ECONOMIA E COMMERCIO

Commercio, istituzioni, usi e costumi, istruzione...
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Veldriss
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ECONOMIA E COMMERCIO

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Appunti

Piccole imprese mercantili: La struttura commerciale si era sviluppata in modo tale che nell'area erano presenti diverse piccole imprese mercantili che svolgevano affari su base locale e su scala piuttosto piccola.

Imprese mercantili locali: La struttura commerciale si era sviluppata in modo tale che nell'area erano presenti diverse imprese mercantili locali che svolgevano affari con luoghi distanti e su vasta scala.

Zecca: Grazie a un sistema regolato di conio e rappresentanti ufficiali che gestivano le zecche, esisteva un efficiente sistema monetario la cui importanza non può essere sottovalutata. Questo fu un passo essenziale per superare l'economia basata sul baratto e andare verso una società protocapitalista.

Corporazioni: Le corporazioni di arti e mestieri nacquero con la sempre maggiore specializzazione del lavoro. Un gruppo di artigiani con la stessa occupazione (per esempio fornai, calzolai, scalpellini, carpentieri ecc.) si associava per avere protezione e per aiutarsi reciprocamente. Poiché queste corporazioni divennero più importanti delle vecchie corporazioni mercantili, i loro capi iniziarono a esigere la partecipazione al governo delle città. In breve tempo nessuno, in una città, poté esercitare un'attività artigianale se non apparteneva alla relativa corporazione. Lo scopo delle corporazioni era il mantenimento del monopolio di un particolare mestiere, soprattutto contro gli estranei. Per esempio, i fabbricanti di finimenti da cavalli si riunivano e calcolavano quanto dovessero essere i proventi della loro attività, poi consentivano l'apertura del numero di botteghe che il settore era in grado di sostenere. Quando furono create, le corporazioni rafforzarono e protessero il lato produttivo dell'economia, ma al termine del periodo medievale rallentavano lo sviluppo economico e lo rendevano una produzione protocapitalistica, a causa delle loro tendenze monopolistiche.

Imprese mercantili rinomate: La struttura commerciale si era sviluppata in modo tale che nell'area erano presenti diverse imprese mercantili affermate che svolgevano affari su vasta scala e dominavano il commercio in una o più aree. Queste famiglie erano note in tutta Europa per le loro ricchezze e il loro potere.

Contratti d'affari: Con la formalizzazione di un contratto d'affari redatto in termini legali diminuirono i rischi connessi a una transazione, e divenne possibile risolvere in tribunale le dispute commerciali. Il riconoscimento delle "regole del gioco" regolò gli affari e il commercio.

Cambiale: Un impegno senza condizioni a pagare una determinata somma di denaro, entro un periodo stabilito, al portatore o alla persona precisata sulla cambiale. Le cambiali venivano generalmente usate come prove scritte di un debito. Questa innovazione rese più facili le transazioni economiche su larga scala e quindi aumentò notevolmente la possibilità di commerciare grosse quantità di merci.

Lettere di credito: In origine fu creata per dare credito a un cliente, ma poi si passò a utilizzarla per pagare qualsiasi debito, nazionale o straniero. Le lettere di credito venivano normalmente usate nelle transazioni commerciali in cui il venditore e l'acquirente erano distanti. Ciò semplificò soprattutto il commercio su larga scala, perché l'acquirente non doveva trasportare grosse quantità d'oro che avrebbe dovuto difendere con una piccola armata di mercenari. Le lettere di credito rivoluzionarono gli affari.

Contabilità in partita doppia: Una nuova forma di contabilità, introdotta dai banchieri italiani per avere un quadro chiaro di tutte le transazioni, sia del denaro in uscita che di quello in entrata. Ciò rese realizzabili gli affari su larga scala e ridusse le frodi degli impiegati.

Ufficio estero: Le imprese mercantili che effettuavano molte transazioni di grandi quantità di merci in luoghi lontani presto iniziarono a istituire uffici esteri su base permanente. Ciò diede grande flessibilità alle loro attività economiche e rese costante il flusso di merci importate ed esportate lungo le rotte commerciali.

Traversate annuali: Con lo sviluppo di vascelli robusti e idonei alla navigazione, i commercianti iniziarono a effettuare regolari traversate annuali tra l'Atlantico settentrionale e il Mediterraneo, il che rese possibile uno scambio su vasta scala di merci all'interno dell'Europa.

Fiere locali: Le fiere locali si svolgevano nelle città durante le festività religiose. Tali fiere divennero non solo luoghi d'incontro e di divertimento, ma anche importantissimi mercati temporanei in cui contadini e cittadini potevano acquistare e vendere merci non di uso quotidiano. Talvolta le fiere, come nel caso del Lussemburgo, si specializzavano e ciò faceva aumentare le loro dimensioni e l'interesse che suscitavano.

Commercio a distanza: L'avvio del commercio con mercati lontani non solo produceva alti profitti, ma dava anche la possibilità di acquistare beni ancora sconosciuti e di acquistare le merci comuni a prezzo inferiore. Le rotte commerciali come Londra-Venezia, Lubecca-Novgorod, Parigi-Danzica o Siviglia-Firenze erano classificate "rotte di commercio a distanza" dai mercanti che le usavano.

Commercio esotico: L'avvio del commercio con mercati esotici non solo produceva altissimi profitti, ma dava anche la possibilità di acquistare beni ancora sconosciuti e di acquistare le più comuni merci esotiche a prezzo inferiore e in maggiore quantità. Le rotte commerciali tra qualsiasi paese dell'Europa occidentale o orientale e qualsiasi città del Medio Oriente e dell'Egitto erano classificate "rotte di commercio a distanza" dai mercanti che le usavano. In realtà quelli erano solo mercati di transito, perché le merci spesso provenivano dalla Persia, dalla Cina e dall'India. Storicamente ne derivò un grande deficit commerciale, perché i beni venduti in Oriente erano raramente costosi come quelli acquistati nei mercati di transito.

Fiere internazionali: Via via che aumentava il volume commerciale e i grandi porti divenivano città molto importanti, le fiere locali in diverse regioni si svilupparono e diventarono fiere internazionali specializzate che offrivano tutti i prodotti esistenti di un tipo specifico.
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SVILUPPO DEL COMMERCIO E ORIGINI DELL'ATTIVITÀ BANCARIA

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L’epoca immediatemente successiva alle prime crociate, si caratterizza per un forte incremento del commercio interno ed internazionale.
Il Mediterranneo rappresenta il crocevia principale degli scambi tra Oriente ed Occidente e viceversa.
Protagoniste di questi scambi furono le quattro Repubbliche Marinare di Genova, Venezia, Pisa e Amalfi.
Nello stesso bacino, operarono con buon successo anche le città marittime della Francia meridionale e della Catalogna; fra queste erano particolarmente attive Marsiglia e Barcellona.
I porti del Mediterraneo orientale erano il punto di arrivo delle merci provenienti dalla via della seta, che dalla Cina, attraversando l’Asia centrale e la Persia, terminava il suo percorso in Asia Minore e in Siria.
Un’altra importante via commerciale partiva dall’India e l’Estremo Oriente, passando per il Mar Rosso e quindi ancora per via terra fino a raggiungere Alessandria d’Egitto.
Le navi provenienti dall’Italia caricavano le merci nei porti di Trebisonda, Costantinopoli, Alessandria d’Egitto e negli altri porti del Levante; si trattava in massima parte di merci molto preziose e rare provenienti dalle varie zone dell’Asia: zucchero, cotone, medicinali, essenze profuamte, incenso, preziose sete cinesi, fili d’oro e d’argento provenienti dall’Asia Anteriore, stupendi tappeti persiani, avorio africano, porcellane cinesi, perle e pietre preziose indiane e molte altre merci rare.
Tutti questi prodotti di lusso potevano essere acquistati solo da pochi, dato il loro costo di mercato, dando quindi origine ad un modesto volume di traffico.
Questo traffico era concentrato in poche città, principalmente Genova e Venezia, che poi provvedevano a far giungere in tutta Europa questi prodotti, ottenendo guadagni favolosi.
In cambio di queste merci, l’Occidente inviava panni di lana, armi, vini pregiati, oli, e legname; ma in genere queste merci non valevano tanto da controbilanciare il valore delle importazioni e pertanto la differenza doveva essere pagata in oro e argento, indebolendo quindi l’Europa di questi metalli.
Fiorente era anche il mercato degli schiavi, che venivano acquistati nella Russia meridionale e poi rivenduti sui mercati orientali.
Nell’altra importante area commerciale, il Mare del Nord, le città tedesche e fiamminghe avevano un ruolo primario; esse esportavano i loro prodotti industriali, importando il legname e il catrame dei boschi del Nord necessari per l’allestimento delle navi delle proprie flotte, pelli e lana dall’Inghilterra, pellicce, cuoio e suini dalla Russia, pesce salato e affumicato dai paesi del Nord.
Oltre ad effettuare questi traffici, gli armatori di Brema, Amburgo, Lubecca e Amsterdam distribuivano tutte le merci provenienti dal Mediterraneo.
Essi proponevano quindi un tipo di commercio diversificato: non solo merci pregiate, ma anche materie prime utili allo sviluppo dell’industria e prodotti di prima necessità e quindi con un maggiore bacino d’utenza.
Pur esendo inferiore come traffico a quello del Mediterraneo, esso riuscirà a conservarsi per poi rifiorire in epoca moderna permettendo così lo sviluppo dell’Europa settentrionale, nel momento in cui il commercio sul mediterraneo entrerà in crisi.
Queste due grandi aree commerciali erano unite tra loro da due collegamenti principali: il primo, attraverso i passi alpini, collegava Venezia e l’Italia con la città di Augusta, il fiume Reno e la Germania; il secondo vedeva le navi genovesi e veneziane, circumnavigare Spagna, Portogallo e Francia, per portare le loro merci in Inghilterra e nelle Fiandre.
Per la distribuzione all’interno dei vari paesi, si utilizzavano le vie dàacqua interne, ricorrendo alle vie di terra quando proprio non se ne poteva fare a meno.
Era una tipologia di commercio resa difficile e pericolosa dalla scarsezza di strade e ponti in buone condizioni, dagli innumerevoli diritti di pedaggio richiesti dai feudatari ed infine a causa delle numerose bande di fuorilegge che non si facevano scrupolo di uccidere per procurarsi le ricchezze alle quali ambivano.
Tutte queste cause portavano ad una levitazione dei prezzi, rallentando lo sviluppo del commercio.
Nonostante i molti progressi nel settore, l’economia europea continuava ad essere un’economia naturale, nel senso che si consumava solo ciò che si produceva personalmente.
Nelle città, gli stessi artigiani non disdegnavano di coltivare un proprio poderetto o allevare qualche animale domestico per i propri bisogni,dato che gli utili della propria professione non sempre garantivano di poterli soddisfare.
Frequenti carestie erano dovute a cattivi raccolti o all’impossibilità d’importare derrate alimentari da altri paesi; Venezia, unica città che riusciva ad essere sempre abbondantemente rifornita di tutto ciò che era necessario alla vita, rappresentava un caso rarissimo nella stessa penisola italiana, che era il Paese più economicamente florido del Medioevo europeo.
Nelle città, i mercanti costituivano proprie corporazioni che spesso erano le più importanti del Comune; in alcuni casi poteva capitare che si ritrovassero nella stessa corporazione artigiani e mercanti operanti nello stesso ramo di attività.
Si diffusero poi unioni di mercanti operanti in città diverse, che vennero chiamate ghilde o hanse: la più famosa fu l’Hansa delle città renane e del Mare del Nord, che si trasformò in un’alleanza mercantile, politica e militare tra diverse città, disponendo inoltre di proprie flotte e di eserciti; nel periodo di maggiore potenza essa riunì oltre 80 città tedesche e fiamminghe.
Una speciale forma di commercio fu quella relativa al denaro: la diversità tra le varie monete coniate da re, imperatori, feudatari e dalle città economicamente più importanti, rese necessaria la diffusione del nuovo mestiere del cambiavalute.
Già dall’Alto Medioevo, i cambiatores furono fra i personaggi più ragguardevoli del commercio cittadino.
Disponendo di grandi quantità di denaro liquido, essi iniziarono a prestarlo a tassi elevatissimi, gettando così le basi del sistema bancario.
Ai cambiavalute si affiancarono i grossi mercanti, che ai proventi del commercio aggiunsero quelli derivanti dal prestito ad usura.
L’esercizio del credito venne incrementato e favorito dall’estensione del commercio interno e internazionale, che comportò la necessità di spostare grandi quantità di denaro anche fra paesi lontani; quindi le grandi compagnie e le case commerciali, soprattutto quelle italiane, unirono con sempre maggiore continuità il commercio dei panni o quello delle spezie all’attività bancaria svolta a favore dei poropri clienti o di chiunque si fosse rivolto a loro.
In Toscana quest’attività venne agevolata dal fatto che le banche e le case mercantili di Siena, Lucca ed in seguito soprattutto di Firenze, vennero incaricate di riscuotere l’obolo di San Pietro e le altre entrate della Curia romana all’estero.
Inizialmente lo svolgimento delle attività bancarie venne attribuito agli Ebrei, essendo ad essi precluse, a causa delle persecuzioni in atto, tutte le altre attività economiche; in genere essi non riuscirono mai ad andare oltre al piccolo credito su pegno, mentre il grande credito fu quasi sempre ad appannaggio degli italiani, in modo particolare dei toscani, che in Francia ed in Inghilterra venivano chiamati lombardi.
Ancora oggi molti termini del linguaggio bancario internazionale sono di chiara origine italiana.
Ai banchieri italiani si affiancarono successivamente banchieri stranieri, come ad esempio i caorsini, che presero il nome dalla loro città d’origine, Caors, in Francia.
I tassi d’interesse nel Medioevo erano altissimi e giungevano fino al 60% annuo, poichè la mancanza di sicurezza rendeva piuttosto improbabile la restituzione del prestito.
A tutto questo occorre aggiungere che la Chiesa condannava il prestito a usura, ma questo ostacolo veniva aggirato facendo figurare gli interessi inclusi nel capitale, oppure concedendo il prestito per il primo mese senza interessi, ma inserendo nelle clausole di concessione un forte indennizzo per ogni mese di ritardo nella restituzione.
Ma queste pratiche disoneste, unite agli alti tassi richiesti per i prestiti, comportarono un rallentamento dell’attività economica.

da http://www.tuttostoria.net
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Gran Tavola

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La Gran Tavola dei Bonsignori (o Bonsignore) fu la più importante banca a livello europeo nel Duecento.

Il contesto socio-storico
Gli albori dell’anno 1000 vedono Siena come una comunità guidata in maniera autarchica. La situazione socio-economica di Siena rispecchia quella di tutte le comunità dell’epoca, lontane ancora dagli sviluppi comunali. Vige una vita di sussistenza, povera e basata esclusivamente sulla terra che è per la maggior parte della Chiesa, che costituisce l’epicentro di una società gerarchizzata e sottomessa.
Siena, tuttavia, possiede una risorsa straordinaria, al momento sopita, ma pregna di eccezionali sviluppi che sarà la base di una evoluzione socioeconomica impressionante, con conseguenze importantissime sia sul piano regionale che su quello internazionale. Questa risorsa è la strada che l’attraversa da Nord verso Sud, grosso modo quella che oggi va da Porta Camollia a Porta Romana. Siena ha l’enorme fortuna, presto riconosciuta e sfruttata dai suoi cittadini, di essere posta lungo un percorso che porta dal nord dell’Europa a Roma e verso quei luoghi del Sud d’Italia che costituiscono le teste di ponte per le Crociate. È una posizione geografica strategicamente eccezionale, specie dopo che, per motivi di sicurezza, è stato abbandonato il percorso costiero. Strategica non solo sotto l’aspetto militare ma per le opportunità economiche che offre a chi sa sfruttarle, basti pensare che da Siena passano Re, Imperatori e Papi con tutto quello che ne consegue.

Il XIII ed il XIV
Il XIII ed il XIV sono i secoli della grande mercatura e delle grandi banche, attività che quasi sempre sono svolte simbioticamente da uno stesso soggetto, prima mercante, poi prestatore quindi banchiere. Mercanti-banchieri che dominano le piazze commerciali e finanziarie internazionali prima dei fiorentini; percorrono l’Europa inseguendo gli affari più profittevoli del momento influenzandone l’economia ed anche la politica. Sono imprenditori che molto spesso crescono all’ombra del Papato di cui sono Campsores Domini Pape, appaltatori dei tributi ed esclusivi banchieri di fiducia. Molto elevato era pertanto il flusso di denaro gestito dai banchieri senesi e questo concentrava poterenelle loro mani.

I banchieri senesi
I banchieri senesi sono imprenditori capacissimi, spietati ed esosi, spesso accusati dai contemporanei di essere nefandi usurarii, accusati a volte dagli stessi sovrani che finanziano. Sono, tuttavia, professionali e seri, ma soprattutto anticipatori di tecniche mercantili e bancarie che divengono punti di riferimento per il modo degli affari dell’epoca. Questi mercanti-banchieri, nel ‘200, si trovano ovunque ed in posizioni di primaria importanza, protagonisti economici del secolo. La Champagne, con le sue fiere di Troyes, Provins, Aube ecc., è il loro teatro privilegiato; prestano ai nobili di questa regione, al Re d’Inghilterra, al re di Aragona, al Papa, ad altri mercanti ed imprenditori più o meno grandi. Si distinguono dai cosiddetti Lombardi di Asti e dai genovesi per la completezza ed universalità dell’attività bancaria: è la banca universale ante litteram che nasce.

I Bonsignori
È in questo contesto che emerge Orlando Bonsignori e la sua Gran Tavola.
Le origini dei Bonsignori si perdono nel medioevo senese. Il padre è Bonsignore di Bernardo, piccolo-medio mercante, che in società con altri ha l’appalto della dogana del sale di Siena e Grosseto. Seppur non di condizione modesta i Bonsignori (o Bonsignore) non provengono dalla grande aristocrazia terriera.[1] Questo non impedì loro di divenire i banchieri più importanti e influenti del Duecento e la loro banca, la Gran Tavola, fu senz'altro la più grande banca europea dell'epoca.
Orlando con il fratello Bonifazio sviluppa l’attività bancaria iniziata dal padre portandola a livelli eccelsi, sempre all’ombra e sotto la protezione del Papa Innocenzo IV di cui gestiscono i tributi e le finanze. Sono entrati, come si dice, nel salotto buono della finanza internazionale e dalla porta principale.

La fondazione della Gran Tavola
Nel 1255, dopo la morte del fratello Bonifazio, Orlando Bonsignori forma una società in cui entrano oltre a dei parenti anche degli estranei al consorzio parentale, altri mercanti che investono sostanzialmente su Orlando Bonsignori. Questi dirige la Gran Tavola, come è chiamata la banca, direttamente senza consentire intromissioni di altri. La banca ben presto assurge ad un livello altissimo di potenza economico-finanziaria. Ha l'esclusiva del deposito di tutte le somme incassate dalla Chiesa cui si aggiunge col papa Clemente IV l’esazione di tutte le decime e delle quote destinate alla Terra Santa.
La Gran Tavola finanzia, fra l'altro, Carlo IV d'Angiò nella guerra contro gli Svevi per la conquista dell'Italia meridionale e di quello che fu il Regno normanno-svevo di Sicilia. Il Bonsignori si inserisce così da protagonista nel grande gioco della politica internazionale contribuendo finanziariamente all’eliminazione fisica degli epigoni di Federico II ed al ridisegno della carta geopolitica dell’Italia. È dalla parte dei vincenti, il Papa ed il nuovo Re di Sicilia Carlo IV d’Angiò, presso i quali accumula crediti politici e finanziari che lo rendono sempre più potente. Oltre che un grandissimo banchiere è un abile politico, sempre in sintonia con il Papa, la cui benevolenza nei suoi confronti sarà dimostrata quando, caso unico a Siena, lo escluderà dal boicottaggio che aveva proclamato contro i mercanti-banchieri senesi, tradizionalmente ghibellini.
La Gran Tavola si identifica con Orlando Bonsignori, ormai all'apice dell'empireo finanziario mondiale contemporaneo, conteso ed invidiato, che, consapevole della propria forza e capacità, si dimostra abile ed inflessibile nel perseguire i propri fini: ecco, per dirla con Chiaudano, un Rothschild del '200. Il Bonsignori da alla banca un'organizzazione efficientissima con succursali nelle principali piazze finanziarie dell'epoca. I suoi clienti sono Regnanti, Papi, grandi e piccoli mercanti verso i quali la sua specializzazione, oltre ai prestiti, è il cambio che consente enormi profitti. Sviluppa un sistema di cambi che durerà fino alle soglie del XIX secolo. La fiducia internazionale capitalizzata gli consente di intervenire negli affari più lucrosi.

Il fallimento della Gran Tavola
Il successo della Gran Tavola è così personale e legato strettamente ad Orlando Bonsignori che quando questi muore, nel 1273, inizia il declino che la porterà al suo fallimento. La direzione della banca passa al figlio maggiore Fazio, ma al contempo si assottigliano quelle relazioni personali del padre che hanno contribuito alla sua fortuna.
È cambiato anche lo scenario finanziario, nuovi protagonisti crescono e si presentano in una concorrenza sempre più spietata e spregiudicata. Firenze cresce sotto la spinta della propria economia il cui simbolo, il fiorino d’oro, si va imponendo. I mercanti-banchieri fiorentini, sempre più aggressivi ed efficienti, sottraggono quote di mercato in una competizione che vedrà perdente Siena.
La Gran Tavola si trasforma, escono alcuni soci storici e ne entrano di nuovi, ma non avrà fortuna: manca quell’elemento unificante e quel carisma tipico di Orlando Bonsignori che ne aveva fatto il massimo banchiere dell’epoca.
Si susseguono liti e diffidenze tra i soci, si impongono controlli incrociati che finiscono per ingessare la banca: è l’inizio della crisi, presto irreversibile. Si perdono contatti e contratti a favore di altri banchieri. La Gran Tavola ha perso il suo motore, Orlando, ed i suoi successori, non all’altezza della situazione, sono inidonei a condurre una grande banca. A tutto ciò si aggiunge la difficoltà o l’impossibilità di recuperare dei crediti con lpxa conseguente crisi di liquidità. Si arriva allo stallo finanziario e poi alla rovina ovvero al quel dissesto che si consumerà nei primi anni del XIV secolo.
Il fallimento della Gran Tavola ebbe una grande risonanza per le personalità e le somme che erano in gioco e per le ricadute negative sul mondo economico-finanziario senese. I successori di Orlando Bonsignori, tuttavia, riuscirono a tacitare i propri creditori con una serie di transazioni anche molto onerose, salvando così l’onore. Altri grandi banchieri senesi, i Piccolomini, i Tolomei, i Salimbeni ecc., s’imporranno, anche in maniera più duratura, ma senza assurgere all’altezza di Orlando Bonsignori.

La famiglia si trasferisce in Sicilia
I Bonsignori (conosciuti, dal Seicento in poi come Bonsignore o de Bonsignori) si sposteranno nei secoli a venire in Sicilia, a Trapani, dove continueranno le attività bancarie, per poi stabilirsi a Castelvetrano e in altre località. Attualmente i Bonsignore vantano numerosi discendenti, che si dividono fra il ramo principale e quelli cadetti, principalmente nelle città di Castelvetrano e Palermo.

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Orlando Bonsignori

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Orlando Bonsignori (... – 1273) è stato un banchiere italiano. Occupa fra i banchieri del Duecento e non solo senesi, una posizione apicale, sia per l'enorme patrimonio finanziario costruito ed investito sia per le valenze politiche che la sua attività aveva sviluppato. È un banchiere a tutto tondo e la sua banca, la Gran Tavola, può essere considerata l'antesignana della banca universale.

Biografia
Era figlio di Bonsignore di Bernardo, mercante senese che aveva l'appalto della dogana del sale di Siena e Grosseto. Il suo grande merito e al contempo la sua grande fortuna fu quella di trasformare la compagnia bancaria cui il padre diede inizio nei primi anni del Duecento, rendendola la più importante banca del secolo a livello internazionale, la Gran Tavola.
Alla sua morte, Orlando Bonsignori lasciò la moglie Imiglia e sette figli: Niccolò (da non confondere col più noto cugino Niccolò Bonsignori figlio del fratello Bonifazio) Fazio, Meo, Bonsignore, Ugone, Guglielmo e Gemmina.

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LUCCA: LA CAPITALE DELL'ARTE SERICA

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"Articolo estrapolato dalla rivista MEDIOEVO - maggio 2011"

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LE CORPORAZIONI E LE CONFRATERNITE

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Una delle tante eredità che l’antichità lasciò al medioevo furono i primi prototipi di corporazioni.
Più o meno chiaramente e direttamente ma è certo che i corpi e collegia romani furono i primi esempi di quelle che poi, nel medioevo, diventeranno, appunto, le corporazioni.
Tralasciando i motivi della loro nascita, mi limito solo a far sapere che le difficoltà imperiali, obbligavano queste collegia a un vincolismo rigido.
Era quindi impossibile l’abbandono di un mestiere da parte di chi lo esercitava: un figlio di un calzolaio doveva fare per forza il calzolaio e così via…
Questi vincoli sono da ricercare nelle varie riforme che l’imperatore Diocleziano (284-305) attuò nel corso del suo governo.
Ma tale vincolismo ebbe effetti negativi sui lavoratori: scoraggiò, ma non eliminò del tutto la fuga dei mestieri e svuotò di ogni elasticità e dinamicità l’economia romana tardo-imperiale.
Nel V secolo si ebbe una liberalizzazione dei mestieri per poi tornare alla rigidità con il periodo ostrogoto in Italia, per ovviare alla crisi di produzione.
Nel mondo barbaro, il lavoro è considerato ai livelli più bassi; questo significa che andarono perdute ogni forma di associazione che non producesse beni di pubblica utilità.
Non diversa era la concezione nella sfera bizantina, ove erano solo strumenti totalmente subordinati all’impero.
Qual’è dunque l’anello mancante tra le corporazioni medievali e i rudimentali strumenti dell’antichità e del primo periodo dell’ età di mezzo?
Tale anello sembrerebbe essere quell’ organizzazione franco-longobarda di età ottoniana (metà X secolo).
La prova di questo è da ricercarsi in un documento: le Honoratie civitatis Papie un documento dell’XI secolo.
Gli artigiani che praticavano lo stesso mestiere erano riuniti in ministeria; tali strumenti erano solo “espressioni di un sistema vincolistico sopravvissuto” sia per l’area del nord Italia, sia per l’area bizantina.
Ma molti erano i contrasti tra i ministeria e il potere politico che le vincolava e frenava i il loro dinamismo economico.
E qui nascono le differenze locali: si va dall’episodio più eclatante di Pavia nel 1025 ove ci fu una vera e propria rivolta a episodi più morbidi, con coesistenze tra le due diverse forme.
A Pisa, nel XII, il commercio del vino, grano e dell’olio, dipendevano ancora dal visconte etc…ossia, diritti pubblici esercitati sui mestieri dell’approvvigionamento della città.
Ma anche altre corporazioni protrassero per tutto il medioevo questi vincoli di ministerialità: fabbri, muratori, acquaioli…
Anche servizi pubblici ben più ampi e straordinari venivano esercitati facendo svolgere ai propri membri una funzione di vigili del fuoco e altri casi di emergenza. Dal XII secolo però queste associazioni si svincolano dal potere e si incentravano sul libero associazionismo, dal rapporto confraternale e di mutuo soccorso. Difatti prima del XIII secolo è difficile fare una distinzione tra corporazioni e confraternite e anche quando ciò avvenne, esse conservarono molti aspetti comuni. Le corporazioni però accentuavano sempre più la loro vocazione economica eliminando forme di concorrenza, garantendo un prezzo di mercato (o calmierato). Non è un caso inoltre che dal XII secolo compaiono sempre più atti pubblici firmati da arti o dai loro “capi” insieme ai rappresentanti del potere politico.
Com’era organizzata una corporazione?
Al suo vertice c’erano i maestri che dettavano le direttive, la proteggevano da fuoriuscite di tecniche e conoscenze, redigevano gli statuti e tenevano rapporti coi lavoratori subalterni.
Si diventava maestro solo dopo un lungo periodo di apprendistato: il discepolo lavorava e viveva insieme al maestro.
Modi, tempi e costi furono presto regolamentati: si andava dal notaio tra la famiglia dell’ apprendista e il maestro, si controllava la provenienza, in alcuni casi si controllava perfino che non avesse vincoli con qualche signore…insomma, l’ingresso all’apprendistato era molto difficile, generalmente non più di due per maestro.
L’apprendista pagava il maestro che, in cambio di vitto e alloggio, aveva anche manodopera a costo zero.
L’inizio avveniva quando il ragazzo aveva dodici o quattordici anni e variava anche il numero totale di anni di apprendistato.
Il tempo passato in apprendistato era molto importante, perfino più della prova finale.
Tale prova, il capolavoro cioè un manufatto realizzato a regola d’arte che l’allievo doveva presentarlo ai maestri per ricevere il permesso di entrare nella corporazione (dietro anche a una tassa di accesso).
Ma non erano cose fisse: se gli affari andavano male e c’era una crisi generale, i tirocini e le tasse aumentavano, viceversa diminuivano se era un periodo economicamente florido.
Ma c’erano altre difficoltà quali, ad esempio, il fatto che non tutti potevano permettersi una risorsa che non solo era immobilizzata ma che in più richiedeva un costo per il suo mantenimento dal maestro. Inoltre non era nemmeno facile aprire in proprio una bottega. Infatti era cosa molto comune che i figli degli artigiani stessi seguissero le orme paterne ereditando la bottega e il lavoro.
I maestri detti “forestieri”, uomini provenienti dalle altre città ma anche da altri paesi, erano spesso presenti nei periodi di espansione economica, e per entrare in una corporazione, prendevano la cittadinanza e pagavano una tassa di immatricolazione.
Invece nei momenti di difficoltà economica potevano nascere frizioni tali da comportare, in casi limite, la creazione di due corporazioni per lo stesso mestiere: una composta dai locali e l’altra dai forestieri.
Molto forte era la rete di solidarietà all’interno delle corporazione e confraternite: nei confronti di membri ammalati o feriti si facevano sovvenzioni alla sua famiglia; per i defunti si esercitava la pietas degli altri membri.
I lavoratori stranieri, soprattutto nel Quattrocento e Cinquecento, avevano a loro disposizione ospedali riservati all’accoglienza di lavoratori della loro natio. E le donne?
Il rapporto donne-corporazioni fu complesso.
Nell’ Europa del Nord fu abbastanza semplice, in quanto non solo ebbero facile accesso, ma anche avevano proprie corporazioni femminili.
In Italia invece, anche nei casi previsti, esse furono sempre estromesse e in subalternità al maschio.
Questo discorso, in genere, valeva solo per alcune corporazioni come quella del tessile, alberghi, locande...ma è possibile trovare donne anche in mestieri non prettamente femminili come i fabbri, falegnami e muratori.
Ma in questi ultimi casi vi ci erano entrate solo perché il marito, defunto, gliela aveva lasciata in eredità.
Ma mille erano i modi di fare ostruzionismo nei loro confronti: tasse di iscrizione esorbitanti per loro, considerare decadute le vedove dalla corporazione etc…
Per quanto riguarda le regole di una corporazione, possiamo dire che essa ricalcava, in genere, lo statuto di un comune.
Anzi era proprio il comune a controllarne la compilazione e, in genere, i vari statuti si assomigliavano da corporazione a corporazione, tranne quelli della lana e della mercanzia che erano un po’ più diversi, data la loro estrema importanza nell’economia di una città.
In comune c’erano le regole per accedervi, le cariche più importanti, le varie disposizioni per la convivenza tra i maestri, le giornate in cui era proibito lavorare, esortazioni a esercitare il proprio mestiere con coscienza, obblighi morali e religiosi per i vari membri…raramente si può trovare delle fonti che parlano dell’ organizzazione del lavoro.
I luoghi d’Europa in cui si svilupparono maggiormente le corporazioni erano l’Italia, le Fiandre, la Francia, Penisola Iberica e alcune città tedesche.
Quello che le differenzia era come si proponevano nei confronti della politica: in Francia e nell’Italia del sud furono sempre sotto tutela regia (proprio nel sud Italia si formarono tardi, in epoca angioina).
Le confraternite europee non si differenziarono molto da quelle italiane: erano luoghi ove la priorità era la preghiera e non il lavoro.
Guardiamo meglio l’Italia centro-settentrionale.
Non sempre il binomio corporazione-comune è reale, cioè non sempre la corporazione comanda in città; questo discorso vale per Firenze dove il potere economico era identico a quello politico invece a Milano le due componenti trattavano alla pari senza però essere la stessa cosa mentre a Venezia le arti furono sempre subalterne al potere politico.
Inoltre bisogna precisare anche che l’affermazione politica del “popolo” non è identica a quella delle arti.
Il “popolo” formò proprie strutture organizzative e una sua egemonia in molte città del nord Italia ma nei luoghi dove questo non avvenne, fu il ceto mercantile e non gli artigiani, a prendere il potere.
Ma è anche vero che le arti, in certi casi, aiutarono il popolo nella sua ascesa. Resta però il fatto che “popolo”, arti, nobiltà e signori erano enti politici differenti e che erano possibili tutte le combinazioni di alleanze tra le varie componenti e non un fenomeni generalizzati.
Inoltre il “popolo”, come definizione, varia da città a città, da situazione a situazione e quindi non sempre la sua connessione con le arti è netta e precisa.
I mestieri dei Giudici e Mercanti erano talmente importanti che, soprattutto nel XII secolo, finirono per esercitare una tutela giurisdizionale anche sulle altre corporazioni (questo vale a maggior ragione per i mercanti).
I mercanti erano dunque una corporazione che tutelava i propri membri e una sovracorporazione in quanto dirigeva l’intera economia e quindi esercitava una notevole influenza anche nelle altre corporazioni.
Inoltre, per tutto il Medioevo, continuarono anche a svolgere una funzione pubblica: regolamentarono l’applicazione di pesi e misure, il diritto di rappresaglia etc… Nelle processioni laico-religiose cittadine, le varie corporazioni sfilavano a parata seguendo un ordine ben preciso, e questo ci dà l’idea della loro importanza e del peso che avevano in una città: giudici, notai e mercanti occupavano le prime file, poi venivano gli artigiani metallurgici (fabbri, orafi etc…), quelli del cuoio, l’abbigliamento.
È scontato dire che per alcune arti, il loro peso varia da città a città: i macellai (o “becchai”) erano insieme alle arti del tessile, spadai, speziali…ma altre volte erano in posizioni più marginali.
Osti e tavernieri sfilavano, generalmente, in fondo insieme al vettovagliamento, ai pittori, barbieri, falegnami.
Infine lardaioli, mugnai, facchini, vetrai e altri mestieri di basso prestigio sociale, non perché fossero inutili, ma, visto che su di loro continuava a esser ben presente un controllo comunale che li vincolava a forme di ministerialità, essi avevano ben poca indipendenza decisionale.
Non tutto il lavoro veniva organizzato in corporazioni, solo i mestieri più importanti. Chi esercitava un lavoro in maniera libera, come piccoli artigiani, era esente da una tutela, da un aiuto (non a caso, nel Trecento, quando questi si rivoltarono, chiesero di costituirsi a corporazione).
Soprattutto in certi settori, come il tessile e la lana, i conflitti tra corporazioni e lavoratori liberi erano più complessi: come un primo distacco da capitale e forza lavoro, dove si accentuavano sempre più i lavoratori specializzati rispetto a quelli che conoscevano tutta la catena di produzione e il ricorso a manodopera salariata, a un maggior controllo degli orari e della produttività.
A metà Trecento, in città come Siena e Firenze, tra le corporazioni della lana e i lavoratori salariati ci furono tumulti e frizioni.
I Ciompi fiorentini del 1378 e a Siena nel 1371 non furono altro che esempi di tali rivalità dovute, in gran parte, alla crisi del Trecento e che volevano rovesciare tutte le strutture istituzionali, quindi anche le corporazioni.
Ma se a Siena la repressione portò a un allargamento temporaneo anche ai lavoratori subalterni, a Firenze si ebbe un inasprimento.
Proprio la crisi del Trecento portò con sé una necessità di riconsiderare il lavoro corporativo, ristrutturando il modo di produzione.
Si incominciò a utilizzare la manodopera delle manifatture rurali, non inquadrate a tutte quelle regole corporative come i minimi salariali.
Inoltre le corporazioni non erano adeguate a un mercato sempre più di massa, con prodotti di minor pregio ma anche di minor costo.
Questa erosione avvenne in primis nelle Fiandre che, con una progressiva liberalizzazione, smantellò tutte le strutture corporative.
In Italia non è chiaro l’indirizzo preso.
Ci si mantenne su un indirizzo di manufatti di lusso e a una struttura delle arti e queste ultime non furono trasformate dall’economia.
Ciò che cambiò furono le istituzioni, coi signori e le famiglie, che privaronole corporazioni della loro indipendenza decisionale; si mantenne però la parte religiosa e assistenziale ma furono anch’esse inquadrate all’interno del disciplinamento ecclesiastico del Cinquecento.
Sia le corporazioni che le confraternite furono private del loro potere decisionale e divennero strumenti in mano a altri soggetti (stato, Chiesa, privati…) fino alla loro progressiva scomparsa.

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LE CORPORAZIONI ARTIGIANE NEL PERIODO COMUNALE

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Nelle città medievali la produzione di manufatti e altre lavorazioni tese alla realizzazione di oggetti di uso comune e prodotti destinati all'esportazione, veniva svolto dagli artigiani.
Ognuno di essi era un piccolo imprenditore che realizzava le proprie merci all’interno della sua bottega, utilizzando per la realizzazione delle stesse propri strumenti di produzione; tutto il denaro ricavato dalla vendita di queste merci veniva interamente intascato dal produttore.
In questo modo si otteneva l’unione nello stesso individuo del lavoro, della proprietà degli attrezzi utilizzati per la produzione, e dell’appropriazione dei ricavi derivanti dalla vendita dei prodotti venduti.
Il titolare della bottega era il maestro; con lui collaboravano un certo numero di aiutanti denominati apprendisti o soci.
Per poter avviare un’attività artigianale propria, all’apprendista era necessario un lungo tirocinio presso la bottega di un maestro, al fine di impratichirsi sui segreti dell’arte e per affinare le sue capacità, anche perchè gli strumenti in uso per la produzione, erano ancora imperfetti e piuttosto scarsi di numero; inoltre tutto il lavoro veniva svolto a mano.
Solo terminato il periodo di tirocinio, l’apprendista entrava a far parte della categoria dei soci o compagni, vale a dire degli operai finiti, che non disponendo ancora di una propria bottega, rimanevano a lavorare con il maestro fino a quando non fossero riusciti a procurarsi gli attrezzi necessari ad avviare una propria azienda.
Generalmente non occorreva molto tempo perchè ciò accadesse; infatti, per avviare una bottega non occorrevano grandi mezzi ed in tal modo nei primi secoli dell’età comunale, il socio poteva presto diventare maestro, ossia proprietario di una bottega.
Ciò avveniva solo dopo il superamento di un esame da tenersi presso la corporazione di appartenenza; questa prova consisteva nell’esecuzione di un modello di lavorazione detto capo d’opera o capolavoro, che doveva essere eseguito entro un tempo determinato.
L’oggetto da eseguire variava in base al mestiere esercitato e poteva quindi essere a seconda dei casi una scarpa, un coltello, un gioiello o altro ancora.
Superato l’esame, egli doveva offrire un banchetto in onore dei maestri dell’arte, pagare una imposta all’erario regio oppure al tesoro comunale ed elargire un’elemosina alla chiesa; solo al termine di tutti questi passaggi veniva proclamato maestro.
Quasi tutti gli artigiani residenti in una stessa città erano uniti in corporazioni di arti e mestieri che a seconda delle zone assumevano nomi diversi: in Italia esse venivano chiamate arti, fraglie, paratici o maestranze; all’estero assunsero le denominazioni di mestieri, ghilde e zuenfte.
Queste unioni nacquero per scopi economici, religiosi, di mutua assistenza e in seguito, divennero delle vere e proprie unioni politiche e militari.
In campo economico, la loro prima preoccupazione era di assicurare il lavoro a tutti i soci, esercitando una politica di controllo sulla concorrenza e sul mercato, e regolando le lavorazioni.
Queste attività erano rese necessarie dalla ristrettezza dei mercati locali, che in massima parte erano costituiti da città di piccole dimensioni, poco distanti da altre che proponevano le stesse lavorazioni e con un contado dove i contadini si fabbricavano in proprio gli attrezzi o gli oggetti dei quali abbisognavano.
Con queste condizioni, le corporazioni provvedevano innanzitutto a ripartire il lavoro disponibile tra i loro aderenti, seguendo delle regole piuttosto rigide: gli orari di apertura e chiusura erano uguali per tutti; uguali dovevano essere anche gli strumenti utilizzati per lo svolgimento dell’attività produttiva; dovevano impiegare lo stesso numero di soci e di apprendisti, acquistare la stessa quantità di materie prime, produrre la stessa quantità di merci.
Queste ultime dovevano essere conformi ai modelli e alle qualità fissate dalla corporazione.
Le pene per chi trasgrediva a queste regole, andavano dalle pene pecuniarie, alla chiusura della bottega o all’espulsione dalla corporazione di appartenenza.
Tutte queste usanze furono molto utili nei primi secoli, poichè servirono a proteggere le attività artigianali e a garantire la vita e l’attività economica delle botteghe; in seguito però, esse si rivelarono un ostacolo al progresso: infatti si arrivò a proibire l’introduzione di nuovi procedimenti e strumenti di lavoro, per il semplice motivo che essi avrebbero potuto danneggiare chi non ne avesse fatto uso, o non se li fosse potuti permettere.
Inoltre, l’ermetica protezione del mercato comunale, con il divieto di introdurvi merci provenienti da città commercialmente concorrenti, ostacolava in modo molto marcato la costituzione di un mercato unico nazionale.
La corporazione coinvolgeva i propri aderenti sotto tutti i punti di vista, non solo quelli economici: i membri di ciascuna corporazione abitavano nelle stesse vie, come si può ancora oggi desumere dai nomi di alcune strade presenti nei centri storici dele città italiane: via degli orefici, via dei calderai, via degli spadari e molte altre ancora.
Ogni corporazione aveva un santo protettore e disponeva di una propria chiesa, o quantomeno di una cappella, e di una festa annuale dedicata al proprio patrono, nel corso della quale gli affiliati sfilavano con i propri stendardi. In caso di decesso di un confratello che non disponesse di mezzi sufficienti per il funerale, la corporazione se ne assumeva le spese, assistendo inoltre la vedova e i figli, provvedendo in seguito a fornire la dote alle figlie da marito. I confratelli deceduti, venivano sepolti nella chiesa della corporazione e ogni anno veniva celebrata una messa in loro suffragio. In caso di guerra, tutti i confratelli combattevano insieme dispiegando il proprio stendardo e al comando del maestro più rispettato.
Esistevano inoltre dei tribunali corporativi che giudicavano su questioni interne alla corporazione.
Viene quindi da se che le corporazioni rappresentarono un organo estremamente importante nel contesto di quel complesso organismo rappresentato dal Comune medievale.
Nonostante la loro importanza, le corporazioni delle arti e dei mestieri dovettero lottare a lungo contro il patriziato, per poter ottenere una partecipazione al governo cittadino.
Da questi scontri ebbe origine la seconda fase della lotta politico-sociale all’interno dei Comuni, condotta dalle corporazioni artigianali contro i patrizi. Nelle città più potenti economicamente, nelle quali i grossi mercanti, gli armatori e i banchieri prevalevano per ricchezza e potenza, la lotta non fu loro favorevole; sconfitte, esse vennero escluse definitivamente dal potere, mentre i patrizi si costituivano in oligarchia chiusa, riprendendo l’esempio dell’antica nobiltà feudale.
Esempi di questo sistema di governo si ebbero in Italia a Genova e Venezia, mentre fuori dai confini nazionali, ciò avvenne soprattutto nelle più ricche tra le città tedesche.
In tutte quelle città dove invece erano numerose e ben avviate le attività industriali, i patrizi furono invece costretti a scendere a patti; a Firenze, le corporazioni più ricche e con maggior influenza, le cosiddette arti maggiori, ottennero di essere ammesse al governo della città.
I maestri di queste corporazioni, uniti ai membri dell’antico patriziato, costituirono una nuova alleanza di governo, escludendo dal potere comunale le corporazioni meno ricche o arti minori.
Contro questa nuova e potente alleanza si scatenò la lotta condotta dai membri delle arti minori, che segnò l’inizio della terza fase della lotta comunale.

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Corporazioni delle arti e mestieri

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Le corporazioni delle arti e mestieri, o Gilde, erano delle associazioni create a partire dal XII secolo in molte città europee per regolamentare e tutelare le attività degli appartenenti ad una stessa categoria professionale.
In Italia esse furono definite genericamente Arti ("Gremi" in Sardegna); in Francia presero il nome di Guildes, in Inghilterra Guilds, in Spagna Gremios e in Germania Zünfte. Solitamente il nome ufficiale era in latino "Universitates" o "Collegia".

Premessa
Il regime corporativo non si diffuse ovunque secondo le medesime modalità e nello stesso arco di tempo: nelle città europee più strettamente vincolate alle autorità imperiali le corporazioni si costituirono solo per iniziativa del potere signorile, sia laico che ecclesiastico, come avvenne a Strasburgo, dove i capi delle corporazioni erano nominati da un delegato del vescovo; nelle Fiandre, nonostante la grande vivacità degli scambi commerciali, ancora alla fine del Duecento, alcune città non possedevano delle associazioni di questo tipo, mentre a Lione esse verranno istituite solo nel Cinquecento.
Neppure in Italia il processo di formazione delle corporazioni può dirsi univoco, e benché la nascita e lo sviluppo di queste associazioni sia prevalentemente spontaneo e legato alla fioritura dei Comuni, non mancano delle significative eccezioni, che si rilevano soprattutto nel Sud Italia dove i capi delle associazioni erano designati dal sovrano o da un suo rappresentante e non ebbero nessun tipo di riconoscimento giuridico fino alla metà del Trecento. L'Italia offre comunque un panorama molto ricco e variegato di esperienze, a cominciare dal nome che queste istituzioni si dettero da città a città: Arti, Paratici, Fraglie, Ordini, Collegi.

Precedenti in età romana
Già in epoca romana sono attestate associazioni di quanti esercitassero uno stesso mestiere[3]: nel I secolo queste partecipavano ancora attivamente alla vita politica cittadina (come mostrano i graffiti elettorali di Pompei), ma successivamente rappresentarono piuttosto un efficace strumento di controllo locale da parte del potere imperiale, in particolare a Ostia, porto di Roma ed essenziale tappa nel percorso di approvvigionamento della capitale.
Queste associazioni prendevano il nome di corpus o collegium (più propriamente utilizzato per le associazioni funerarie o religiose). A differenza delle corporazioni medioevali (sebbene il termine di "corporazioni" sia spesso utilizzato per designarle in italiano) erano costituite principalmente da imprenditori e avevano come compito principale quello di difendere gli interessi di questi presso le autorità.
Sotto l'imperatore Diocleziano vennero create e rese obbligatorie delle corporazioni ereditarie per operai e artigiani, che garantissero la stabilità sociale dopo le profonde trasformazioni determinate dalla crisi del III secolo.

La nascita delle corporazioni
In certi casi le corporazioni sembrano formarsi come derivazione di preesistenti confraternite di carattere devozionale, mentre quelle create, per così dire, ex novo, si fondano sul sodalizio dato dal giuramento che impegna i loro membri all'assistenza reciproca e alla difesa degli interessi comuni.
Le prime corporazioni a costituirsi sono quelle mercantili, che nel corso del Duecento riescono a inserirsi e ad assumere un ruolo guida nelle istituzioni cittadine, estendendo il loro controllo a funzioni di natura pubblica come quello sui pesi e le misure e la sorveglianza delle strade. Il reale peso politico raggiunto dalle corporazioni nei governi cittadini varia molto a seconda delle città e all'interno del medesimo contesto urbano; le associazioni artigianali infatti si costituiscono in un secondo momento e sono relegate a un ruolo subalterno rispetto a quelle mercantili; così ad esempio, le Arti fiorentine vengono suddivise, rispettando il reddito possibile che i praticanti possano ottenere, in Maggiori, Medie e Minori tant'è vero che sia a Firenze che a Bologna la loro avanzata sociale si conclude con la piena affermazione in ambito politico, a tal punto che le istituzioni governative ricalcano le strutture corporative. A Milano e a Venezia il raggiungimento di un simile traguardo viene impedito dalle disposizioni della signoria dei Visconti e dall'oligarchia a capo della repubblica, addirittura a Ferrara le corporazioni vengono soppresse nel 1287.

L'organizzazione delle corporazioni
Indipendentemente dalle diversità e dal coinvolgimento politico più o meno profondo, il compito primario di ogni corporazione era la difesa del monopolio dell'esercizio del proprio mestiere e chi lo praticava pur non essendovi iscritto veniva considerato, dalla corporazione, un lavoratore che costituiva un potenziale pericolo verso gli iscritti. È quindi possibile individuare dei tratti comuni a tutte le corporazioni, riguardanti la loro linea di condotta e gli scopi perseguiti:
La tutela della qualità dei manufatti, soprattutto per quanto riguarda le corporazioni dedite alle attività commerciali; i regolamenti interni imponevano un rigido controllo sull'uso delle materie prime, gli strumenti di lavoro, le tecniche di lavorazione e quello che oggi chiameremmo la lotta ai falsi, cioè quei prodotti che non rispettavano gli standard qualitativi previsti dalle associazioni;
Il principio dell'uguaglianza tra i soci, che sebbene fosse rispettato solo formalmente, era volto a impedire azioni di concorrenza sleale tra i membri della corporazione; in realtà lo svolgimento delle attività era vincolato da un ordine gerarchico, che distingueva gli appartenenti in maestri, apprendisti e semplici lavoranti, creando una notevole disparità economica tra gli iscritti;
La particolare attenzione rivolta verso la formazione delle nuove matricole, attraverso un periodo di apprendistato (l'attuale tirocinio) che aveva durata variabile da città a città; l'apprendista entrava poco più che bambino nella bottega del maestro che si impegnava ad insegnargli tutti i segreti del mestiere;
L'esercizio della giurisdizione sui suoi iscritti, per cui le corporazioni rivendicavano una competenza esclusiva nelle materie di loro competenza, come le cause tra i membri e le infrazioni commesse verso i regolamenti.
Ogni arte aveva un proprio statuto ed era strutturata secondo degli organismi di rappresentanza che tesero a diventare sempre più ristretti:
Il Corporale: era l'assemblea plenaria degli iscritti che inizialmente si riuniva a scadenze ravvicinate ed eleggeva dei rappresentanti chiamati a seconda dei casi, consoli, priori, rettori, capitani, ecc.; i consoli restavano in carica solo per brevi periodi e avevano il compito di gestire tutte attività della corporazione, comprese le pubbliche relazioni con l'esterno;
Il Consiglio: era un organo di consulta più ristretto con il compito di ratificare o respingere le decisioni dei consoli e si sostituì progressivamente al Corporale, convocato sempre meno frequentemente;
L'Apparato burocratico: composto in genere da un notaio con funzioni di segretario e addetto al protocollo e un tesoriere.

http://it.wikipedia.org/wiki/Corporazio ... e_mestieri
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Fraglia

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La fraglia (anche fragia o frala, con il significato di "fratellanza", da fratalia o fratalea) indica nel Veneto e nei territori facenti parte della Repubblica di Venezia le corporazioni di arti e mestieri o le confraternite religiose.
Corporazione di arti e mestieri con questo nome sono attestate a partire dal XIII secolo nelle città di Venezia, di Padova e di Vicenza che si occupavano degli interessi dei propri associati e offrivano una garanzia di qualità curando la loro formazione.
L'associazione si riuniva in un "capitolo", che aveva sede in genere nella chiesa della contrada in cui tendeva ad abitare chi praticava un certo mestiere. Possedevano un altare o una cappella dedicata al santo protettore e partecipavano alle processioni.
A capo della fraglia erano eletti dei gastaldi, mentre i massari ne amministravano il patrimonio e riscuotevano i contributi degli iscritti.

Fraglie di Padova
A Padova agli inizi del XIII secolo esistevano trentaquattro fraglie e nel 1287 furono fissate dal comune in numero di trentasei. L'iscrizione era obbligatoria per esercitare un'attività. I capi delle fraglie entravano di diritto nel "Consiglio degli Anziani".
Notai
Mercanti
Osti
Pellicciai
Cardatori
Sarti
Barbieri (anche come chirurghi)
Medici
Fabbri
Cordai
Sellai
Straccivendoli
Macellai
Muratori
Bovari
Fornai
Tessitori di lino
Falegnami
Ortolani
Fruttivendoli
Barcaroli di San Giovanni
Sellai
Ciabattini
Orafi
Barcaroli di Ognissanti
Mugnai
Portatori di vino
Lanaioli
Speziali
Mastellai
Pescatori
Sallaroli (salatura e conservazione dei cibi)
Fabbricanti di panni pignolati
Casolini
Legnaioli
Scodellari

Fraglie di Vicenza
L'esistenza delle fraglie è contenuta nello statuto del comune del 1264. Esistevano 8 fraglie (dei mercanti, dei merciai, dei calzolai, dei macellai e degli albergatori) a cui si aggiungevano i collegia dei giudici e dei notai. Le fraglie aumentarono man mano fino ad arrivare nel 1389 a 29.

http://it.wikipedia.org/wiki/Fraglia
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