Era, si può dire, fatale che tra papa Bonifacio VIII, l'energico campione delle più sconfinate pretese clericali, e Filippo IV, uno dei primi rappresentanti del concetto moderno dello Stato, dovesse scoppiare un conflitto. Sin dal XII secolo lo Stato aveva cominciato a tassare anche i beni e redditi ecclesiastici, mentre la chiesa non voleva riconoscere questo diritto al potere civile, se non tutt'al più in casi eccezionali e previa l'autorizzazione del papa.
Ora quando sulla fine del XIII secolo i re di Francia e d'Inghilterra ad onta di tutto iniziarono a tassare di proprio arbitrio il clero, Bonifacio credette di non dover tollerare questo. Ed il 25 febbraio 1296 emanò una bolla (detta dalle parole iniziali Clericos laicis), in cui rivendicò solo a sé il diritto di imporre tributi sui beni ecclesiastici e minacciò la scomunica contro l'autorità laica che mettesse tasse di questo genere e gli ecclesiastici che le pagassero.
Ma erano ormai passati i tempi in cui le parole minacciose della curia avevano dettato legge ai popoli ed ai governi. Mentre in Inghilterra il re senza curarsi minimamente della bolla proseguì a tassare il clero, Filippo IV volle far sentire al vicario di Cristo il peso della sua mano e gli restituì il colpo emanando un divieto generale di esportazione dell'oro e dell'argento, ed impedendo così alla curia di riscuotere dalla Francia le entrate in contante.
Il dissesto finanziario piegò Bonifacio; egli interpretò con una nuova bolla del luglio 1297 il suo precedente atto in maniera che sostanzialmente se lo rimangiò. E la santificazione di Luigi IX, appunto allora compiuta dal papa, sembrò suggellare il ritorno delle buone relazioni tra Roma e la Francia.
Ma gli attriti erano semplicemente sopiti, anzi, benché non apparisse, divennero più profondi. Quando nel 1298 il papa offrì la sua mediazione per metter fine alla guerra tra l'Inghilterra e la Francia, Filippo rispose che accettava soltanto la mediazione del privato cittadino Gaetani, e dichiarò ostentatamente che la potestà civile nel suo regno spettava a lui solo e che quindi non avrebbe mai permesso l'ingerenza o la supremazia di nessuna autorità estranea in materia civile.
Se questa dichiarazione intese dare un ammonimento al papa, questi o non lo comprese o non ne tenne conto. Ed il suo orgoglio anzi aumentò a dismisura per la splendida riuscita del giubileo da lui indetto. Egli aveva proclamato che chi volesse purgarsi dei propri peccati doveva durante l'ultimo anno del secolo recarsi a Roma a pregare sulle tombe degli apostoli e dei santi; ed aveva promesso le più larghe indulgenze, valendosi del potere che come successore di Pietro gli dava il possesso delle chiavi del paradiso.
All'invito risposero centinaia di migliaia di persone. Per le vie della città eterna si stiparono per tutto l'anno folle di pellegrini, ed il papato vi guadagnò in autorità ed in denaro sonante; giacché naturalmente le indulgenze non si ottenevano gratis ed ognuno dovette deporre il suo obolo nel tesoro apostolico.
La solennità nel suo complesso assunse il carattere di una specie di grandiosa rivista dell'esercito dei fedeli schierato attorno al suo supremo pastore. Tanto più Bonifacio si stimò padrone del mondo; “il pontefice romano, egli proclamò, regna su tutti i re e su tutti i regni e su ogni creatura umana; tutti i credenti in Cristo, per quanto alto sia il loro rango, devono sottostargli, e se smarriscono la retta via debbono accogliere i suoi mandati ed i suoi ammonimenti come un malato una medicina salutare”.
A Bonifazio non doveva però mancare occasione di sperimentare in pratica quanta poca consistenza avessero tali pretese. Re Filippo IV infatti nel 1301 fece imprigionare e processare sotto l'accusa di lesa maestà il vescovo Bernardo Saisset di Pamiers che, fungendo presso di lui da legato pontificio, gli si era mostrato poco ossequiente. La risposta non si fece attendere; Bonifacio emanò una bolla rovente (Ausculta fili: 5 dicembre 1301) in cui, oltre a lagnarsi duramente di altri torti, esigeva l'incondizionata liberazione di Bernardo:
«A nessuno venga in mente di farti credere», dice il papa, alludendo manifestamente alla dichiarazione fatta da Filippo nel 1298, «che tu non abbia chi stia al di sopra di te e che tu non debba essere subordinato alla chiesa e al pontefice».
E soggiunse minacciosamente: «Chi nutre queste idee, erra, e chi persiste nell'errore é un eretico».
Contemporaneamente il papa convocò a capitolo in Roma per l'autunno successivo i vescovi francesi allo scopo di studiare sotto la sua presidenza il modo migliore di ricondurre sulla retta via il re ed il suo regno.
Di fronte a questo che era un vero e proprio guanto di sfida, il primo pensiero del re fu di assicurarsi l'appoggio della nazione. E, mentre proibiva, sotto minaccia di pene gravissime ai vescovi francesi di recarsi a Roma, Filippo allo scopo di aizzare le suscettibilità dei suoi, fece divulgare un falso testo della bolla Ausculta fili, che in forma recisa e senza sottintesi metteva in bocca al papa l'affermazione che il re era suo subordinato anche in materia di affari temporali.
Dopo ciò il re chiamò a se i rappresentanti della nazione: prelati e nobili, nonché rappresentanti delle maggiori città. Fu la prima convocazione generale degli Stati avutasi in Francia, giacché la corona aveva bensì anche in tempi precedenti convocato i rappresentanti della borghesia per consigliarsi e per assicurarsi il loro appoggio; ma una convocazione contemporanea di tutti e tre gli Stati non si era mai ancora avverata. L'anno 1302 assisté alla nascita degli Stati generali (Etats généraux).
Ma i passi fatti unanimemente dai rappresentanti della Francia presso il papa, malgrado lasciassero comprendere la loro solidarietà col re, non riuscirono ad arrestare Bonifacio sulla via per la quale si era messo, tanto più che una notevole parte dei prelati, contravvenendo ai voleri del re, aveva preferito ubbidire al suo capo spirituale e si era recata a Roma.
In risposta Filippo confiscò i loro beni. A sua volta Bonifacio rincarò la dose pubblicando una nuova bolla in data 18 novembre 1302 in cui diceva:
«Non vi é che una sola santa chiesa, e questa ha un sol corpo ed un solo capo, che è Cristo ed in qualità di suo rappresentante Pietro, nonché il suo successore, il papa. Al papa perciò appartengono ambedue le spade, la spada spirituale che egli stesso maneggia, e la spada temporale che egli ha affidato ai ren. "la Chiesa ha due spade, quella spirituale e quella temporale; la prima viene condotta dalla Chiesa, la seconda per la Chiesa; quella per mano del sacerdote, questa per mano del re ma dietro indicazione del sacerdote" (in altri termini qui si afferma che il potere civile deriva da una semplice delegazione dei potere spirituale e gli rimane subordinato, é dipendente da esso). Se pertanto i re smarriscono la retta via, l'autorità spirituale ha diritto di giudicarli. Certo, anche chi esercita questa autorità é un uomo, ma il suo potere non é umano, ma divino; chi si oppone quindi a siffatto potere, é renitente alla volontà di Dio, e per ogni creatura umana che voglia guadagnarsi la beatitudine eterna è assolutamente necessaria l'ubbidienza al sommo pontefice romano».
Fra tutti gli atti ufficiali emanati dalla curia romana la bolla Unam sanctam, di cui ora abbiamo accennato il contenuto, rappresenta il non plus ultra della presunzione clerico-papale. E si dice che Bonifacio l'abbia redatta personalmente. Ma anche altre penne vennero messe in movimento, come al tempo della lotta per le investiture, da questo riaccendersi del conflitto tra il potere spirituale e il potere temporale.
Germogliò tutta una letteratura di scritti polemici, dei quali gli uni sostennero i diritti dello Stato, gli altri i diritti della chiesa, argomentando come lo permettevano le risorse della scienza del tempo e nelle forme ad essa consuete. Tra i difensori del papato emersero specialmente i domenicani. Uno di essi, Egidio da Colonna, che morì nel 1316 arcivescovo di Bourges, nel suo trattato «Del potere spirituale» arrivò a sostenere che “non solo la sovranità politica, ma la stessa proprietà privata era un dono della chiesa ed era subordinata alla chiesa”; ed il suo confratello Jacopo da Viterbo dichiarò il “papato la fonte e la misura di ogni potere terreno, il papa la fonte di tutte le leggi, leggi che obbligano ogni creatura umana, salvo lo stesso legislatore. È naturale che per questo autore il potere spirituale sia la luce, il potere temporale il colore che esiste solo in grazia della prima”.
Dall'altra parte vediamo invece i sostenitori della monarchia negare, ricorrendo alla teoria del diritto naturale, il carattere universale del potere spirituale, segnargli dei limiti, e stabilire su basi diverse i rapporti tra lo Stato e la chiesa. Essi dicono: “Anche la potestà regia, deriva direttamente da Dio e sta accanto alla potestà spirituale del papa come una autorità di pari grado; ciascuna di esse impera nella propria sfera, e quindi l’autorità ecclesiastica non deve ingerirsi in materia civile come il potere civile deve astenersi dal prendere ingerenza negli affari della Chiesa. I beni materiali di quest'ultima sono poi soggetti alla vigilanza dello Stato, che in caso di abuso può toglierglieli. Se la chiesa può aver dei beni, gli ecclesiastici non debbono personalmente possederne; il fatto che il clero si sia tanto allontanato, come oggi avviene, dalla povertà evangelica costituisce un traviamento, e si ha da cercare di ricondurlo alla sua missione religiosa che é soltanto quella di custodire il dogma, amministrare i sacramenti ed esercitare la cura delle anime. Anche la giurisdizione ecclesiastica era ricondotta entro i suoi limiti naturali. Il clero nazionale poi in materia civile é subordinato allo Stato, cui deve pure pagare le imposte, né al papa può essere permesso di ingerirsi in questo campo”.
Notevole é in questi ultimi scritti anche l'intonazione nazionale-patriottica: i loro autori si mostrano animati da un profondo sentimento nazionale e da un vivo spirito di indipendenza. La Francia - questo é il loro ritornello costante - non tollererà mai che da qualsiasi parte si tenti di arrestarla o di impacciarla nella sua naturale evoluzione. E quindi questa letteratura francese, benché occasionata dal conflitto tra il papato e la corona, si appunta innegabilmente anche contro l'impero; il re, troviamo detto, è imperatore nel suo regno. Anzi, a dire il vero, un'altra corrente, rappresentata specialmente da Pierre Dubois, appartenente alla classe dei legisti già allora influentissima in Francia, va ancora più in là; essa rivendica alla Francia l'onore della dignità imperiale, in armonia al primato che questa nazione vanta su tutta la cristianità.
Naturalmente queste polemiche letterarie non decisero il conflitto tra il papa e la corona francese. Bonifacio invece lo acuì, riconoscendo ora in Sicilia la dominazione aragonese ed in Germania Alberto d'Absburgo, che all'inizio non aveva voluto riconoscere. Ed inoltre si preparò a colpire il suo avversario con l'anatema che in passato aveva portato ai piedi del papa tanti principi potenti e superbe corone.
Ma Filippo lo prevenne. Alleandosi con un partito d'opposizione esistente in seno alla stessa chiesa contro Bonifacio, la cui elezione considerava illegale perché fatta mentre era ancor vivo il suo predecessore, e dopo essersi nuovamente assicurato dell'appoggio della nazione, il re osò tacciare il papa di eresia, accusandolo inoltre di stregoneria e persino di vizi contro natura.
Nè basta, perché spedì in Italia uno dei suoi consiglieri, Guglielmo di Nogaret, un originario della Francia meridionale, assetato di vendicare il sangue dei suoi antenati sparso nella strage degli Albigesi, munito di pieni poteri e di abbondanti mezzi finanziari, con l'incarico di dare aiuto agli avversari del papa e di impedire ad ogni costo la pubblicazione della scomunica.
Pare che l'intenzione di Filippo fosse propriamente quella di impadronirsi della persona del papa e di trascinarlo in Francia per farlo giudicare da un concilio. A tale scopo il Nogaret si unì ai romani Colonna, i nemici mortali del papa e della sua famiglia, e lo sorprese nella sua città nativa di Anagni la vigilia del giorno in cui doveva esser letta pubblicamente la scomunica (7 settembre 1303).
Nogaret con in prima fila i Colonna, aveva organizzato un vero e proprio assalto al palazzo di Anagni, con il concorso anche dei cittadini di Anagni. Alla sera il palazzo - abbandonato da servi e prelati in fuga - era in mano ai congiurati. L'unico a non fuggire fu Bonifacio. Imperturbabile si vestì con tutte le sue insegne di papa, con tiara in testa, il bastone pastorale in mano, e si sedette sul trono in attesa dei drammatici eventi.
L'irruzione nelle stanze papali dei ribelli era capeggiata oltre che dal Nogaret, da Sciarra Colonna; quest'ultimo dopo aver ricoperto di ingiurie Bonifacio, minaccioso gli intimò di reintegrare i due cardinali Colonna destituiti, se voleva salva la vita. Bonifacio pieno di orgoglio, fece l'indignato, respinse le condizioni e con tono sprezzante sporgendo in avanti e scoprendo la nuca gli gridò in faccia "ecco la mia testai". Sembra - almeno così si racconta ma non ci sono serie testimonianza - che Nogaret (altri dicono Sciarra) a quel gesto di sfida abbia schiaffeggiato il papa con il suo guanto di ferro. Di sicuro è che fu maltrattato e oltraggiato, soprattutto dal Colonna.
Nogaret - com'era del resto il compito affidatogli - voleva arrestarlo e portarlo a Parigi, il Colonna invece lo voleva morto.Per decidersi su cosa fare impiegarono tre giorni con tanto imbarazzo dei loro seguaci. Nel frattempo la scena della violenza, dello schiaffo, dei maltrattamenti fatti al papa, si era diffusa fuori dal palazzo, per tutta Anagni, e i cittadini - che prima avevano favorito e partecipato perfino all'assalto - a difesa del loro illustre concittadino questa volta l'assalto lo ripeterono ma per liberare Bonifacio e mettere in fuga gli indegni cospiratori.
La sera stessa Bonifacio si affacciò a ringraziare e a benedire i suoi concittadini salvatori. Rimase ad Anagni ancora per qualche giorno, poi non sentendosi sicuro nella sua stessa città, volle far ritorno a Roma e per farlo volle mettersi sotto la protezione degli Orsini. Il 25 settembre faceva il suo ingresso a Roma scortato da quattrocento cavalieri, accolto trionfalmente dal popolo tripudiante per lo scampato pericolo. Ma lo attendeva l'ultimo suo fatale errore.
Ancora una volta Bonifacio si era fidato di persone sbagliate, gli Orsini si erano finti protettori, lo avevano scortato fino a Roma, ma poi finite le feste, non lo mollarono, lo tennero prigioniero con chissà quali oscuri progetti. Questo tradimento fu l'ultimo colpo per un papa superbo che aveva una autentica divinizzazione della propria persona.
Non sappiamo se dopo i maltrattamenti di Anagni, rimase stroncato più nel fisico oppure dopo questo tradimento stroncato più nel morale, sappiamo solo che febbri forti l'incolsero e quindici giorni dopo, 1'11 ottobre, moriva. Fu sepolto a S. Pietro; a ricordarlo Arnolfo del Cambio con uno stupendo monumento nella cappella Caetani, che Bonifacio si era fatta costruire nella basilica di S. Pietro di allora.
Gregorovius così commentò quel monumento: "è il monumento del papato medievale, che le potenze dell'epoca seppellirono con lui... fu l'ultimo papa a concepire l'idea della Chiesa gerarchica dominatrice del mondo...
Come abbiamo visto in tutto il suo operato questo papa aveva una mania di grandezza. Illudendosi di essere un grande papa che doveva essere tramandato ai posteri, aveva - con questa smodata ambizione della fama postuma - con lui ancora vivo, fatto disseminare un gran numero di sue statue in ogni luogo, a Orvieto, Bologna, Anagni, Laterano, S. Pietro e un numero infinite di chiese.
Ma invece della fama, appena spirato, i suoi nemici profanarono anche la sua morte, misero in giro voci secondo le quali sarebbe morto nella più cupa disperazione attanagliato da terribili rimorsi.
Sul suo trapasso sono state scritte tante cose, tante buone e tante cattive. Il cardinale Stefaneschi testimoniò con altre sette cardinali alla dipartita scrisse che la sua morte fu tranquilla, serena, e confortato dagli ultimi sacramenti.
Ferreto da Vicenza scrisse invece che “...fu invaso da spirito diabolico, battendo furiosamente la testa contro il muro, 'fino a far sanguinare la testa incanutita”, Francesco Pipino nel suo "Chronicon" scrive che "nelle convulsioni si mordeva le mani come un cane”.
Altri raccontarono cose ignominose, che lo Scartazzini nella sua "Enciclopedia Dantesca” le riportò tutte con una certa acrimonia.
Alcuni rispolverarono la maledetta sorte che aveva predetto con una lapidaria frase Celestino V al suo carceriere "è entrato come una volpe, ha regnato come un leone, morirà come un cane".
Dante (indubbiamente anche per motivi personali, per le dolorose ripercussione che ebbero nella sua vita le lotte a Firenze causate da Bonifacio) gli diede un posto all'Inferno (XXVII, 85) chiamandolo "Lo principe de' navi farisei", anche se poi indignato per la condotta di Filippo il Bello e il suo sacrilego attentato fatto ad Anagni dai suoi emissari, lo paragonò a Cristo in croce, e lo mise nel Purgatorio (Purg. XX,86-93).
A denigrarlo, lui e la sua opera, ci si mise poi papa Clemente V, per aver lasciato il Caetani la Chiesa in uno stato pietoso a causa della sua distruttiva boria e intransigenza a oltranza, poi seguito – paradossalmente - dal breve e arrendevole pontificato del mite Benedetto Xl (1303-1304).
Nella lacrimevole fine dell'uomo che non aveva voluto riconoscere al di sopra di sé alcuna autorità terrena la pubblica opinione vide il dito di Dio che aveva inteso umiliare l'orgoglio del Gaetani. Tuttavia il collegio dei cardinali si mostrò così compreso del bisogno di tutelare la dignità della Santa Sede, che con rara unanimità e dopo tre soli giorni di conclave diede (22 ottobre 1303) un nuovo capo alla cristianità nella persona del generale dei domenicani, Nicola Bonvicini di Treviso, uomo di bassi natali. Per lo spazio di 75 anni fu questo l'ultimo conclave tenutosi in Roma. Il nuovo eletto, che prese il nome di Benedetto Xl (1303-1304) era stato partigiano di Bonifacio, al pari del resto di tutto l'ordine cui egli apparteneva; ma non trovò l'energia necessaria a proseguire nella politica del suo predecessore. Restituì anzi ai Colonna i loro beni e revocò le disposizioni emanate da Bonifacio in odio al re di Francia. Soltanto dopo che, di fronte al fermento a lui ostile manifestatosi in Roma, si trovò costretto a fuggire a Perugia, la cittadella del guelfismo italiano, il papa assunse un'attitudine più virile e si decise a condannare per lo meno gli immediati esecutori e complici dell'attentato di Anagni. Se non che, poco dopo, il 7 luglio 1304 lo colse la morte a Perugia.
Ed appunto a Perugia fu tenuto il nuovo conclave. In seno al collegio dei cardinali si formarono due partiti diametralmente opposti; da un lato i bonifaciani o il partito patriottico italiano, dall'altro i francofili. Ne l'uno né l'altro riuscì a raggiungere la maggioranza necessaria per l'elezione del papa. I bonifaziani allora credettero di spuntarla proponendo l'arcivescovo di Bordeaux, Bertrand de Got, un guascone, che, sebbene suddito di re Filippo, aveva fama di nemico della Francia e di fautore della politica di Bonifacio VIII. Ma, quando i francesi sondarono l'ambizioso prelato, s'avvidero subito che la tiara gli stava assai più a cuore che le sue convinzioni, e perciò gli dettero anche i loro voti; e Bertrando venne eletto il 5 giugno 1305 assumendo il nome di Clemente V (1305-1314).
"da http://cronologia.leonardo.it/umanita/papato/cap079.htm"