l’esposizione al calore per impedire che le crisalidi si trasformassero in farfalle e uscissero dal bozzolo spezzettando così il filamento che lo componeva;

Seguiva poi la cernita, la mace­razione e il dipanamento dei bozzoli;

Le diverse bave sottili venivano riunite quindi in un unico filo avvolto in matasse.

Solo a questo punto la seta grezza era trasferita agli opifici cittadini per essere trasformata in tessuto. Il processo di lavorazione cominciava con:

L’“incannatura”, ossia con il passaggio dalle matasse di seta aggomitolate intorno all’arcolaio ai fili avvolti in rocchetti di legno;

A questo seguiva la filatura mediante la quale la seta subiva una torsione a destra. Dopodiché i filati per la trama potevano già dirsi pronti per affrontare la tessitura;

Quelli destinati all’ordito, invece, avevano bisogno di essere ulteriormente rinforzati attraverso l’“addoppiatura”;

Quindi sottoposti a una nuova torsione a sinistra (“torcitura”).

Mentre 1’addoppiatura veniva eseguita manualmente, già a partire dal XIII secolo filatura e torcitura erano operazioni meccanizzate, eseguite da ben congegnate macchine dette torcitoi o filatoi, azionate manualmente o dall’energia idraulica. Il filo veniva poi lavorato dai tintori che, prima di sottoporlo ai bagni di colore, provvedevano a liberarlo della gomma naturale di cui era ancora impregnato attraverso la “cucitura” in acqua tiepida e sapone. A questo punto, dopo la predisposizione dell’ordito, tutto era pronto per la “tessitura”, l’operazione più importante e complessa dell’intero ciclo. La seta non era un tessuto usato in Europa occidentale in epoca altomedievale, tuttavia sebbene il consumo di tessuti serici non fosse sconosciuto presso i re e gli alti dignitari delle corti altomedievali, sono state ritrovate in tombe europee datate a partire dal IX secolo sete orientali e bizantine, come quella di San Cuthbert nella cattedrale della città inglese di Durham, testimonianza di uno scambio, seppur minimo, di tessuti pregiati tra oriente e occidente. A partire dal basso medioevo (XIII secolo) il mercato delle seta divenne più ampio e la seta divenne un tessuto ricercato e prezioso presso le corti e le città italiane.

Regioni produttrici erano l’Italia e la Spagna, ma le stoffe di seta erano meno diffuse anche a nord delle Alpi e dei Pirenei: in Francia e in Inghilterra, nel XIII secolo, i tessuti serici erano riservati per le circostanze eccezionali, ma solo da re e principi. A partire dal XIV secolo, la seta affiancherà la lana nella manifattura dei tessuti e diventerà un prodotto caratterizzante degli ambienti di corte; solo a partire dal XV secolo la seta diventerà di uso quotidiano nell’ambiente principesco e presso l’alta borghesia. Molteplici furono a tal proposito le leggi emanate che miravano a regolamentare l’uso e lo sfoggio dei tessuti serici, nel tentativo di riservare alla sola nobiltà l’uso di questa fibra. In Europa e soprattutto in Italia la manifattura laniera era presente in moltissimi centri, a differenza dei centri di lavorazione della seta che solo in epoca tardomedievale incominciarono a diffondersi nella penisola italiana. Fino a quella data, infatti, “l’affare della seta” fu assoluto monopolio dell’Oriente anche se è bene ricordare che nell’alto medioevo l’industria della seta era attiva già nell’Impero bizantino e in molti territori dell’immenso dominio islamico (Siria, Persia, Mesopotamia, Egitto), e che proprio nelle aree del Mediterraneo in cui maggiori furono i contatti con queste culture, come l’Italia meridionale e la Spagna, si svilupparono le prime manifatture occidentali. La produzione serica iberica ricevette dai dominatori arabi un’impronta stilistica che si sarebbe mantenuta, fino al XVI secolo, nella definizione di “ispano­moresca”, mentre la manifattura siciliana, che aveva in epoca normanna il suo centro nell’opificio annesso al palazzo regio di Palermo, sintetizzava l’esperienza delle due precedenti dominazioni: quella bizantina e quella araba. Le corti palermitana e messinese erano note in tutta Europa per i tessuti ricamati con le pietre preziose che venivano applicate sulle tuniche e sui mantelli. Le tecniche di lavorazione erano segrete, condizione essenziale affinché i manufatti fossero considerati “esclusivi”, gli stessi tessitori, considerati alla pari degli artisti, erano chiamati a preservare il “mistero” delle raffinate e antiche tecniche. I vestiti della corte erano vere e proprie opere d’arte, il guardaroba regale di Ruggero II e di Guglielmo il Buono comprendeva tuniche in seta, mantelli ricamati in oro, perle, filigrane e smalti (il più celebre è il mantello di re Ruggero II, datato 1133 e conservato a Vienna nel Kunsthistorisches Museum).

I bizantini avevano inoltre creato ad Amalfi e Gaeta delle manifatture di produzione serica con la materia grezza ottenuta in Calabria, probabilmente, per il tramite di tessitori e filatori ebrei provenienti da queste città, la lavorazione dei drappi si diffuse a Lucca.

Lucca si trova in una regione che in epoca medievale era in pieno sviluppo economico, situazione favorita dalla posizione strategica della città costruita nelle vicinanze della via Francigena. Il movimento dei pellegrini, diretti a Roma, era costante e caratterizzato dalla presenza di uomini e donne di tutti i ceti sociali interessati non solo all’aspetto religioso e cultuale del viaggio ma anche all’aspetto commerciale: Lucca era sede di un importante mercato di prodotti di lusso. I “diaspri” di Lucca, tessuti monocromi di lucentezza quasi madreperlacea, erano conosciuti non solo in Italia ma ricercati e apprezzati in tutto il Nord Europa. Erano i mercanti ge­novesi, che grazie ai loro contatti con l’Orien­te rifornivano le botteghe lucchesi di seta del Catai e del Mar Caspio.

La lana
Per quel che riguarda la lavorazione della lana, un importante elemento di novità, in età medievale è costituito dall’uso delle gualchiere. La follatura o gualcatura (dal germanico walkan che vuol dire spostare qualcosa da un luogo all’altro) dei tessuti di lana fu uno dei più importanti usi a cui la ruota idraulica venne adattata. Si trattava di un procedimento al quale, dopo la tessitura, venivano sottoposti i panni, più volte piegati su se stessi, e immersi in bacini detti “pilae” e in una soluzione composta da acqua, sapone, argilla e talvolta anche urina.
Battendo continuamente i tessuti per molte ore se ne provocava l’infeltrimento, le fibre si ritiravano serrandosi l’una all’altra, rendendo la stoffa più compatta, morbida, resistente e in parte anche impermeabile.
Nell’antichità questa operazione veniva eseguita dagli schiavi, immersi nella soluzione infeltrente e costretti a battere i panni di lana con i piedi. Per mezzo della gualchiera idraulica si riuscì a meccanizzare proprio questa importante e faticosa operazione. Ricostruire nei dettagli la struttura materiale di una gualchiera medievale non è semplice, considerando che questi tipi di strutture hanno lasciato pochi dati archeologici. Inoltre, se ne conoscono rare raffigurazioni iconografiche e purtroppo nessuna anteriore al XVI secolo.
Dai pochi dati disponibili si riesce però a capire che una ruota idraulica verticale azionava un albero motore, sul quale erano montate delle camme, queste ultime sollevavano i folloni (una specie di grandi martelli verticali rovesciati a coppie che poi ricadevano sulle pezze da gualcare) che un lavorante bagnava continuamente con il liquido infeltrente riscaldato in apposite caldaie. L’azione dei magli poteva essere più o meno veloce a seconda della corrente d’acqua.
Le macchine usate perla canapa avevano due pistoni di legno anch’essi azionati da un albero a camme, che si sollevavano e si abbassavano in modo alterno.
La prima testimonianza scritta di una gualchiera risale al X secolo, esattamente al 962, in Abruzzo. Quando dopo il Mille le gualchiere cominciarono a diffondersi, appartenevano a ricche famiglie o ad enti ecclesiastici, considerando che le spese di costruzione e di gestione ne facevano, infatti, impianti di esclusiva portata di gente facoltosa.
Nel ‘200 le gualchiere erano ormai utilizzate ovunque, dislocate sia sui grandi fiumi che sui piccoli corsi d’acqua, ma a partire dal XIII secolo molti statuti cittadini proibirono la presenza di gualchiere all’interno delle mura e provvidero ad allontanare dal centro queste strutture, insieme a tintorie, concerie e fabbriche di vernici, poiché inquinavano le acque con i loro rifiuti e ammorbavano l’aria con esalazioni maleodoranti.

Il telaio
Nel miracolo della trasformazione delle fibre tessili in tessuti il protagonista principale era ovviamente il telaio. Strumento mediamente assai più complesso e costoso di quanto si potrebbe supporre, questo assumeva connotazioni differenziate sia in relazione alla natura della materia prima utilizzata, sia in funzione delle qualità di stoffe da ottenere. Così non solo non era possibile produrre drappi di seta in un telaio predisposto perla tessitura del cotone o della lana, ma nello stesso ambito della lavorazione della seta, per esempio, forma e accessori variavano sensibilmente a seconda che si trattasse di tessere velluti lisci, lampassi, velluti operati: l’inserimento di trame e colori supplementari nei tessuti complicava notevolmente la struttura di questo antico e prezioso macchinario.

Le sostanze coloranti
I coloranti e la tintura sono antichi quanto i tessuti. Fino alla metà del XIX secolo, tutti i coloranti erano ricavati da sostanze naturali, soprattutto di origine vegetale e animale. Fra i coloranti più antichi ci sono la robbia, un colorante rosso ricavato dalle radici di Rubia tinctorum, il blu indaco ottenuto dalle foglie di Indigofera tinctoria, il giallo tratto dagli stimmi di Crocus sativa, o zafferano, e la sanguinella (o Cornus) estratta dall’albero omonimo. Con questi colorantisi ottenevano colori opachi molto belli, mentre un rosso brillante chiamato cocciniglia veniva ricavato da un insetto (della famiglia Kermesidae) originario del Messico, e un rosso molto apprezzato, noto come porpora di Tiro, estratto dal tegumento delle murici appartenenti ai gasteropodi marini, che si pescavano appunto nei pressi dell’isola di Tiro. Quasi tutti i primi coloranti naturali erano estremamente costosi e richiedevano tecniche di preparazione e di applicazione molto lunghe e complicate. Il metodo di applicazione del colorante naturale in epoca medievale era generalmente la tintura al tino: questo processo richiedeva un tipo di colorante a forte tonalità e stabile, ossia resistente al lavaggio eall’esposizione alla luce, in modo che il colore non stingesse e fosse garantita la buona qualità del prodotto.
Ecco un elenco delle principali piante utilizzate nel Medioevo per ottenere le tinte:

Rosso
rubia tinctorum (robbia domestica)
bixa orellana (annato)
carthamus tinctorius (zafferanone coltivato)
dracena draco (sangue di Drago)
roccella tinctoria (oricello)
kermes (estratto da insetti della famiglia Kermesidae o quercus coccifera)
robinia pseudoacacia (acacia)
caesalpina Sapan (legno brasiliano)
rosso di Tiro o rosso porpora (estratto dalle murici, famiglia delle gasteropodi marine).

Giallo
reseda luteola (reseda biondella)
anthemis tinctoria (camomilla per tintori)
berberis vulgaris (crespino comune)
crocus sativus (zafferano vero)
curcuma longa (curcuma)
genista tinctoria (ginestra minore)
sparticum jenceum (ginestra)
pyrus malus(melo)
rubus frutticosus (mora)
rhus Cotinus (scotano)

Blu
indigofera tinctoria (indaco)
isatis tinctoria (guado)
polygonum tinctorium (poligono tintorio)

Verdi
calicotome villosa (spazio villoso)
cytisus scoparius (ginestra dei carbonai)
iris pseudacorus (giaggiolo acquatico)
lavandola stoechas (lavanda selvatica)

Viola
haematoxylum campechianum (campeggio)
papaver rhoeas (papavero comune)
vaccinium myrtillus (mirtillo nero)
rocella tinctoria (oricella)

Marrone
alnus glutinosa(ontano comune)
acacia catechu (catecù)
juglans regia (noce comune)
lawsonia inermis (henné)
salix purpurea (salice rosso)
corylus avellana (nocciolo)
plantago major(piantaggine)

Nero
corteccia di ontano, castagno, leccio, faggio, quercia comune.

Il guado fu la sostanza che per maggior tempo ebbe parte preminente nell’arte tintoria medievale. Con essa era possibile ottenere una ricca gradazione di azzurri che andava dai toni carichi e vivaci del “perso” e del “persiero” fino ad un celeste pallido detto “allazzato”, passando attraverso l’azzurrino, il celeste, lo “sbiadito” ed il turchino. Per ottenere alcuni colori, come ad esempio il verde e il violetto, era necessario fare prima l’impiumo che consisteva in un bagno di colore che conferiva alle fibre tessili un sottofondo di colore prima di immergerle in un ulteriore bagno per l’ottenimento del colore definitivo. Ad esempio se l’impiumo era stato al guado, le fibre avevano assunto un colore celeste, con una successiva immersione in un bagno di colore giallo (a base di scotano o di braglia) esse diventavano di un verde più o meno scuro a seconda dell’intensità del sottofondo. In Italia molte erano le zone nelle quali si coltivava il guado, anche se i centri di maggiore produzione si trovavano in Lombardia, nel bolognese, nell’aretino e in varie località umbro-marchigiane.

La robbia invece era ricavata dalla rubia Tinctorum le cui radici, contenenti alizarina, una volta essiccate, ridotte in polvere e sciolte in acqua, davano una soluzione capace di tingere le fibre tessili in un bel rosso. La robbia poteva anche essere impiegata come sopratinta o, miscelata con altri coloranti, come i petali di papavero rosso, per ottenere il “paonazzo” ed il viola.

Lo scotano, era la sostanza colorante ricavata dal legno e dalle foglie del rhus cotinus e veniva usata per colorare in giallo carico le fibre tessili. Se queste avevano subito un precedente impiumo al guado, il bagno con scotano conferiva loro un bel colore verde. Per l’elevato tenore di tannino lo scotano, opportunamente trattato con sali di ferro, serviva anche a formare grigi e neri.

Braglia è il nome dato dai tintori del medioevo ad una specie di ginestra, genestra tinctoria, i cui fiori, opportunamente trattati, liberavano una sostanza colorante capace di tingere in giallo la lana. Il verzino era ricavato, nel medioevo, dalle parti lignee della caesalpina sapan, una leguminosa proveniente dalle Indie orientali e dal Sappan, nelle isole Filippine. Il legno è ricco di un glucoside che, decomponendosi, sviluppa una sostanza detta brasiliana, questa per ossidazione si trasforma in materia colorante rossa facilmente solubile in acqua.

Il nero era facilmente ottenibile combinando sali ferrosi con l’acido tannico contenuto nella corteccia di molti alberi (castagno, leccio, faggio, quercia comune). Neri brillanti, ma assai costosi, si ottenevano impiegando galle e galloni (protuberanze che si formano sulle foglie e nei rami degli alberi in seguito all’azione di alcuni insetti che vi depositano le uova), invece a basso prezzo risultavano quelli conseguiti con materiali più vili e di facile reperibilità (ad esempio il mallo di noce) che davano però tinture assai scadenti per qualità e durata.

L’oricella era tratta da un lichene del bacino mediterraneo roccella tinctoria che fatto fermentare in un bagno di urina, assume un colore violetto carico, degradabile a paonazzo se trattata con robbia.

Il loto era una sostanza largamente usata dai tintori medievali e della quale, per le poche notizie che ci sono giunte, ignoriamo sia la precisa natura che l’impiego come colorante. La tradizione che lo voleva ricavato dal legno dell’albero del loto è forse errata, mentre maggiore credito trova l’ipotesi che vuole il lotum fabrorum un’argilla arricchita con limatura (o molatura) di ferro. Del resto nel medioevo varie qualità di argille (boli, ocre) ricche di ossidi di ferro venivano impiegate per tingere la lana in rosso e in bruno. Quando queste terre erano troppo chiare, cioè avevano basso tenore ferroso venivano mischiate con limatura di ferro che in presenza di acqua si ossidava conferendo il classico colore rosso-ruggine. I colori citati nei documenti sono comunque molteplici: l’azzurrino, colorante di probabile origine minerale, usato per tinture in azzurro e verde, il cinabro, solfuro di mercurio impiegato per il rosso, il comino, pianticella appartenente alle ombrellifere, simile al finocchio, serviva probabilmente per tingere in giallo, l’erba gualda, erba usata per tinture in verde pallido e in giallo, l’indaco per tinture in turchino e verde, la terra ghetta, ossido di piombo, usato per tinture di colore bruno.

Ma per fissare i pigmenti sulla stoffa era necessario adoperare dei mordenti efficaci, la qualità della tintura dipendeva infatti dalla qualità dei fissatori adoperati durante la “mordenzatura”. I mordenti erano di solito sostanze di origine vegetale e nel medioevo si distinguevano in due gruppi a seconda della sostanza astringente di base. Distinguiamo in mordenti tanninici (ricchi di tannino, composti del fenolo) e in mordenti potassici (ricchi di potassio, metallo alcalino bianco-argenteo che reagisce violentemente con l’acqua).

Mordenti tanninici

Galla
(O noci di galla) erano chiamate le protuberanze che si formano sulle foglie e nei rami degli alberi in seguito all’azione di alcuni insetti che vi depositano le uova. In presenza di sali di ferro davano una soluzione nera, usata come colorante. Nei documenti non sono citate precisamente le zone di provenienza delle galle che potevano essere di qualità pregiata, importate dall’Oriente, oppure di un tipo scadente che si raccoglieva nell’Italia meridionale.

Scorza
Molti erano gli alberi le cuiscorze, ricche di tannino, erano usate dai tintori medievali come fissanti. In Europa le ischotze più ricercate erano quelle dell’ontano (6-15%ditannino), betulla, castagno (5-10%) e la grande famiglia delle querce: rovere, leccio, ecc. (10-15%).

Foglia
La foglia era considerato un ottimo fissante. Il nome della pianta dalla quale si ricavava la foglia, è il rubus fructicosus, ovvero la foglia del rovo delle more.

Mordenti potassici

Gromma
La gromma (o gruma) è il “cremor di tartaro” formatosi nei tini per effetto della fermentazione.
Quando la gromma veniva bruciata essa rendeva le ceneri assai ricche di potassio (detto allume di feccia) e quindi veniva adoperato come ottimo mordente.

Allume
L’allume era il mordente a base di potassio maggiormente usato dai tintori del Medioevo. Il suo impiego si diffuse in Italia soprattutto dopo che nella Toscana meridionale e nell’alto Lazio ne furono scoperti ricchi giacimenti. Il migliore era l’allume dirocca ricavato dall’allumite, un solfato basico idrato di potassio e alluminio estratto da rocce di origine vulcanica. L’allume, oltre a fissare stabilmente le tinte su ogni genere di fibra tessile, conferiva una forza illuminante che rendeva i manufatti particolarmente apprezzati sul mercato. Per tali pregi esso era oggetto di un intenso commercio che univa le zone di estrazione ai maggiori centri dell’industria tessile italiana.

Cenere
La cenere era impiegata per il lavaggio di lane e stoffe secondo un procedimento usato fino ai nostri giorni (ranno o cenerone), ma ebbe un largo impiego anche in tintoria. Le ceneri, ricche di potassio, ricavate dalla combustione di legna dolce e forte, erano un ingrediente indispensabile perla preparazione del bagno di colore in quanto potevano svolgere le funzioni modernamente assolte dalla soda: promuovevano cioè l’alcalinizzazione del bagno rendendo stabile il composto solubile delle tinte mediante mordenzatura delle fibre.

Tintura
La tintura dei tessuti viene eseguita in grossi recipienti di cemento o d’argilla, secondo un procedimento in uso da secoli, non molto dissimile dai moderni procedimenti industriali monocromatici. In entrambi i casi il tessuto viene immerso nel colorante e agitato per ottenere una colorazione uniforme. Nel più semplice procedimento di tintura (tintura al tino), il materiale tessile viene immerso nel colorante, che viene portato gradualmente al punto d’ebollizione e agitato in continuazione, per facilitare la penetrazione completa nel tessuto. A seconda del tipo di fibra e del colorante usato, si possono aggiungere sali o acidi che migliorano l’assorbimento del colorante. La difficoltà principale nella tintura di filati e tessuti misti è quella di ottenere la stessa gradazione di colore su ogni tipo di fibra: le fibre di cotone, ad esempio, assorbono il colore rapidamente, mentre quelle di lana, se si vuole raggiungere la medesima intensità del colore, hanno bisogno di un tempo di bollitura molto più lungo, che potrebbe addirittura danneggiarle.

In epoca comunale si distingueva fra artigiani della “piccola tinta”, alle prese con i coloranti meno nobili e costosi, e quelli della “grande tinta”, che poteva disporre dei pigmenti più pregiati quali indaco, robbia, kermes e altri pigmenti preziosi. Nella maggior parte dei casi i pigmenti sono ricavati dalla macerazione e dalla cottura in acqua. Prima di entrare in contatto con questi pigmenti, il supporto da tingere necessita di un trattamento in grado di fissare il colore. Nel caso dei tessuti si parla di “mordenzatura”, che consiste nella bollitura in acqua (con temperature comprese fra i 70 e i 90° C) con sali metallici o con i cosiddetti mordenti. Dopo questo trattamento, il supporto viene immerso nel bagno di colore, dove rimarrà per il tempo necessario. Quando si tingeva con i colori naturali estratti dalle piante, la lana veniva suddivisa in matasse e per fissarne il colore bollita per un’ora nell’acqua dove preventivamente era stato sciolto il mordente (allume di rocca, anticamente estratto in giacimenti naturali). Dopo questa operazione, secondo il colore scelto, veniva bollita la parte della pianta (fiori, foglie o scorze) in acqua, per estrarre la proprietà tintoria. Una volta estratto il colore si immergeva la lana nella tintura e la si faceva bollire per il tempo prescritto.

Le tintorie, a causa dell’odore cattivo che emanavano, erano sempre confinate ai margini della città o fuori dalle mura, vicine a fiumi, torrenti o al mare dove era possibile scaricare i liquami di scarto. Chi lavorava all’interno delle tintorie, in Italia meridionale erano gestite in epoca federiciana (prima metà del XIII secolo) dagli ebrei, era considerato un marginale, nella maggior parte dei casi si trattava di servi o di lavoratori stagionali. Inoltre il tabù ‘dell’impurezza’ e della ‘sporcizia’, fortemente sentito nella società medievale, ricadeva su tutti coloro che lavoravano nel settore tessile: tintori, follatori (la follatura era un’operazione con la quale si facevano restringere e feltrare i panni di lana sottoponendoli a pressione, previa imbibizione in liquido adatto) e tessitori. Nelle Fiandre del XIV secolo le donne disprezzavano gli operai tessili che ritenevano repellenti a causa della puzza di urina che si portavano addosso e delle loro ‘unghie blu’, segno distintivo della vile attività.

Gli ebrei erano specializzati anche nel campo tessile e serico, lavori notoriamente ritenuti ‘sporchi’. Nel 1231 l’imperatore affidò alla sola comunità ebraica di Trani il monopolio della produzione della seta, solo successivamente estese il diritto a quelle di Napoli, Capua e Lanciano. A Taranto Federico II concentrò tutte le attività tintorie nel quartiere di Turipenna; intorno al 1230 vennero svolte delle inchieste per definire i diritti arcivescovili sulle decime della beccheria e della tintoria di Taranto, precedentemente concessi dai sovrani normanni. In questi documenti ci sono informazioni relative alla riorganizzazione e al potenziamento della tintoria della Giudecca, che era stata riparata a spese imperiali. A tale proposito Federico II il tre ottobre del 1231 inviò una lettera al direttore della tintoria ordinando che Omnes panni ipsarum parcium, qui tingendi sunt, non alibi quam in eadem tinctoria tingentur, cioè “Tutti i panni di queste parti, che devono essere tinti, non siano tinti in altro luogo che in questa stessa tintoria”.

Tutti noi oggi sappiamo che la percezione del colore è un fatto soggettivo, dovuto all’interazione tra fisiologia dell’occhio, mondo esterno e luce. Per l’uomo medievale le cose stavano altrimenti.
La filosofia scolastica riteneva il colore una “qualità” oggettiva inerente alle cose e distingueva tra colori reali e apparenti. Addirittura teologi e Padri della Chiesa trattavano i colori in base alla Bibbia, come il riflesso di un ordine del mondo fisico, metafisico e morale da cui derivava la simbologia dei colori nella liturgia e nell’arte sacra. E i colori luminosi del paradiso dantesco ne sono l’esito letterario più vistoso e conosciuto.
Teorie filosofiche e teologiche a parte, l’uomo medievale, l’uomo comune, non aveva dubbi nel ritenere il colore una realtà a tutti gli effetti. Tale Courtois, autore di un trattato “Il blasone dei colori” (secolo XV) aveva idee in proposito che dovevano essere universalmente note quando affermava “Dio creò i colori naturalmente come le altre cose, essi procedono dai 4 elementi della natura. Il colore è l’estrema purezza dei corpi ove esso (dio) è racchiuso”.
I coloranti che noi oggi usiamo per i tessuti sono raramente naturali e più spesso chimici e anche se non ne conosciamo la composizione precisa, non hanno nulla di misterioso. Sono prodotti artificiali manipolabili a piacimento. Considerandoli invece qualità, nel Medioevo non c’era distinzione tra colori e coloranti: la natura ne era comunque impregnata, proprio come la stoffa veniva impregnata dal tintore.
I coloranti di sintesi non esistevano, erano tutti naturali e dominava l’idea che si dovessero carpire alla natura come se fossero dei segreti. Da qui l’alone di mistero che circondava, tra ricettari tramandati da abili artigiani, speziali, alchimisti e dottori, la professione del tintore che era al tempo stesso apprezzato socialmente e disprezzato: dava bellezza (colore) alle stoffe ma per farlo si sporcava, insudiciava le acque e le sue pratiche alteravano i processi naturali, dunque erano sospette!
La tintura dei tessuti veniva eseguita in grossi recipienti, secondo un procedimento in uso da secoli. Il tessuto era immerso nel colorante e agitato per ottenere una colorazione uniforme.
Nel più semplice procedimento di tintura (tintura al tino), il materiale tessile, immerso nel colorante, era portato gradualmente al punto d’ebollizione e agitato in continuazione, per facilitare la penetrazione completa nel tessuto. A seconda del tipo di fibra e del colorante usato, si aggiungevano sali o acidi che miglioravano l’assorbimento del colorante. La difficoltà principale nella tintura di filati e tessuti misti era quella di ottenere la stessa gradazione di colore su ogni tipo di fibra. In epoca comunale, addirittura, si distingueva fra artigiani della “piccola tinta”, alle prese con i coloranti meno nobili e costosi, e quelli della “grande tinta”, che poteva disporre dei pigmenti più pregiati quali indaco, robbia, kermes e altri pigmenti preziosi.
Il tabù “dell’impurezza” e della “sporcizia”, fortemente sentito nella società medievale, ricadeva su tutti coloro che lavoravano nel settore tessile: tintori, follatori e tessitori. Nelle Fiandre del XIV secolo le donne disprezzavano gli operai tessili che ritenevano repellenti a causa della puzza di urina che si portavano addosso e delle loro “unghie blu”, segno distintivo della vile attività.

Gli aspetti sociali della tessitura: la condizione femminile
“Il cavaliere Yvain varcò la soglia davanti al portinaio; trovò un salone spazioso e in fondo un cortile recinto di grossi pali aguzzi. Ed egli scorse tra i pali circa 300 fanciulle che facevano diversi lavori con fili d’oro e di seta. Fili d’oro e di seta lavoravano ciascuna meglio che sapeva, ma tale povertà avevano che al petto e ai fianchi erano tutte scavate e le loro camicie sul dorso sporche, i colli esili, i volti pallidi di fame e malessere avevano. Egli le vede, loro lo vedono, tutte abbassano lo sguardo…”.
Gli aspetti sociali della tessitura: la condizione femminile “Il cavaliere Yvain varcò la soglia davanti al portinaio; trovò un salone spazioso e in fondo un cortile recinto di grossi pali aguzzi. Ed egli scorse tra i pali circa 300 fanciulle che facevano diversi lavori con fili d’oro e di seta. Fili d’oro e di seta lavoravano ciascuna meglio che sapeva, ma tale povertà avevano che al petto e ai fianchi erano tutte scavate e le loro camicie sul dorso sporche, i colli esili, i volti pallidi di fame e malessere avevano. Egli le vede, loro lo vedono, tutte abbassano lo sguardo…”.

"da http://www.cantierenavipisa.it/web-data ... anduri.pdf e http://www.historiabari.eu/Articoli/Tes ... dioevo.htm"
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